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Calciatori Fabio Belli

Paul Breitner: il Maoista con il Libretto Rosso in una mano ed un dopobarba nell’altra

di Fabio BELLI

I soprannomi: a volte ti si appiccicano addosso, altre sei tu che fai di tutto per farti etichettare in un certo modo. Paul Breitner ha mosso i primi passi nel calcio internazionale con l’etichetta di “Der Afro” per i suoi capelli che, a prima vista, avrebbero indicato più un’appartenenza alla band Kool and the Gang piuttosto che alla nazionale teutonica. In men che non si dica però il terzino sinistro, capace di collezionare 48 “caps” nella nazionale della Germania Ovest tra il 1971 ed il 1982, è diventato “Il Maoista“. Questo per il suo feroce impegno politico che lo portò anche a farsi ritrarre in occasione di alcune interviste con il Libretto Rosso di Mao Tse Tung in bella vista e a offrire lo stesso in regalo ad alcuni avversari prima dell’inizio delle partite.

Nato nel cuore della Bavaria, Breitner è stato uno dei calciatori più vincenti della sua generazione. Ha fatto parte del Bayern Monaco Campione d’Europa nel 1974 prima di passare per tre anni tra le fila del Real Madrid. Un trasferimento aspramente criticato dall’opinione pubblica tedesca che contestava l’incoerenza nell’impegno politico a sinistra contrapposto alla militanza nella squadra del generalissimo Franco. Nel 1977 il ritorno in Germania dove l’unico club disposto ad ingaggiarlo è l’Eintracht Braunschweig, piccola società dalle grandi risorse finanziarie poichè sostenuta dall’allora patron della Jagermeister. Il ritorno in patria del Maoista è però… amaro di nome e di fatto, visto che Breitner predica equità sociale, ma sarà uno dei primi calciatori a strizzare l’occhio allo show business: produce film, fa l’attore, si concede alla pubblicità rinunciando per un aftershave alla barba da intellettuale rivoluzionario.

Gli atteggiamenti da primadonna mal sono digeriti nell’ambiente provinciale del piccolo Eintracht. A cavar d’impaccio Breitner arriva il suo club natale, il Bayern, che se la passa abbastanza male. L’alchimia si ripropone subito: “Der Afro” torna nel 1978 e nel 1981, dopo sei anni di digiuno. il Bayern riconquista il Meisterschale con Breitner votato calciatore tedesco dell’anno. Una seconda giovinezza che lo porterà a disputare con la maglia della nazionale la seconda finale mondiale della sua carriera: Breitner infatti è stato Campione del Mondo nel 1974 trasformando il rigore dell’1-1 contro l’Olanda di Crujyff, prima della zampata vincente di Gerd Muller. Due anni prima, a soli 21 anni, aveva conquistato il titolo Europeo. Il bis nel 1980, a Roma, non ci fu perchè Breitner, per gli atteggiamenti sopra descritti, era divenuto nemico giurato del CT Schoen. La frattura totale ci fu nel 1978, quando Breitner espresse il suo rifiuto all’idea di giocare i Mondiali del 1978 in Argentina, nazione all’epoca stritolata dalla dittatura del generale Videla. Scelta che, oltre ad attirare l’ostracismo di Schoen, gli costò forti critiche da parte dei tifosi tedeschi che rilevarono come le motivazioni politiche non gli impedirono di intascare il ricco ingaggio del Real Madrid. Il ritorno ci sarà solo nel 1981 con l’arrivo di Jupp Derwall in panchina, giusto in tempo per partecipare a Spagna’82 ed aggiungere un argento alla collezione delle medaglie.

Contro l’Italia infatti la Germania Ovest vivrà un destino opposto a quello del 1974 ma Breitner andrà a segno nella finale del Bernabeu proprio come aveva fatto otto anni prima all’Olympiastadion di Monaco contro l’Olanda. Diventa così uno dei quattro giocatori nella storia del calcio ad aver segnato in due differenti finalissime dei Mondiali di Calcio: gli altri sono i brasiliani Pelè e Vavà ed il francese Zidane. Sarà il canto del cigno per il maoista che si ritirerà l’anno successivo e resterà nel suo habitat naturale, la Baviera, dove attualmente lavora come osservatore per il Bayern.

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Alessandro Iacobelli Calciatori

Kazimierz Deyna, il polacco che ha stregato il mondo

di Alessandro IACOBELLI

Metro, compasso e pallone. Kazimierz Deyna e i suoi piedi: un lusso. Una vita baciata dal talento ma rovinata da un maledetto nemico: l’alcol. Così, nel 1989, il cuore di un fuoriclasse si è fermato per sempre. Un terribile schianto ha tolto alla Polonia il suo simbolo.

Il perno di una generazione irripetibile. Starogard-Gdanski è la sua città d’origine. La locale squadra del Wlokniarz colora l’alba agonistica. Il nome di Deyna comincia fortemente a circolare in ogni dove. Dai taccuini degli osservatori alle stanze dell’Esercito non si parla d’altro. L’amore tra Kazimierz ed il Legia Varsavia sarà immediato e chilometrico. Quattordici anni: regista, mediano, fantasista e goleador. Corporatura da ballerino, bacchetta da maestro d’orchestra in una mano e tavolozza da pittore nell’altra.

Gadocha non lo sopporta, ma non potrà fare a meno dei suoi assist già pronti per l’uso. La frizzante ala, paragonato al brasiliano Garrincha, costruirà con un manipolo di scudieri la leggenda polacca degli anni settanta. Il ct Gorski scrive la sua filastrocca. Tomaszewski tra i pali. Zmuda (transitato anche nello stivale con Verona e Cremonese) colonna arretrata. Sui binari laterali corrono due treni ad alta velocità come Lato ed il già citato Gadocha. In avanti la boa in grado di finalizzare la mole costruita: Szarmach.

Con questo scacchiere i biancorossi salgono sul gradino più alto del podio nelle Olimpiadi del 1972 contro l’Ungheria. Doppietta nella finalissima e dolce antipasto del calcio champagne sfoderato due anni dopo. Nel 1974 infatti si disputano i Mondiali in Germania. I Mondiali del derby teutonico Est-Ovest, della rivoluzione totale olandese e della Polonia spumeggiante.

