A Roma le ferite della Seconda Guerra Mondiale, alla fine degli anni Quaranta, si potevano vedere agli angoli di tutte le strade. Dal centro crocevia di destini, fino alle periferie nelle quali si concentravano i pezzi di umanità che covavano i dolori più profondi, gli abitanti della Città Eterna cercavano disperatamente di ripartire aggrappandosi a brandelli di normalità. Tra di essi, il calcio è uno dei riti che ha saputo rimettersi in moto più in fretta e la rivalità tra Lazio e Roma tornava lentamente a dividere ma in un certo senso anche unire una città dalle mille anime.
Nel 1949 i soldi però scarseggiano, e non poco. A passarsela peggio in città è la Roma che, dal momento della sua fondazione, aveva vissuto un crescendo che aveva portato allo scudetto del 1942. L’essere però il frutto di più anime calcistiche, nato dalla fusione del 1927, ha portato il club ad una dispersione d’energie che si fa sentire soprattutto a livello economico. E’ l’anno della transizione tra il presidente dell’immediato dopoguerra, Pietro Baldassarre, e Pier Carlo Restagno, che resterà in carica tre anni conoscendo l’onta dell’unica retrocessione in Serie B ma anche il riscatto dell’immediata risalita. Ad ogni modo per tirare su una squadra in grado di affrontare il campionato 1949/50 occorre fare di necessità virtù e l’idea geniale per la Roma giunse da Cinecittà ed anche per i tempi non era di certo convenzionale.
Nel popolare quartiere Mecca del cinema italiano, infatti, tra i prati sterminati dell’epoca sono anche siti momentaneamente molti campi che ospitano profughi di guerra. E’ proprio lì che la Roma scova Aleksandar Arangelovic, all’epoca ventisettenne (anche se alcune note biografiche suggeriscono che poteva in realtà avere due anni in più). Jugoslavo apolide con una passione per il calcio sfiorita a causa delle miserie della guerra. Finito in fuga in povertà a Roma, Arangelovic era stato in realtà un calciatore di professione. Aveva giocato col Padova ed anche col Milan quando i tornei ufficiali erano stati però già stati sospesi e, si venne poi persino a sapere, aveva sostenuto un provino con la Lazio che non era però riuscita a superare dei problemi legati al suo tesseramento. Arruolato nella squadra giallorossa al minimo del salario, in attesa di riprendere un’adeguata forma fisica, Arangelovic divenne in men che non si dica un idolo della tifoseria giallorossa, tanto da diventare un vero personaggio ospitato anche da artisti come Mario Riva e la compagnia Dapporto durante spezzoni trasmessi nei cinegiornali.
La sua specialità era la “bomba“, ovvero il tiro micidiale che sapeva scoccare anche da fermo. Un vero e proprio tratto distintivo che ne faceva anche un mago delle punizioni. In quell’anno la Roma si guadagnò il soprannome di “ammazzasquadroni” perché, pur lasciando per strada punti contro molte squadre modeste, riusciva a collezionare scalpi di formazioni in lotta per il titolo. Arangelovic era l’arma segreta della squadra, capace di far ammattire il fuoriclasse svedese Gren in un Roma-Milan d’altri tempi. Concluse il campionato con l’eccellente bottino di undici reti e con quattro doppiette inflitte all’Atalanta, alla Lucchese, al Venezia ed al Palermo.
A fine partita, dopo aver compiuto prodezze nella massima serie, se ne tornava a Cinecittà negli alloggi per i rifugiati. Un simbolo della precarietà dell’epoca, ma anche della voglia di riscatto che pervadeva Roma e tutta l’Italia. “Ce pensa l’Arcangelo“, cantilenavano allo stadio i tifosi giallorossi riadattando ilnome di quello slavo dallo sguardo misterioso che tenne a galla la squadra, salva alla fine per due punti, con i suoi gol. E la Roma aiutò a sua volta Arangelovic a rimettersi in pista: restò a giocare in Italia, al Novara, e poi riprese a girare il mondo, prima al Racing di Parigi e poi all’Atletico Madrid prima di intraprendere, da vero pioniere, la carriera di allenatore in Australia.
“Alla fine della stagione io e Paul partiamo per l’Italia, ci hanno organizzato dei provini. Ci stabiliamo a Prato da zia Bianca, sorella di papà, zio Egidio e da mio cugino Dimitri. Nella stessa casa vive anche il nonno e ci arrangiamo nella sua stanza: io e Paul dormiamo in un letto a castello, io sopra e lui sotto. Il nonno ha convinto quelli del Prato a farci allenare con loro. Per i primi tempi speriamo nel tesseramento, ma il Prato fa soltanto promesse e non le mantiene”.