Nel girone 4 la truppa biancorossa trova Argentina, Italia e Haiti. Il blitz contro gli azzurri segnerà un’epoca. Gli eroi del ’70 cadono sotto i colpi di Szarmach e proprio di Deyna. Un destro terrificante che trafigge Zoff. Agevole anche la seconda fase, con le facili vittorie su Svezia e Jugoslavia. Kazimierz firma il raddoppio su rigore al cospetto dei “Plavi”. La “Fatal Francoforte” chiude il cassetto dei sogni. Gerd Müller rompe il tenero incantesimo. Le consolazioni non mancano: Lato capocannoniere e Deyna miglior giocatore della rassegna. Sarà comunque terzo posto grazie al successo di misura sul Brasile. Passano due anni e la nazionale polacca conquista la seconda piazza in un’altra Olimpiade. Questa volta è la Germania Est a condannare i ragazzi di Gorski.

E il Legia? Vince. Due campionati (1968-1969, 1969-1970) e due Coppe di Polonia (1966, 1973). Nel 1978 Il Machester City è una pista libera. Deyna sbarca in Inghilterra con tante attese e responsabilità. Alcuni problemi di natura fisica bloccano i progetti di leadership dell’asso polacco. La tifoseria ringrazierà ugualmente Kazimierz per l’impegno profuso. Dodici reti e tante giocate d’alta scuola non si dimenticano.

Accetta un ruolo nel mitico film “Fuga per la vittoria” con Pelè e Ardiles. La fuga, quella vera, sarà negli USA. Si stabilizza a San Diego. Sockers e Legends gli ultimi lidi visitati da un artista del pallone tradito da una letale dipendenza.

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Fabio Belli Nazionali

Le mille suggestioni del derby del fiume Congo

di Fabio Belli

La Coppa d’Africa regala sempre suggestioni importanti, spesso capaci di creare incroci che non hanno nulla da invidiare a quelli che, ad esempio, hanno fatto la storia dei Mondiali.

Così come nel 1974 due mondi si tesero idealmente la mano nella sfida tra Germania Est e Ovest, nell’edizione 2015 del trofeo in Guinea Equatoriale le due anime del fiume Congo si sono ritrovate di fronte. La Repubblica del Congo (capitale Brazzaville) contro la Repubblica Democratica del Congo (capitale Kinshasa), che una volta si chiamava Zaire. E che proprio in quel Mondiale, Monaco ’74, ha partecipato come prima squadra dell’Africa Nera a essere presente in una rassegna iridata, con le pressioni del regime che fecero saltare i nervi a Mwepu Ilunga che spazzò via la palla ancor prima che il Brasile, con lo specialista Rivelino, potesse battere un calcio di punizione.

L’Africa è un gioiello bellissimo vista dall’alto sorvolando il fiume Congo, che divide due Nazioni che si portano dietro però tutti i problemi, le contraddizioni e le sofferenze del Continente Nero. La divisione è puramente coloniale: francesi da una parte, belgi dall’altra, ma un filo sottile continua a unire le due popolazioni, tanto che prima dello scontro in Guinea Claude Le Roy, allenatore del Congo “Brazzaville”, si era detto comunque felice che il Congo, in un modo o nell’altro, in semifinale ci sarebbe stato.

La partita è stata folle e imprevedibile come solo in Coppa d’Africa può avvenire: Repubblica del Congo, sfavorita alla vigilia, avanti di due reti in apertura di ripresa dopo un primo tempo chiuso sullo zero a zero. Quindi si scatena la Repubblica Democratica del velocissimo Yannick Bolasie e del bomber Mbokani e, in meno di mezz’ora, il risultato passa sul 2-4. Quanto basta per assistere all’incredibile esultanza di Muteba Kidiaba, il portiere del Mazembe, l’unica squadra africana che abbia mai giocato una finale del Mondiale per Club (nel 2010, contro l’Inter). Kidiaba si siede e inizia a saltellare trascinandosi sul sedere, come se avesse il… didietro a molla.

Se non lo si vede, non ci si può credere: una partita comunque giocata a mille all’ora, con l’allegria tattica che potenzia la prestanza fisica di giocatori che nel calcio che conta arrivano a militare nella Serie B inglese, al Terek Grozny in Russia o al massimo alla Dinamo Kiev, come il centravanti della Repubblica Democratica, Dieumerci Mbokani. Proprio così, in francese Mbokani si chiama “grazie a Dio”. Inoltre il talento più cristallino della squadra, Kebano, numero dieci classe ’92 cresciuto nel Paris Saint Germain e passato tra le fila del Charleroi in Belgio, di nome di battesimo si chiama Neeskens. Chiaro omaggio all’asso dell’Olanda degli anni ’70, di cui Neeskens Kebano ricalca in parte le movenze. Mille storie in una insomma, come solo l’Africa sa riservare col suo calcio folle e in parte ancora spensierato.

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Calciatori Fabio Belli Nazionali

Jurgen Sparwasser: 45 anni fa il gol che abbatté il Muro per una notte

di Fabio BELLI

In Germania Est, in pieni anni ’70, lo sport era sfoggio atletico di olimpismo. I calciatori erano prevalentemente scarti di altri sport, non molto considerati dall’opinione pubblica ma soprattutto dai vertici della DDR, interessati a propagandare la forza della Germania Orientale tramite l’atletica, la ginnastica, il nuoto. Quando le due Germanie il 22 giugno 1974 si trovarono così di fronte nella gara che assegnava la vetta nella prima fase a gironi dei Mondiali del ’74, la partita assumeva contorni socio-politici storici, ma dal punto di vista sportivo nessuno si aspettava grandi cose dalla formazione dell’Est che peraltro aveva già fatto la storia nelle due precedenti partite entrando tra le prime otto del mondo per la prima volta nella propria storia.

La corsa al primo posto sembrava di esclusivo appannaggio della Germania Occidentale: piena zeppa di campioni, passando da Beckenbauer a Gerd Muller e arrivando fino al dualismo tra Overath e Netzer, non poteva farsi sfuggire il primato del girone per regalarlo ai cugini dell’Est. Giocando in casa poi! La partita si svolgeva al Volksparkstadion di Amburgo, e la tensione cominciò a montare giorni prima del faccia a faccia. Vennero concessi 8.500 biglietti per i tifosi provenienti dall’Est, i quali solo per il giorno della partita, e strettamente per il tempo necessario al viaggio, poterono usufruire di un visto turistico per oltrepassare il muro di Berlino, marcati stretti e schedati dai VoPos che controllavano l’afflusso in entrata e in uscita. Si diceva addirittura che la Banda Baader-Meinhof, il più temuto gruppo terroristico tedesco in assoluto, fosse pronta ad imbottire lo stadio di tritolo per approfittare dell’enorme visibilità che l’evento avrebbe avuto a livello mondiale.

Fortunatamente nulla di tutto questo accadde ed anzi la partita risultò essere una delle più interessanti del Mondiale. Ci furono occasioni da gol da una parte e dall’altra, Kreische per la Germania Est e Grabowski per la Germania Ovest fallirono nel primo tempo comodissime opportunità. Gli occidentali di Helmut Schoen, col peso del pronostico, non solo in merito alla partita ma con l’intero Mondiale ed il ruolo di padroni di casa sulle spalle, non riuscirono ad esprimere al meglio il loro potenziale. Si arrivò a 13′ dalla fine col punteggio ancora in parità e la sensazione che un eventuale 0-0 finale avrebbe salvato capra e cavoli, permettendo alla RFT di chiudere in testa e alla DDR di fare bella figura smorzando così ogni tipo di eventuale tensione.

Arrivò però il minuto 78, quando dalle retrovie Kurbjuweit fece partire un lungo lancio sul quale la difesa della Germania Ovest si trovò impreparata: il centravanti Jurgen Sparwasser, stella del Magdeburgo vincitore di una Coppa delle Coppe ai danni del Milan, addomesticò la sfera di testa e, dopo averla lasciata rimbalzare, si liberò di Vogts scagliando il pallone alle spalle di un impietrito Maier. La Germania Est si prese così partita e primo posto, e per la prima volta il regime della DDR celebrò l’impresa con toni trionfalistici. Si parlò di premi grandiosi per gli eroi di Amburgo guidati dal CT Georg Buschner, che in realtà ricevettero una gratifica di soli 2500 marchi, già pattuita alla vigilia del Mondiale in caso di passaggio del turno. E se la Germania Ovest si consolò della prima sconfitta nell’unico vero derby mai disputato in un Mondiale proprio con la conquista del titolo iridato, gli alti papaveri della DDR, circa un decennio dopo, incassarono la beffa della fuga di Sparwasser verso l’Ovest: proprio lui, l’eroe di una generazione che anticipò ancora una volta i tempi, prima che il muro si sbriciolasse per sempre.

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Calciatori Fabio Belli

Luciano Re Cecconi, un centrocampista del futuro incatenato nel passato

di Fabio Belli

Il 18 gennaio del 1977 Luciano Re Cecconi, una delle anime dello scudetto laziale del 1974, restava ucciso al culmine di un tragico scherzo. I racconti di quel tardo pomeriggio romano nella gioielleria Tabocchini si sono susseguiti senza che emergessero mai aspetti in grado di chiudere una volta per tutte la vicenda. La versione ufficiale parlano di uno scherzo al gioielliere sicuramente inopportuno visto che ci si trovava all’apice degli anni di piombo, ma assolutamente innocente nella sua dinamica. Una rapina simulata con due dita che facevano sporgere il bavero della giacca, come i bambini. E un solo colpo di pistola, fatale, dalla mira incredibilmente precisa per un gioielliere che già aveva subito altre (vere) rapine, ma non aveva certo l’attitudine di un giustiziere della notte.

Re Cecconi con Giorgio Chinaglia
Re Cecconi con Giorgio Chinaglia

Destino. E per quanto Re Cecconi era benvoluto non solo dai suoi cari, ma da tutto l’ambiente biancoceleste e del calcio nazionale, la perdita umana risulta ancora incalcolabile. Ma la vicenda anche dal punto calcistico nasconde una morale amarissima: il nome di Re Cecconi viene indissolubilmente, inevitabilmente legato alla grottesca vicenda della sua morte, quando il giocatore in sé avrebbe meritato ben altra considerazione nell’immaginario collettivo. Re Cecconi rappresentava infatti il prototipo del centrocampista moderno, una delle creature più belle della macchina costruita da Tommaso Maestrelli, scomparso per ironia macabra di quel destino cinico e beffardo che ha avvolto quella squadra, poco più di un mese prima dell’angelo biondo.

All’epoca, la Lazio del 1974 visse il suo massimo splendore di pari passo con l’apogeo dell’esplosione del calcio atletico olandese e tedesco. La finale di Monaco ’74 assunse agli occhi di tutti i contorni di una svolta epocale, nel passaggio tecnico-tattico da quelli che erano stati i contenuti del Mondiale messicano di quattro anni prima. In molti trovarono analogie tra la Lazio e quell’Olanda, ma il modello vincente che si impose in quel periodo, proprio per le vittorie conseguite sul campo, fu quello teutonico. Il Bayern Monaco tre volte campione d’Europa si contrapponeva all’altra grande del periodo, il Borussia Monchengladbach. Che a centrocampo schierava una sorta di fotocopia di Re Cecconi, Gunter Netzer: stessi capelli biondi, stessa fisionomia, stesse movenze.

Gunter Netzer
Gunter Netzer

O meglio, quasi: il dinamismo di Re Cecconi, Netzer non lo ha mai avuto. Piedi più “nobili” sì, e questo ne compensava alcune carenze nella corsa. Tanto che il tedesco, pur soffrendo in Nazionale la rivalità con i colossi del Bayern, arrivò alla maglia del Real Madrid. In Italia “Cecconetzer”, come fu ribatezzato da alcuni, restava il fulcro di una Lazio che si giovava delle sue particolarità, uomo ovunque del centrocampo capace di siglare anche gol eroici come quello contro il Milan che fece esplodere l’Olimpico all’ultimo minuto, negli anni d’oro dell’epoea di Maestrelli. In quell’inizio di 1977 la Nazionale azzurra era in piena rifondazione, pronta a vivere una rinascita che dai Mondiali argentini sarebbe culminata nel titolo del 1982. Nonostante essere fuori dal circuito delle grandi squadre del Nord avesse sempre penalizzato Re Cecconi, difficile pensare che nella rifondazione di Bearzot non ci sarebbe stato spazio per “Cecconetzer”. L’orologio della sorte si fermò però per sempre su quel maledetto 18 gennaio del 1977, e l’immagine di Re Cecconi finì incatenata a quell’assurdo, tragico scherzo, mettendo in secondo piano le straordinarie qualità del calciatore, addirittura epocali a livello tattico.

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Fabio Belli Nazionali Stadi

Malta – Germania Ovest 0-0, un sogno in pozzolana datato 1979

di Fabio Belli

L’enciclopedia Treccani riporta: “Pozzolana: Materiale piroclastico incoerente, emesso dal vulcano nella fase esplosiva e come tale costituito principalmente da piccolissimi granuli vetrosi, più o meno porosi, a cui si accompagnano piccoli cristalli di minerali diversi.” Parliamo di un materiale magico soprattutto per chi, anni fa, prima dell’avvento delle superfici sintetiche e del calcio onnipresente in televisione, faceva il pieno di partite nei campetti di periferia, o comunque nelle serie minori che non potevano permettersi un campo in erba naturale e la relativa manutenzione.