Christian Vieri racconta, nella sua autobiografia, il rientro in Italia dopo aver passato l’intera adolescenza a Sidney. Il padre Roberto ha giocato nel Marconi Stallions sin dalla fine degli anni ’70, quindi il piccolo Bobo si è dovuto trasferire in Australia con la famiglia alla tenera età di 4 anni. Dopo aver praticato gli sport più disparati, con sommo stupore del padre, inizia a giocare anche lui a calcio e a quindici anni esordisce nelle giovanili del Marconi. Lega fin da subito con il suo compagno di squadra Paul e nel 1988 vuole tentare la fortuna nel bel paese.
Convince a partecipare a questa impresa anche l’amico australiano, che accetta l’ospitalità della famiglia Vieri, passando due mesi in Toscana. Christian decide di rimanere a Prato, mentre Paul Okon torna a Sidney pronto a giocarsi le sue chance nel Marconi Stallions.
Nella squadra degli “italiani di Sidney”, Okon (che è per metà d’origine italiana) si fa notare immediatamente per la sua capacità di sviluppare trame interessanti con la palla al piede e far filtro davanti alla difesa. Un’ottima tecnica, accompagnata da una buona visione di gioco, che lo porta ad essere titolare inamovibile nei celesti di Sidney. Collezionando nelle stagioni 1989/90 e 1990/91, ben 49 presenze, condite da 4 gol e vincendo l’Under 21 Player of the Season in entrami i campionali.
Queste eccellenti prestazioni fanno sì che arrivi anche la prima convocazione nella Nazionale maggiore. Nei “Socceroos” esordisce il 6 Febbraio del 1991, in una serata uggiosa a Paramatta durante l’amichevole persa per 2 a 0 contro la Cecoslovacchia. “È stata una serata piovosa, veramente tanto ed ero già stato convocato quando avevo 17 anni” ricorda Okon. “Sapevo che avrei avuto un’opportunità quella notte. Sono entrato nel secondo tempo”.
Sempre nel ’91 fa parte della spedizione ai Mondiali di Calcio Under 20 come capitano, segna anche un gol nella prima partita del girone C vinta per 2 a 0 contro Trinidad e Tobago. L’avventura dei giovani australiani si conclude con una finale per il terzo posto persa ai rigori contro l’URSS.
A diciannove anni, ormai lanciatissimo in patria, riceve un’allettante offerta dal Belgio.
Okon accetta e si trasferisce al Bruges, giocando fin da subito in una porzione del campo delicata che richiede esperienza e sicurezza. A fine stagione diventa campione di Belgio vincendo la Division 1 e partecipa con la Nazionale alle Olimpiadi di Barcellona.
Gli “Olyroos” superano il girone D insieme al Ghana, ai quarti battono la Svezia per 2 a 1 e in Semifinale affrontano la Polonia. Dopo un primo tempo abbastanza equilibrato, nella seconda parte la Polonia dilaga vincendo 6 a 1; è il peggior passivo registrato dalla Nazionale Olimpica australiana. Dopo aver perso l’anno precedente la finale di consolazione contro l’Unione Sovietica ai Mondiali under 20, Paul Okon perde ancora la finalina, il Ghana si impone 1 a 0.
Messe da parte le Olimpiadi, nel Bruges Paul Okon continua a giocare bene e a vincere. In totale il suo personale palmarès conta: 2 Campionati (91/92 e 95/96), 3 Supercoppe (1992,1994 e 1996) e 2 Coppe di Belgio (1995 e 1996).
A Roma, alla Lazio, occorre un sostituto di Roberto Di Matteo. Il centrocampista è titolare nella squadra di Zeman, ma vuole essere ceduto a seguito di alcune discussioni avute proprio con il tecnico boemo. Quest’ultimo chiede espressamente al direttore sportivo Nello Governato di provare a prendere un giocatore che sta seguendo da tempo, Paul Okon.
L’australiano è reduce da un brutto infortunio ai legamenti del ginocchio destro subito nel Febbraio del 1996, ma si sente pronto ad affrontare il ritiro estivo con la Lazio per la nuova stagione. Dopo cinque anni ricchi di successi con il club e personali, saluta il Bruges e il Belgio liberandosi a parametro zero e firma un contratto di tre anni con la squadra del Presidente Cragnotti.
Non ha paura dei paragoni con Di Matteo, conosce il proprio valore e, per esorcizzare qualsiasi altro timore, decide di indossare la maglia numero 16 lasciata libera proprio dal centrocampista italiano. L’ambientamento con il calcio nostrano non è semplice per nessun calciatore straniero, soprattutto poi se si passa dal placido modo di vivere il calcio in Belgio, al focoso ambiente romano.