Il campetto in terra, classico e spesso contornato di tribune in legno, dove si respirava passione per un calcio non raffinatissimo tecnicamente, ma sicuramente vissuto col massimo trasporto. Abbiamo sottolineato l’avvento dell’erba sintetica, ma ancora oggi il campo in terra non è certo una rarità. Allora come ora, sarebbe quasi impensabile vedere i campioni del calcio internazionale misurarsi con una superficie del genere, se non per qualche sporadico evento di beneficenza.

E invece, nell’inverno del 1979, qualcosa di incredibile, agli occhi di chi il calcio lo segue oggi, accadde. Una partita passata già di per sé alla storia per il suo risultato: la piccola Malta ospita i colossi della Germania Ovest, nelle qualificazioni all’Europeo italiano del 1980. Una squadra che si appresta ad essere grandissima, che proprio in quell’edizione si laureerà campione d’Europa, e che nel 1982, nel 1986 e nel 1990 raggiungerà la finale dei Mondiali, vincendo nell’ultima occasione. In quella squadra è già titolare fisso Karl Heinz Rummenigge, che diventerà uno dei più forti attaccanti del calcio tedesco di sempre. Un mix tra vecchio e nuovo, con Sepp Maier in porta e il “bello” e talentuoso Hansi Muller in attacco.

Malta invece rappresenta l’estrema periferia del calcio, quando i microstati come Far Oer, Andorra e San Marino ancora non fanno parte dell’élite europea, e alle qualificazioni per la rassegna continentale sono maltesi, ciprioti e persino finlandesi a portare sulle spalle la nomea di squadra-materasso. Molto più di ora in cui ogni tanto arrivano punti in classifica e sconfitte più che onorevoli, come ad esempio quella che la nazionale maltese ha rimediato pochi giorni fa contro l’Italia di Antonio Conte.

Risultato consegnato alla storia, dicevamo, perché Malta riesce a bloccare sullo zero a zero i fortissimi tedeschi occidentali, e quello che accade sul campo di Gzira il 25 febbraio del 1979, resta nel mito del calcio maltese. Già, sul campo di Gzira: i fans di Malta ci perdoneranno se per una volta ci concentreremo non su cosa avvenne, ma su dove avvenne. Il pareggio in sé fu una sorpresa abbastanza clamorosa, detto del divario fra le due squadre, ma il cammino della Germania Ovest verso l’Italia era segnato in positivo, e quello non fu che un piccolo rallentamento nella vittoria del girone di qualificazione.

Lo zero a zero maturò però in uno stadio dove non c’era l’erba, particolare più unico che raro per una partita internazionale anche per quei tempi. E le foto che si possono ritrovare sono un fantastico anacronismo: i primi prototipi del calcio miliardario, i tedeschi occidentali che, con lo sbarco dell’Adidas e della Coca Cola nella FIFA a piedi uniti proprio a partire da Monaco ’74, hanno iniziato a girare il mondo guadagnando cifre da capogiro, costretti a guadagnarsi il ticket per l’Europeo (all’epoca ad otto squadre, e con il girone di qualificazione necessariamente da vincere) su un campetto simile a quelli che si trovano nei quartieri popolari di tutto il mondo.

Si trattava del vecchio Empire Stadium, che ospitava la nazionale in attesa che venisse approntato il National Stadium Ta’Qali a La Valletta, la capitale. Per una realtà come quella del calcio maltese, l’erba era un lusso, non certo un obbligo: e in via eccezionale, i giganti tedeschi si sarebbero adattati, considerando che il regolamento UEFA non prevedeva limitazioni sulla superficie, purché il campo fosse a norma. E così, quello 0-0 tra Malta e Germania Ovest, è rimasto nella memoria nonostante il gioco poco entusiasmante: per i maltesi, per il risultato. Per il resto del mondo, per aver visto campioni di livello assoluto disputare una partita ufficiale, forse l’ultima a livello europeo, sulla mitica pozzolana.

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

2010: Spagna-Olanda 1-0 dts. Con Don Andrés fuori da un tunnel lungo cento anni

di Fabio Belli

Il tempo è un narratore formidabile: col passare degli anni, alcuni aspetti delle varie vicende umane passano attraverso una lente deformante che porta a una vera e propria mitizzazione, spesso anche eccessiva, dei fatti. E’ perfettamente normale dunque che le imprese più recenti, anche nel calcio, abbiano bisogno di tempo per essere metabolizzate, e poi valutate secondo il loro giusto peso. Gli appassionati però sapevano benissimo che l’11 luglio del 2010, a Johannesburg, qualcosa nella storia del football sarebbe cambiato in maniera irreversibile.

Dopo decenni di amarezze, Spagna sul tetto del Mondo
Dopo decenni di amarezze, Spagna sul tetto del Mondo

Di fronte a giocarsi infatti il primo Mondiale africano della storia, c’erano due Nazionali abituate ad essere bollate come “eterne perdenti” nelle grandi competizioni nazionali. L’Olanda, a un passo dalla gloria già per due volte, nonostante sia stata capace a più riprese di fare scuola a livello internazionale, non è mai riuscita ad andare oltre una vittoria europea, quando la squadra di Van Basten, Gullit e Rijkaard era al massimo del suo splendore. Ancor peggiori i precedenti di una Spagna, abituata a dominare il calcio mondiale a livello di club sin dalla fine degli anni cinquanta, ma che rispetto agli olandesi non era mai neppure riuscita ad avvicinarsi al trionfo Mondiale. Il massimo, addirittura, fu il piazzamento tra le prime quattro nel ’50, incredibile per una nazione che, divisa da mille campanilismi, forse non si è mai identificata al 100% nella “Roja“, troppo legata al potere centrale di Madrid, ma che vive da un secolo a pane e calcio, senza aver mai avuto una Nazionale davvero vincente.