Paul Okon dichiara al quotidiano di Dublino The Irish Time: “Per me il Campionato italiano è il migliore del mondo, in Belgio il calcio è lo sport più seguito ma rimane uno sport, ne parlano la domenica, il lunedì e poi non si sente altro fino al venerdì o al sabato. Qui a Roma ad ogni minuto della giornata, ogni canale televisivo ha programmi che si dedicano al calcio…”.
Esordisce con la maglia del più antico club di Roma, il 28 Agosto 1996 nel secondo turno di Coppa Italia nella vittoria della Lazio contro l’Avellino per 1 a 0. È il primo giocatore australiano nei quasi cento anni di storia del sodalizio biancoceleste.
Il debutto in Serie A avviene alla terza giornata, il 21 Settembre 1996, nell’incontro Inter-Lazio 1 a 1. Alla “Scala del calcio” il playmaker è titolare, gioca un ottimo primo tempo facendo vedere la sua classe e precisione nei passaggi. A dieci minuti dalla fine esce al posto di un giovane Roberto Baronio, la forma fisica non riesce a decollare. I problemi al ginocchio non sono superati completamente. Gioca complessivamente 11 gare da titolare nel girone d’andata, saltando ben 7 gare a causa dei consueti tormenti ai legamenti.
Nel frattempo il tecnico boemo viene esonerato, in panchina torna Dino Zoff e proprio Okon, fortemente voluto alla Lazio da Zeman, non le manda a dire sulla preparazione estiva che l’avrebbe danneggiato: “Il ginocchio mi ha dato molti fastidi. Le grane sono nate dal tipo di preparazione fatta con Zeman, molto dura. Non dico che non sia buona, ma non andava bene per me che ero reduce da un lungo infortunio. Senza Zeman il mio rendimento sarebbe stato diverso”.
Il primo anno alla Lazio si conclude con 18 presenze complessive (14 in Campionato, 2 in Coppa Italia e 2 in Coppa UEFA) e con il passaggio di Zeman alla Roma, commentato con sarcasmo da Paul: “Beati quelli della Roma…”.
Nella stagione seguente Sven Goran Eriksson diventa l’allenatore della Lazio. Lo svedese esplicita pubblicamente più volte la sua stima per il numero 16 che però sta vivendo un incubo. A 25 anni la sua carriera è a rischio a seguito della doppia operazione al ginocchio. Si assenta dai campi di gioco per l’intero campionato, la sua unica preoccupazione è quella di tornare a praticare lo sport tanto amato.
Allo scadere del contratto triennale lascia la Lazio vincendo (da spettatore) 1 Coppa Italia, 1 Supercoppa e 1 Coppa delle Coppe. I tifosi laziali hanno potuto solo intuire la classe dello sventurato regista australiano, sostenendolo comunque nel difficile periodo personale.
Nella stagione 1999/2000 rimane in Italia, passando alla Fiorentina. Nei viola gioca solamente un anno, accumulando 11 presenze in totale. L’anno dopo va in Inghilterra al Middlesbrough e ci rimane per due stagioni. Gioca con più continuità il primo anno, recuperando una condizione accettabile. Nel 2001/02 invece si ferma nuovamente per infortunio.
Brevi parentesi al Watford prima e al Leeds poi, permettono a Paul Okon di ritrovare un certo feeling con il campo. Nel 2003/04 torna in Italia, in serie B va al Vicenza allenato da Beppe Iachini. Anche in quest’occasione però non riesce ad esprimersi al meglio.
Per questo motivo decide di tornare in Belgio, nazione che lo ha cresciuto calcisticamente e come uomo. A 32 anni accetta le lusinghe dell’Ostenda; in maglia gialla torna ad essere un calciatore affidabile e continuo, giocando da titolare 28 partite su 34. Paul si sente finalmente quello di un tempo, ma ha il rimpianto di non riuscire a salvare l’Ostenda dalla retrocessione.
Il calvario però ricomincia nel campionato successivo. Si trasferisce a Cipro, all’Apoel dove nel 2005/06 scende in campo solamente in 2 occasioni. Il ginocchio non lo lascia in pace.
Per il Maestro Paul Okon è tempo di tornare a casa con la famiglia, si trasferisce al Newcastle United Jets Football Club per l’ultima stagione da professionista della sua travagliata carriera.
Nel 2006/07, alla soglia dei 35 anni, è voglioso di far vedere di nuovo ai suoi connazionali che è ancora in grado di saper stupire: “Voglio fare bene, voglio che la squadra faccia bene e voglio giocare il maggior numero possibile di partite. Richiedo molto a me stesso, spero di essere in grado, prima di tutto di soddisfare me e poi tutti quelli dei Jets”.
Essere così meticoloso, dedito alla disciplina, gli ha permesso di regalare lampi di ottimo calcio per quasi tutte le partite della stagione.
Solamente una persona con grande carattere, forza di volontà e amore viscerale per il proprio lavoro, avrebbe potuto perseverare senza abbattersi o, addirittura, rinunciare.
Paul Okon ha il calcio dentro, è il suo modo di comunicare efficacemente. Appena ha appeso gli scarpini al chiodo ha iniziato ad allenare nel Paese natio, prima i giovani Socceroos e poi per le squadre di club. La sua passione è travolgente, come la voglia di non smettere mai.
Il calcio di oggi sembra andare decisamente in due direzioni: da una parte, un livellamento che, soprattutto in Europa, porta le qualificazioni mondiali ed europee a mettere in mostra partite vere e muscolari anche quando squadre importanti si trovano opposte ai cosiddetti “microstati”. Le ultime imprese di San Marino, Lichtenstein e soprattutto Far Oer (doppia vittoria contro la Grecia), dimostrano come le cosiddette scampagnate contro elettricisti o falegnami di turno appartengano ormai ad un lontano passato. Dall’alta, la massiccia globalizzazione che ha portato moltissimi esordienti in ogni angolo del mondo a cimentarsi col football, stanno causando un continuo ritocco dei record di maggiore scarto di gol in incontri ufficiali.
Negli ultimi giorni, qualcosa di strano è accaduto nella Coppa di Estonia, e ripetutamente. E’ vero che nel paese baltico i primi turni della competizione vedono club della massima serie opposti a squadre di onesti dopolavoristi, ma in alcune partite si è andati avanti ad un ritmo superiore ad un gol ogni 3 minuti. E’ accaduto nel 31-0 con cui il Paide Linnameeskond si è sbarazzato del Raudteetoolised, ma ancora peggio è andato ai ragazzi del Virtsu Jalgpalliklubi, che contro il club di Serie A locale del Tallinna Infonet è stato costretto a raccogliere per ben 36 volte il pallone in fondo al sacco.
Eventi che sono stati il preludio al nuovo record mondiale stabilito in Oceania pochi giorni fa: nella sfida valevole per i giochi del Pacifico (utile anche come qualificazione ai giochi olimpici di Rio), le Fiji hanno battuto la Micronesia con un clamoroso 38-0. Considerando che praticamente nel match in questione non c’è stato recupero (per bontà dell’arbitro…) si è andati avanti ad un ritmo di un gol ogni 2 minuti e 22 secondi. E’ vero che la nazionale della Micronesia, arcipelago dove il pallone non ha mai fatto parte delle passioni e delle tradizioni degli sportivi locali, è una di quelle di più giovani costituzione e con un movimento neppure paragonabile a quelli dilettantistici. Ma lo scarto contro un avversario comunque a sua volta quasi amatoriale come le Fiji ha stupito il mondo, e soprattutto ha ricavato per la piccola nazionale un posto nella storia.
In un match ufficiale infatti il 38-0 è un record che cancella il 31-0 con cui l’Australia aveva piegato le Samoa Americane nel 2001, e che rappresentava il massimo scarto in un impegno ufficiale tra due Nazionali di calcio. C’è da dire che la Micronesia è recidiva, in quanto ha incassato un clamoroso 0-46 dalla Nazionale di Vanuatu in una sfida che non era però considerata ufficiale. A livello di club, la Coppa di Estonia sopra citata ha raggiunto la leggendaria sfida di Coppa di Scozia del 1885, in cui l’Arbroath (club ancora attivo nelle serie professionistiche scozzesi) travolse 36-0 il Bon Accord, club di Aberdeen.
Il record dei record spetta però a una partita del campionato del… Madagascar: AS Adema – SO de l’Emyrne 149-0. Un risultato incredibile che fa ancora parte del Guinness dei Primati, visto che venne omologato dalla federazione locale nonostante fosse il frutto di un incredibile protesta del So de l’Emyrne, che ad ogni calcio d’inizio buttava sistematicamente il pallone nella propria rete. Protesta che era legata ad una decisione arbitrale nella partita precedente, che era costata alla squadra la possibilità di lottare per il titolo. Una singolare iniziativa che valse un posto nel libro dei record, ma anche la squalifica fino a fine stagione per i giocatori, e per tre anni per il tecnico.
Il 2010 è stato l’anno dei sogni per chi tifa Inter. A coronamento del leggendario “triplete”, con Coppa Italia, Scudetto e Champions League conquistati dai nerazzurri allora allenati a José Mourinho nel mese di maggio, arrivarono i sigilli della Supercoppa Italiana e soprattutto nel Mondiale per Club, quando il testimone di quella squadra passò, solo per pochi mesi, a Rafa Benitez. Quella del 2010, disputata negli Emirati Arabi, fu un’edizione dell’ex Coppa Intercontinentale molto particolare. Per la prima volta lo scontro per la vittoria finale non fu tra l’Europa e il Sudamerica: una delle squadre di club con maggiore tradizione del continente africano, i congolesi del Mazembe, riuscì nell’impresa di eliminare l’Internacional de Porto Alegre in semifinale. La riforma fortemente voluta dalla FIFA andò a compimento, e quella che era fino ad allora considerata una mera formalità, divenne un torneo davvero aperto a tutte le confederazioni. L’Inter conquistò facilmente il titolo, ma una strada era stata aperta.