Che qualcosa stia cambiando lo si era già capito due anni prima, quando all’alba del ciclo vincente del Grande Barcellona di Pep Guardiola, dopo 44 anni le furie rosse hanno rimesso le mani sul titolo europeo. Ma il Mondiale è un’altra cosa, e la Spagna mai è riuscita ad arrivare in finale. A Johannesburg è la prima volta, passando per delle soffertissime partite contro Paraguay e Germania, e persino una sconfitta all’esordio contro la Svizzera. Più deciso è stato il cammino degli orange, trascinati dalle prodezze di un Robben finalmente al 100% fisicamente, e di uno degli eroi del “triplete” dell’Inter, Wesley Sneijder. La vittoria contro il Brasile ha scatenato l’entusiasmo di una Nazione vendicando la sconfitta in semifinale del 1998, e gli osservatori concordano nel valutare come una squadra forte ma non eccezionale, potrebbe arrivare dove neppure Cruijff nel ’74 ed i tulipani milanisti all’alba degli anni ’90 sono mai riusciti ad arrampicarsi: in cima al mondo intero.

La finale dice però da subito che la cifra tecnica degli spagnoli è nettamente superiore, ma l’Olanda di Bert Van Marwijk ha preparato la partita nei più piccoli particolari. Il palleggio di Xavi, Iniesta, Xabi Alonso e Busquets viene soffocato sul nascere dal gioco duro degli olandesi, con un’entrata di Nigel De Jong su Xabi Alonso a gamba alta particolarmente impressionante. Per replicare il modello – Barcellona anche in Nazionale, a Vicente Del Bosque sull’altra panchina manca un Leo Messi (uno dei protagonisti mancati in Sudafrica, naufragato assieme a tutta l’Argentina allenata da Diego Armando Maradona). Pedro e Villa non riescono ad affondare come ci si aspetterebbe, e il destino della partita resta sul filo del rasoio.

La dedica del match winner Iniesta a Dani Jarque
La dedica del match winner Iniesta a Dani Jarque

Anzi, nel secondo tempo, come era prevedibile, è l’Olanda a trovare il contropiede giusto, con Robben lanciato verso Iker Casillas quasi a colpo sicuro. Il tentativo del fenomeno del Bayern Monaco si infrange però clamorosamente contro il portiere in uscita: è il momento in cui il destino decide di cambiare la storia calcistica della Spagna, e di mantenere immutata quella degli olandesi. Anche se comincia a farsi strada l’ipotesi rigori, visto che il risultato non si sblocca neanche ai tempi supplementari. Nei 10′ finali prima dei tiri dal dischetto, le certezze degli orange crollano: la squadra di Van Marwijk resta in dieci per l’espulsione di Heitinga, e al 116′ incassa la rete di “Don Andrés” Iniesta, uno dei migliori centrocampisti di tutti i tempi, penalizzato a livello “pubblicitario” dal suo carattere schivo. Scoppia una festa che per una volta unisce una Nazione dalla Castiglia alla Catalogna: la dedica finale di Iniesta a Dani Jarque, talento dell’Espanyol stroncato da un malore giovanissimo, è la celebrazione di una generazione che è riuscita a portare la Spagna dove neanche i grandissimi di cento anni di storia (e di sconfitte) l’avevano mai trascinata.

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

2006: Italia-Francia 6-4 dcr. Il colpo di testa che cambiò un copione già scritto

di Fabio Belli

Durante la lunga rassegna Mondiale con i racconti delle finali, abbiamo già parlato degli incroci del destino che spesso, davvero per un soffio, non hanno provocato sorprese epocali. Il binario della Coppa del Mondo è sempre sembrato predefinito, come guidato dalla mano invisibile della storia. Se il tiro di Hurst nel ’66 è finito dentro, e quello di Rensenbrink nel ’78 fuori, dopo aver colpito un legno a portiere battuto, non sembra un casualità. La Francia nel ’98 prima della finale sarebbe potuta uscire di scena, per un nulla, nei tre turni precedenti ad eliminazione diretta. Eppure alla fine tutto è andato così come si pensava dovesse andare. Nel 2006 invece, la finale ha scritto un copione completamente diverso da quello che gli Dei del calcio sembravano aver preparato.

Cannavaro alza la Coppa nella notte di Berlino
Cannavaro alza la Coppa nella notte di Berlino

L’edizione tedesca, stavolta in una Germania unita, come non era accaduto nel ’74, sembrava essere diventata la passerella d’addio perfetta per un grande campione della storia del calcio: Zinedine Zidane. Che dopo il trionfo del ’98, aveva preannunciato il suo ritiro alla fine del suo terzo ed ultimo Mondiale. Giocato divinamente, non appena i ritmi si erano alzati. Partita super contro la Spagna negli ottavi, addirittura leggendaria nei quarti contro il Brasile, fuori dalla finale dopo sedici anni, perfetta contro il Portogallo, per la seconda volta nella sua storia tra le semifinaliste. Mai nell’ultimo quadriennio Zizou aveva giocato così: dopo la Champions League conquistata con il Real Madrid nel 2002, la sua carriera aveva preso un lento declino, ma nell’ultimo grande appuntamento si era ridestato dal suo sonno. E aveva svegliato tutta una squadra impigrita, che fino alla partita contro il Togo aveva rischiato di nuovo l’eliminazione al primo turno, come nel 2002.

Dall’altra parte, un’Italia che a sua volta sembrava seguire lo spartito del 1970 e del 1994: partenza in sordina (stavolta era stato il ciclone “Calciopoli“, costato addirittura la retrocessione in B alla Juventus, a sconvolgere la vigilia azzurra), e poi crescendo culminato con una grande impresa in semifinale. La vittoria in casa dei tedeschi a Dortmund: Germania che proprio dal 1970 sconta un complesso quarantennale verso gli azzurri, nel quale i gol di Grosso e Del Piero alla fine dei tempi supplementari ricoprono un ruolo di primo piano. L’Italia in realtà porta ai Mondiali una generazione che, dopo aver mancato clamorosamente i Mondiali di quattro anni prima, ha l’ultima occasione per lasciare un segno tangibile nella storia del calcio. I Buffon, Nesta, CannavaroTotti, Del Piero, Filippo Inzaghi, Toni, di cui per anni si è detto meraviglie, senza che ne conseguisse un trionfo tangibile per la Nazionale. Il materiale per vincere c’è, ma come spesso avviene per i colori azzurri, tra il dire e il fare le variabili sono molte.