A ben vedere, però, quell’edizione del Mondiale per Club fu contrassegnata anche da una clamorosa prima volta. Alla competizione partecipò infatti, come da regolamento, anche la squadra campione di Oceania: la grande novità era che non si trattava di un club neozelandese, nazione che dominava la scena da quando l’Australia era passata, sia con la Nazionale che con i suoi club, alla confederazione asiatica. A sbarcare ad Abu Dhabi infatti era l’Hekari United, la prima (e finora l’unica) formazione a vincere la Champions League asiatica, proveniente da Papua Nuova Guinea.
Papua Nuova Guinea è stata a lungo la nazione più popolosa del mondo nella posizione più bassa del ranking FIFA: questo primato ultimamente le è stato scippato dalla Somalia, paese però che risente della grave situazione politica interna, che in alcuni casi non ha permesso alla federazione locale neppure di organizzare un campionato nazionale. In un continente come l’Oceania in cui il calcio è surclassato dal rugby, Papua Nuova Guinea vive poi particolarità tutte sue. Lo sport più praticato (addirittura dal 50% dei giovani locali secondo una recente indagine) è il Rugby a 13, variante di quello classico con 15 giocatori (chiamato Rugby Union, mentre in questo caso si tratta di Rugby League), nel quale Papua Nuova Guinea è addirittura al quarto posto nel ranking mondiale.
Il calcio è abbastanza in fondo nei cuori e nei pensieri della gente, tanto che un campionato semi-professionistico viene organizzato solamente dal 2006, e prima di allora l’attività era considerata puramente amatoriale. Eppure, in una nazione legata alla terra e ricca ancora di fascino e di mistero, in cui le tribù di nativi sono spesso ancora legate a tradizioni quasi millenarie, nella capitale Port Moresby l’Hekari United rappresenta quanto di più vicino a un club professionistico possa esserci nel mondo del football. La squadra è di giovanissima costituzione, ed è stata fondata proprio per regalare alla nazione un club capace di fare da traino per la costituzione del nuovo campionato nazionale, vinto sette volte dall’Hekari dalla sua costituzione, appunto nel 2006.
Ma l’incredibile exploit avvenne nel 2010, quando il 17 aprile a Port Moresby nella finale di andata della Champions League dell’Oceania, l’Hekari travolse con un clamoroso 3-0 i favoriti neozelandesi del Waitakere United. L’1-2 al ritorno non cambiò un pezzo di storia: una squadra a fortissima caratterizzazione indigena si era imposta nel più prestigioso torneo continentale. Accolti tra gli onori della nazione con le caratteristiche corone di fiori, i ragazzi dell’Hekari erano probabilmente consapevoli di aver scritto una pagina di storia, pur nell’applauso smorzato del pubblico neozelandese: benché fu una scena quasi commovente vedere i vincitori intonare “campeones, campeones” alla stregua del Real Madrid, lo scenario dello stadio del Waitakere dimostrava benissimo quale fosse il reale impatto del calcio, a livello di popolarità, nel continente oceanico.
L’Hekari United ha comunque raggiunto gli Emirati Arabi, anche se l’avventura al fianco dei campioni d’Europa e del Sudamerica è durata il tempo della sfida preliminare contro i padroni di casa dell’Al Wahda, persa 3-0. Ma nel paese delle mille tribù e degli stregoni, c’è stato un anno in cui il calcio si è guadagnato le prime pagine dei giornali. E all’Hekari United hanno assaporato la gioia di essere finalmente i migliori… dei peggiori.
87. Se la traversa di Pinilla all’ultimo minuto dei tempi supplementari fosse entrata, come l’avremmo chiamato? “Mineirazo”? Di sicuro lo spettro del “Maracanazo” i padroni di casa potranno scrollarselo di dosso solo vincendo il Mondiale; d’altra parte, sin dalla partita contro la Croazia, c’è “qualcosa”, una forza ineluttabile, che sembra voler tenere in gioco i padroni di casa. L’arbitraggio di Webb è stato perfetto, stavolta sono stati i legni ed uno strepitoso Julio Cesar a tenere in vita la Selecao e a buttare fuori il Cile di Sampaoli, per organizzazione tattica forse la più bella realtà di Brasile 2014.
88. Già, Julio Cesar: togliersi sassolini dalle scarpe prima della fine di una competizione è sempre pericoloso, ma il portiere che con l’Inter ha messo in fila 14 trofei, dopo aver compiuto cose davvero grandi contro il Cile, si è lasciato andare ad un pianto liberatorio. Metà per quello che ha passato, metà per quello che sta passando: la pressione di ritrovarsi fuori squadra nel Queens Park Rangers, ed allenarsi da solo al parco e implorare un prestito al Toronto per giocare in vista dei Mondiali; e quella dovuta agli occhi addosso di una nazione intera, che sogna solo di mettersi alle spalle quella parola, sempre e solo quella parola: “Maracanazo”.
Colombia – Uruguay 2-0
89. Si chiama James Rodriguez, ma tutti lo chiamano “Ames”, perché la J alla spagnola diventa muta. Nulla a che vedere con James Bond, ma questo nuovo idolo latino è da tempo noto a chi segue il calcio. E conosce la qualità degli osservatori del Porto nello scovare talenti in Sudamerica. Di sicuro chi “Ames” l’ha scoperto ai Mondiali è arrivato davvero tardi, considerando che su di lui si sono già riversati i rubli del Monaco, dove ha già sfornato nell’ultima stagione gol e soprattutto assist a ripetizione. Di sicuro, mai come in questi Mondiali Rodriguez ha trovato la continuità del fuoriclasse vero. Con quello di Van Persie alla Spagna e quello dell’australiano Cahill all’Olanda, la sua bordata infilatasi tra la mano tesa di Muslera e la traversa irrompe sul podio dei gol più belli di Brasile 2014. E tra Neymar, Messi, Robben e Muller, “Ames” è pronto a giocarsi la palma di stella del Mùndial.
90. L’Uruguay di Tabarez ha ceduto invece a un certo tremendismo. Dopo la vittoria contro l’Italia, la difesa di Suàrez è andata oltre il buonsenso, e questo non ha giocato all’ambiente, oltre che a una squadra appesantita dal ritorno di un Forlan non più proponibile a certi livelli. Addirittura al Maracanà era stato provato a vietare l’ingresso di tifosi con la maglia del “pistolero” del Liverpool: misura forse eccessiva. La squalifica di nove partite, e soprattutto il divieto di accesso per quattro mesi alle manifestazioni sportive di qualsiasi tipo (una sorta di “Daspo” internazionale) restano una punizione esemplare, ma inevitabile per tanta recidività. E l’umorismo della rete nel frattempo impazza…
Olanda – Messico 2-1
91. Così come il Brasile, anche l’Olanda sembra sospinta da una forza di galleggiamento che la riporta a galla nei momenti difficili. Il secondo tempo contro la Spagna è stato un autentico capolavoro, contro Australia e Messico invece Van Gaal ha trovato la giocata giusta al momento giusto. Stavolta, a salvare la baracca è stato il redivivo Sneijder, colpevole la difesa messicana a non serrare le fila proprio nei minuti finali dopo il gol di Giovani Dos Santos, ma una “stecca” così il dieci olandese non la tirava dai tempi nerazzurri. Nel frattempo, l’Olanda sembra aver già vinto il Mondiale delle bellezze allo stadio, e delle tifose in generale. Difficile non simpatizzare per gli orange, con tali supporters..
92. Va detto che col Messico il Mondiale perde una vagonata di protagonisti. Dal piojo Herrera in panchina, all’incredibile Ochoa che anche stavolta si è esibito in parate al limite del possibile. Svincolato, il portiere messicano è stato al centro di un appello di un tifoso dell’Ajaccio, in Francia, che per trattenerlo ha messo ufficialmente in vendita casa… e tutta la famiglia. Il Messico oltre che squadra simpatia (la campagna “peperoncini messicani vs. arance” ha scatenato moltissimi sorrisi su Twitter) ha dimostrato di essere anche organizzato e ben orchestrato da Herrera. Gli affondi di Robben hanno fatto cedere gli argini sul più bello: e il tabù ottavi di finale persiste per la “Tri”, fuori subito dopo la fase a gironi per il settimo anno consecutivo.
57. I Diavoli Rossi stanno vincendo e rispettando il pronostico della vigilia, ma a modo loro. Quello tra Belgio e Olanda è uno dei derby più antichi d’Europa, ma le filosofie di gioco della due Nazionali sono sempre state (soprattutto dagli anni ’70 in poi) molto differenti. Cinico, pratico ed essenziale il Belgio, spesso travolgente, esaltante e un po’ sciupona l’Olanda. Il carico di talenti con cui la squadra di Wilmots si è presentata in Brasile quest’anno, non ha cambiato questa tendenza. Ciò che è diverso, e ne avevamo già parlato, è il carico di entusiasmo con cui i tifosi in patria stanno seguendo Fellaini e compagni. Gli ottavi sono conquistati, ma il sogno è emulare gli eroi di Messico ’86, quarti.