Nesta infatti si infortuna per l’ennesima volta in Nazionale; Totti è reduce da un grave incidente che per un soffio non gliel’ha proprio fatto saltare il Mondiale. Del Piero e Inzaghi parono dalle retrovie, e Toni, dopo anni passati a segnare a valanga con Palermo e Fiorentina, non trova il gol, un po’ alla Paolo Rossi. E la doppietta contro l’Ucraina resterà un pezzo unico. Attorno ad un Fabio Cannavaro da leggenda, che a fine stagione sarà anche insignito del Pallone d’Oro, emergono però dei protagonisti inattesi. Fabio Grosso, che con una discesa pazzesca rimedia il rigore-risolutore contro l’Australia negli ottavi, e segna il gol che fa crollare le certezze tedesche e zittisce gli 80.000 del Westfalenstadion di Dortmund. E Marco Materazzi, che di Nesta prende il posto contro la Repubblica Ceca, e che giocherà un Mondiale al di sopra di ogni previsione.

Complice anche la stanchezza per i supplementari contro i tedeschi, la finale è più a tintebleus” che azzurre. Zidane mette subito la sua firma trasformando alla “Panenka” un rigore che per poco non finisce però al di qua della linea. Nel primo tempo però l’Italia reagisce dimostrandosi squadra vera. Prima Marco Materazzi sale altissimo, e di testa pareggia. Quindi Toni timbra la traversa. La squadra di Domenech accorcia le distanze tra i reparti, e le secondo tempo, dopo la fiammata di un gol annullato a Toni, c’è un crescendo francese che culmina in una parata che ha dell’incredibile di Buffon su un’inzuccata formidabile di Zidane.

La testata di Zidane a Materazzi
La testata di Zidane a Materazzi

Sembra davvero tutto scritto: dopo la grande festa in semifinale, l’Italia sembra andare incontro verso l’ennesima delusione, soprattutto perché all’orizzonte ci sono quei rigori che hanno visto gli azzurri sempre sconfitti negli ultimi 26 anni, fatta eccezione per l’Europeo del 2000. E’ invece un colpo di testa di Zidane a cambiare la storia: ma non quello sventato miracolosamente da Buffon, ma quello rifilato a Materazzi, sempre lui, per un’offesa che porta improvvisamente la finale dei Mondiali in uno scenario di partitella tra ragazzini di 10 anni in periferia. Accade anche questo, e il re del calcio di quella fase storica del Football, esce di scena come non avrebbe fatto forse nemmeno con gli amichetti in Algeria nella prima infanzia.

La storia cambia in quel momento, per un colpo di testa che non va a segno, ed un altro che colpisce un bersaglio illecito, il petto di Materazzi, in Mondovisione. Guai a stuzzicare il destino: senza il suo leader in campo, la spinta della Francia si spegne. Si va ai rigori, dove accade qualcosa di mai visto: gli azzurri ne segnano cinque su cinque (ovviamente tirano anche Materazzi e Grosso, gli uomini del destino), la Francia sbaglia con Trezeguet e gli Champs Élysées gremiti durante la partita si svuotano in un lampo. Un trauma, anche per il presidente della FIFA Blatter che preferisce restare a consolare Zidane nello spogliatoio, invece di premiare gli azzurri. Segno che il copione scritto era un altro: ma per fortuna delle milioni di persone che affollano le piazze italiane per tutta la notte, in un revival speciale ed inatteso di Spagna ’82, il calcio ogni tanto ama anche improvvisare.

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

1998: Francia-Brasile 3-0. Le “sliding doors” di Ronaldo e Zinedine Zidane

di Fabio Belli

A sedici anni di distanza da quello che è stato l’ultimo Mondiale vinto da chi giocava in casa, si può dire che quello della Francia nel 1998 è stato davvero il delitto perfetto. E’ vero, il Brasile ha ottime chance per riprovarci nell’edizione ormai prossima, e la globalizzazione del calcio negli ultimi 28 anni ha portato il Mondiale in nazioni (Messico, Stati Uniti, Corea del Sud, Giappone, Sudafrica) senza squadre in grado di capitalizzare il fattore campo. Ma restando ai tempi moderni, tedeschi e italiani possono guardare con invidia a quanto costruito attorno ai “bleus” dai francesi in quell’estate di fine anni novanta.

L'Equipe de France per la prima volta Campione del Mondo
L’Equipe de France per la prima volta Campione del Mondo

E’ stato il delitto perfetto perché prima di loro c’erano riusciti anche inglesi ed argentini, ma facendo leva molto di più sul fattore ambientale. L’albiceleste del ’78 andò ai limiti del regolamento ed oltre, se ricordiamo la “marmelada peruana“, senza scomodare le pressioni del regime di Videla. L’Equipe de France ’98 si avvalse di una macchina organizzativa d’efficienza al pari solo di quella teutonica di Monaco ’74, quando tutto andò come doveva andare senza scomodare arbitri o strane manovre, fatta eccezione per una robusta inzuppata nel campo nella partita che di fatto valeva come una semifinale, contro la Polonia. La Francia fu impeccabile: squadra sempre protetta dal tifo incessante dello stadio nuovo di zecca, lo “Stade de France” di Saint Denis, buon sorteggio sfruttato al meglio col primo posto nel girone, nessuna nevrotica deviazione da Parigi, alla stregua dell’Italia nel ’90.

Certo, sportivamente parlando, un paio di sbandate ci furono. Innanzitutto Zinedine Zidane, chiamato ad arrivare dove neppure Le Roi Michel Platini era riuscito ad arrampicarsi, che si fa cacciare per un fallo di reazione contro l’Arabia Saudita, non esattamente una partita in grado di produrre chissà quali pressioni. Quindi, le sofferenze negli ottavi contro il Paraguay del monumento Chilavert, vittoria al golden goal, e contro l’Italia nei quarti, quando gli azzurri giocarono troppo tardi la carta Roberto Baggio, e dopo un assedio lungo un’ora e mezza e dei supplementari coraggiosi, videro infrangersi i loro sogni sulla traversa di Gigi Di Biagio. Ancora i rigori condannarono gli azzurri, per la terza volta consecutiva: passato lo “spaghetto”, i francesi ribaltarono una semifinale pazza contro la Croazia. Pazza perché Suker e compagni si fecero beffe della pressione di Saint Denis passando in vantaggio, ma si ritrovarono battuti da una doppietta di Lilian Thuram, uno che col gol, di mestiere, confidenza non doveva proprio averne.

Così, quando a Saint Denis si deve giocare la finalissima, qualcuno nell’Equipe de France comincia ad avere un po’ paura. Il super-Brasile di Ronaldo, Denilson, Cafu, Edmundo, Bebeto (ma non Romario), ha giocato solo un ottavo di finale degno della sua fama. Il Fenomeno viene da una stagione in cui l’Inter ne ha potuto toccare con mano la forza d’urto, accontentandosi però solo di una Coppa UEFA. Stellare la prova di Ronaldo contro la Lazio, ma i rimpianti per la sfida con la Juventus per lo scudetto restano, e riguardano soprattutto gli arbitri. Alla vigilia della finale però, una certezza sembra farsi strada: Ronaldo e Zidane devono riscattare in finale un Mondiale fino a quel momento non all’altezza.

Zidane in cima al mondo il 12 luglio del 1998
Zidane in cima al mondo il 12 luglio del 1998

Un film molto in voga di quegli anni era “Sliding Doors“: Gwyneth Paltrow si ritrova in una storia improntata sui bivi infiniti del destino. E come quella sera le vite di quei due straordinari campioni divergano nettamente, è sbalorditivo. Tanto si apre una stagione di successi, vittorie e prodezze per Zidane, tanto una di amarezze, dolore, infortuni e obiettivi mancati per Ronaldo. In quella che è la stranissima, ancestrale simbologia dei Mondiali, la storia cambierà quattro anni dopo, quando dopo la Champions League vinta con lo storico gol al Leverkusen da Zidane con la maglia del Real Madrid, il francese sarà costretto a una mesta passerella da infortunato in Asia, mentre Ronaldo, dopo quattro stagioni amarissime, passate quasi tutte in infermeria, tornerà il Fenomeno.

Ma a Saint Denis il 12 luglio del 1998 le “sliding doors” del destino sono tutte per Zizou. Ronaldo, lo si saprà poi in uno scandalo di proporzioni planetarie, sta in piedi per miracolo. Vuoi lo stress, vuoi le infiltrazioni per le fragilissime ginocchia, prima della partita è stato colto da convulsioni violentissime in albergo: qualche compagno di squadra pensava fosse morto. Schierarlo in campo in quelle condizioni, di fronte agli occhi del mondo intero, resta un’offesa eterna a quello che è stato il suo straordinario talento. Zidane invece arriva nelle migliori condizioni psicofisiche possibili: la squalifica paradossalmente lo ha fatto arrivare fresco e riposato alle partite chiave, e arrivati all’intervallo ha già bucato due volte di testa un incredulo Taffarel. E’ il delitto perfetto, nemmeno l’assenza in difesa di Blanc, che ha baciato nel suo rituale immancabile la “pelata” del portiere Barthez in borghese perché squalificato, intacca le sicurezze transalpine. La cavalcata finale di Emmanuel Petit per il gol del 3-0 è quella di una Nazione intera verso una gloria rincorsa vanamente per 68 anni. Zidane finisce in cima al mondo, Ronaldo in fondo alla scaletta di un aereo: per rialzarsi, al Fenomeno serviranno i quattro anni più lunghi della sua vita.

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Enrico D'Amelio Le Finali Mondiali

1974: Germania Ovest-Olanda 2-1. Quel traguardo mai oltrepassato

di Enrico D’Amelio

Gli avvenimenti della storia che si possono definire rivoluzionari hanno radici sempre lontane e non accadono mai per caso. Tra il 1915 e il 1925, il 1928 e il 1940, e tra il 1945 e il 1947, un signore inglese di nome Jack Reynolds venne chiamato ad Amsterdam ad allenare l’Ajax. Lì iniziò a mettere in pratica un nuovo sistema di gioco di democrazia tattica applicata al calcio, dove nessun giocatore era ancorato al proprio ruolo, e nel corso della partita chiunque poteva operare indifferentemente come difensore, centrocampista o attaccante. Velocità di pensiero, ricerca continua degli spazi e mai una posizione predefinita erano le prerogative di tale impostazione. Tra gli interpreti di spicco di questo ‘calcio totale’ c’era il futuro commissario tecnico della Nazionale olandese, Rinus Michels, che 27 anni dopo condurrà gli oranje a un passo dal sogno al Mondiale in Germania Ovest del 1974. Nella memoria collettiva, l’Olanda degli anni ’70 viene ricordata come la più bella espressione di romanticismo incompiuto legato allo sport. Una filosofia di vita modernissima, una continua sinfonia in movimento che ha segnato lo spartiacque tra calcio antico e moderno. Il soprannome affibbiato a questo gruppo verrà preso da uno straordinario film di Stanley Kubrick di tre anni prima: ‘Arancia Meccanica’. Nulla di violento, però, potrà mai essere assimilabile ad una delle Nazioni più libertarie e pacifiche dell’Europa di quel tempo, ma solo un accostamento cromatico e una semplificazione dialettica per un atletismo portato all’eccesso.

Il Kaiser Franz alza la Coppa del Mondo al cielo di Monaco
Il Kaiser Franz alza la Coppa del Mondo al cielo di Monaco

Non meno democratica, nonostante la turbolenta situazione storica del periodo, era la Germania ad occidente del Muro di Berlino. Da undici anni era stato istituito il campionato Nazionale (la Bundesliga), e nelle prime sette stagioni avevano trionfato altrettante squadre diverse. Dal 1970, però, iniziava l’egemonia di Bayern Monaco e Borussia Moenchengladbach, che domineranno questo decennio e forniranno gran parte dei loro uomini alla Nazionale in maglia bianca con l’aquila imperiale sul petto. I Bavaresi hanno due giocatori simbolo tra le loro fila: uno è il capitano Franz Beckenbauer, leggendario difensore di gran classe denominato “Kaiser”, per il suo modo di intendere il calcio da leader indiscusso e aristocratico. L’altro è Paul Breitner, un fantastico terzino sinistro che si conquisterà le antipatie di compagni di squadra e allenatori per l’abitudine di girare il Paese con il Libretto Rosso di Mao Tse-Tung. Un intellettuale di sinistra prestato allo sport, dovendo sintetizzare. Emblemi del Borussia erano il capitano Berti Vogts – che a proposito di simpatie politiche avrà da discutere nella gara contro i cileni col centravanti Caszely, passato alla storia come oppositore di Pinochet -, e il bomber Jupp Heynckes, che nel 2013, ironia del destino, porterà il Bayern Monaco alla conquista del triplete (Bundesliga, Champions League e Coppa di Germania) da allenatore.