Corea del Sud – Algeria 2-4
58. Ci agganciamo perfettamente all’argomento “migliori prestazioni” e all’argomento “derby”. Nel primo caso, l’Algeria che si giocherà la qualificazione contro la Russia, se non avesse mostrato lacune in difesa piuttosto importanti, potrebbe pensare di superare la squadra del 1982, che stupì il mondo battendo la Germania Ovest poi finalista, per poi ritrovarsi esclusa a causa di un atteggiamento abbastanza “permissivo” degli austriaci nei confronti degli stessi tedeschi nell’ultimo match del girone. Nel secondo caso, la Corea del Sud ha attirato il tifo contrario dei cugini del Nord: ha fatto il giro del mondo la foto di Kim Jong Un con tanto di sciarpa dell’Algeria. Quella fra i dittatori e il calcio è una storia che dura da molti anni, e visto che la Corea del Nord non si è qualificata, Kim Jong Un si è lasciato andare ad una botta di “Schadenfreude”.
Stati Uniti – Portogallo 2-2
59. Una delle più belle partite di un Mondiale fin qui prodigo di spettacolo. Il “Team USA” di Klinsmann è andato ad un passo da una clamorosa qualificazione anticipata agli ottavi. Il gol di Varela di un Portogallo sovrastato nel secondo tempo ha rovinato tutto, ma complice anche il fuso orario finalmente favorevole (non succedeva dal Mondiale giocato in casa) il seguito verso Dempsey (ancora in gol!) e compagni sta raggiungendo livelli da record. Le star del cinema e delle serie televisive americane si accodano ad un sostegno fin qui riservato solo agli assi del football e del basket. Jim Parsons, alias Sheldon Cooper di Big Bang Theory, ha manifestato tutto il suo tifo per gli Stati Uniti ai Mondiali, e la CBS ha dedicato uno speciale a come le sue stelle stanno seguendo Brasile 2014.
60. Messi vs. Ronaldo 2-0. Il campo dice impietosamente questo, con l’Argentina già agli ottavi ed il Portogallo a rischio di una clamorosa eliminazione al primo turno. Questo nonostante il Pallone d’Oro contro gli USA abbia regalato magie che contro la Germania non si erano viste. L’assist finale per Varela, straordinario, ma soprattutto il numero nel primo tempo, forse la giocata individuale più bella del Mondiale fino a questo momento, escludendo i gol che meritano sempre un discorso a parte, e che CR7 finora non ha ancora trovato in Sudamerica.
Australia – Spagna 0-3
61. Nella formula dei Mondiali, arrivare alla terza della partita del girone con una sfida tra due squadre già eliminate è un evento raro ma possibile. Il fatto che in questa malinconica passerella siano coinvolti i Campioni del Mondo è decisamente più inusuale: la Spagna ha salvato la faccia, ma il biglietto di ritorno era già in tasca per Casillas e compagni. Analizzare il declino di una squadra che ha fatto epoca è ancora più difficile che individuarne le ragioni del successo. Sicuramente Casillas negli ultimi sei anni aveva salvato delle partite, piuttosto che comprometterle; sicuramente l’ascesa di Piqué si è arrestata, e la mancanza di un leader come Puyol in difesa è tangibile. Sicuramente un giocatore come Xavi, non per niente pronto alla partenza verso lande arabe, non nascerà di nuovo facilmente, e il fatto che la squadra che ha vinto tutto senza centravanti, si sia inceppata all’arrivo di Diego Costa, sicuramente non è un caso. Ma è sicura anche la gratitudine di un paese che ha visto le Furie Rosse superare un complesso secolare proprio grazie a questi eroi al crepuscolo. L’ironia, che in questi casi ci sta, è arrivata prevalentemente dall’estero…
Olanda – Cile 2-0
62. Arjen Robben è sempre stato uno strano tipo di calciatore: i mezzi per diventare il più forte li ha sempre avuti. Il magnetismo glamour di Ronaldo e la continuità di Messi no, né la cattiveria di un Ibrahimovic. Complici anche gli infortuni che raramente lo hanno lasciato in pace. Quando è stato bene, sia al Bayern Monaco che in Nazionale, ha dimostrato però di poter cambiare da solo il volto delle partite. Qualcuno gli ha sempre rimproverato un pizzico di egoismo, e di imprecisione sotto porta: conto il Cile, da assist-man, ha dimostrato che un’Olanda arrivata in sordina in Brasile, può sognare la vendetta, quando in Sudafrica proprio Robben vide il sogno di un’intera Nazione infrangersi di fronte a Casillas.