Cruijff in azione durante il mondiale tedesco
Cruijff in azione durante il mondiale tedesco

I tedeschi, con un sorteggio beffardo, vennero inseriti nel Gruppo Uno, dove figuravano, oltre a Cile e Australia, i cugini più poveri, quelli a oriente del Muro di Berlino. Lì, nella DDR-Oberliga, era la Dinamo Dresda la squadra migliore del momento, anche se nei dieci anni successivi il campionato verrà vinto solo dalla Dinamo Berlino, la società di riferimento della Stasi. Un campionato di regime dilettantistico, data l’incompatibilità della concezione di professionismo sportivo con la vigente ideologia comunista. Nonostante questo, però, saranno i teutonici della DDR a battere quelli della Germania Ovest nella terza e ininfluente gara del girone per 1-0. L’ultimo atto di questo torneo, però, non può che vedere protagoniste Germania Ovest e Olanda. L’immagine di Beckenbauer e Cruijff che si scambiano i gagliardetti a metà campo è la logica conseguenza di un finale già scritto. Il Brasile Campione del Mondo in carica è orfano di Pelé, la partecipazione dell’Italia verrà ricordata solo per la lite tra Ferruccio Valcareggi e Giorgio Chinaglia a causa di una sostituzione contro Haiti, e la Polonia si accontenterà di avere tra le sue fila il capocannoniere del Mondiale, Grzegorz Lato, con sette reti all’attivo.

La storia ci racconta come finì la corsa. Il 7 luglio 1974, all’Olympiastadion di Monaco di Baviera, sono gli olandesi a dare il calcio d’inizio, e per 54 secondi non fanno mai toccare il pallone ai tedeschi. Il loro genio Johan Cruijff decide di accelerare e andare in porta con tutto il pallone, costringendo un difensore tedesco ad atterrarlo. Il calcio di rigore, il primo assegnato nella storia delle finali di una Coppa del Mondo, viene trasformato dal biondo centrocampista Johan Neeskens. La Germania Ovest è sotto in casa propria, senza aver mai avuto il possesso palla. A questo punto i ragazzi di Michels hanno il torto di guardarsi troppo allo specchio e di non chiudere il conto. Così è Breitner a prendere per mano i compagni, procurarsi un altro rigore e rimettere le cose a posto. Il primo tempo sembra incanalato sull’1-1, ma il DNA della squadra di Schoen non contempla l’ipotesi di accontentarsi, tant’è che prima dell’intervallo Vogts e compagni riescono a trovare il 2-1 grazie a un colpo di genio di Gerd Muller. Il risultato non cambierà fino alla fine, e il trofeo calcistico più prestigioso verrà alzato al cielo da Kaiser Franz.

Nonostante questo, nei cicli vittoriosi che nel calcio scandiscono i tempi della storia, l’eccezione che conferma la regola spetta di diritto all’Arancia Meccanica olandese. L’unica a presentarsi con la bacheca vuota al cospetto dell’Italia di Piola, del Brasile di Pelé o dell’Argentina di Maradona. L’unica, altresì, a potersi permettere di sfoggiare quel fascino indiscusso che è proprio solo di chi arriva a un centimetro dal traguardo, senza mai riuscire ad oltrepassarlo. Come in un finale cinematografico onirico e romantico, in cui non si capisce dove finisca la realtà e inizi l’immaginazione.

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Calciatori Fabio Belli Nazionali

Robert Gadocha, il Garrincha polacco che fece impazzire due volte Monaco di Baviera

di Fabio Belli

Monaco ’72 e Monaco ’74: le doppiette Olimpiadi-Mondiali nella stessa location non sono infrequenti nella storia dello sport (la prossima volta capiterà a Rio de Janeiro, Mondiali di calcio nel 2014 ed Olimpiadi nel 2016); meno consuete sono le occasioni in cui un protagonista di una manifestazione lo sia anche nell’altra. C’è però chi ella storia ci è riuscito, eccome, ed anche se non si tratta di uno di quei nomi che risuonano subito chiari alle orecchie degli appassionati, allora l’Olympiastadion si riempiva solo per vedere le prodezze di questa guizzante seconda punta, all’occorrenza utilizzabile, secondo gli standard tattici dell’epoca, come ala sinistra.

Robert Gadocha è stato una delle stelle del Mondiale del 1974, quello del trionfo del calcio atletico tedesco e del calcio totale olandese. Una sintesi ideale di questi modelli era però la Polonia. In una squadra ricca di talento, Gadocha era l’espressione più esaltante. Quella Polonia aveva già conquistato l’oro alle Olimpiadi del ’72, battendo nella finalissima l’Ungheria grazie alla doppietta di Deyna, regista dalla classe cristallina. Quindi partì l’assalto al campionato del mondo: in porta c’era la leggenda Tomaszewski, che con le sue parate a Wembley nel girone di qualificazione scrisse la parola fine sul ciclo dell’Inghilterra di Alf Ramsey. C’erano Zmuda, il fenomeno Lato (che sarà capocannoniere del torneo iridato) ed il già citato Deyna.

Insomma, una formazione di primissimo livello. Ma Gadocha era il beniamino del pubblico, aveva quel qualcosa in più che faceva innamorare a prima vista: la somiglianza più evidente era con Garrincha, sia per tipo di gioco che per comportamento in campo. La sua azione era simile a quella del giocoliere brasiliano: ricevuta la sfera, puntava l’avversario saltandolo in dribbling, talvolta addirittura irridendolo tornando sui propri passi per poi ricominciare da capo. Gli avversari lo conoscono poco (gioca nel Legia Varsavia ai tempi della cortina di ferro: l’apparizione internazionale più consistente con il suo club è una semifinale di Coppa dei Campioni disputata contro il Feyenoord nel 1970) e riesce così a far spiovere decine di palloni in area durante la partita, esaltando le qualità da bomber di Lato.

Nel girone eliminatorio pagheranno dazio a queste doti Argentina e Italia, messe in riga dai polacchi. Nella seconda fase, domate Svezia e Jugoslavia, la Polonia si gioca la finalissima contro la Germania Ovest padrona di casa della manifestazione. Si gioca a Francoforte, nell’erba inzuppata del Walstadion: dal maltempo, ma anche dai giardinieri tedeschi, per limitare le doti tecniche di Lato, Deyna e Gadocha. Il quale non si fa però intimorire dal pantano, e nel primo tempo fa impazzire Berti Vogts, nascondendogli il pallone a più riprese, ai limiti dell’irriverenza. Alla Germania la finale non sfuggirà grazie al solito Gerd Muller, capace di trovare la zampata vincente ad un quarto d’ora dalla fine di un match tiratissimo, ma la Polonia riuscirà a togliersi un’ultima soddisfazione, battendo nella finale per il terzo posto il Brasile di Rivelino grazie ai duetti tra Lato e Gadocha. Che dopo una fugace esperienza al Nantes, chiuderà la carriera negli Stati Uniti, dove si stabilirà definitivamente con la sua famiglia ricordando per sempre le prodezze di Monaco.