Camerun – Brasile 1-4
63. E se tra i due litiganti fosse il terzo a godere? Nella grande attesa Mondiale della sfida a distanza tra Messi e Ronaldo, nessuno ha forse considerato che Neymar può contare su una spinta popolare senza precedenti. Il mondo si emoziona nel sentire tutto lo stadio, prima delle partite della Selecao, cantare la seconda strofa dell’inno senza l’accompagnamento musicale. E Neymar è finora protagonista di una squadra non del tutto convincente, ma capace di mandare già quattro volte in gol l’asso del Barcellona, che sembra particolarmente forgiato dall’anno, duro, trascorso in Europa. Dagli ottavi e dal Cile, il gioco si farà duro: vedremo se Neymar sarà già in grado di giocare: l’occasione di un Mondiale da vincere da eroe, in casa, di sicuro non capiterà più.
64. Nel cuore di tifosi ed appassionati, il Camerun del 1990 resta la squadra africana più bella ed amata mai passata in un Campionato del Mondo. Roger Milla, Thomas N’Kono, e la cavalcata fino agli spettacolari quarti di finale perduti contro l’Inghilterra. Per questo, quanto messo in mostra dai “Leoni Indomabili” in Brasile è stato un qualcosa di malinconico. Dalla stucchevole lite sui premi, ironica per una squadra incapace di raccogliere anche solo un punto del girone, a Samuel Eto’o chiuso in una gabbia dorata, infortunato e incapace di lasciare un vero segno in un Mondiale. Della squadra di 24 anni fa capace di contagiare con allegria ed entusiasmo chiunque la guardasse, nemmeno l’ombra.
Croazia – Messico 1-3
65. Comunque vada a finire, questo è stato l’anno delle forte personalità in panchina, i “caudillos” capaci di portare outsider alla vittoria. Diego Simeone all’Atletico Madrid ne è l’esempio più lampante, ma anche il “Piojo” Hector Herrera, corpulento e sanguigno CT del Messico, non si sta rivelando da meno. Le sue sfrenate esultanze stanno diventando letteralmente di culto, e chissà se l’organizzazione trovata non possa portare il “Tri” (che ancora deve subire un solo gol) dove non è mai ancora arrivato finora.
34. Gioca in America, ha 34 anni ed è un attaccante. Tim Cahill è forse un po’ fuori tempo per finire nei nostri consigli per gli acquisti. Ma il gol più bello dei Mondiali finora è suo: gran botta al volo, traversa e pallone alle spalle di Cilessen. Non è servito all’Australia, ma questo attaccante dei New York Red Bulls già contro il Cile era stato una vera spina nel fianco, prendendole praticamente tutte di testa ed andando in gol. La sua carriera in Europa l’ha già spesa, peraltro per otto stagioni e con ottimo profitto, con l’Everton. E anche se il Mondiale dei “Socceroos” è durato appena cinque giorni tra la prima partita e la seconda, la coppia Cahill-Leckie sarà ricordata a lungo dai tifosi.
35. “L’AZ Alkmaar non rinuncerà al suo gioco offensivo che gli ha permesso di arrivare all’ultima giornata in testa alla classifica.” Parola di Louis Van Gaal, che dopo le disavventure tra Barcellona e Nazionale (primo giro), si era rimesso in gioco nel piccolo club che stava, a suo di gol e risultati pazzi, mettendo le mani dopo anni sull’Eredivisie, interrompendo lo storico dominio della triade Ajax-PSV-Feyenoord. Ovviamente, l’AZ perse quella partita subendo due gol in contropiede, e il titolo: ma il nostro è un vincente, e Van Gaal riportò il titolo ad Alkmaar, nel suo nuovo laboratorio, nel 2009, rilanciandosi a livello internazionale. Questo per dire che l’Olanda è già a otto gol segnati e tre subiti in due partite, e questa Nazionale Orange sembra altrettanto pazza e spregiudicata rispetto a quell’AZ. Nel calcio di solito vince chi subisce meno, non chi picchia di più. Nel frattempo, i motivi per simpatizzare per un’Olanda così spumeggiante, non mancano dentro e fuori il campo…
Spagna – Cile 0-2
36. “Maracanazo” è una parola spagnola, non portoghese. Nonostante si riferisca alla celeberrima disfatta del ’50, il Mondiale perso in casa dal Brasile contro l’Uruguay. Un segno del destino, la scelta di quella parola, traslata oggi alla fine di un ciclo che da tre grandi competizioni (Europeo+Mondiale+Europeo) prevedeva un solo vincitore. Lo “Spagnacanazo” si è consumato proprio al Maracanà, al cospetto di un super-Cile, ma i Campioni del Mondo sono apparsi logori, stremati da una stagione di club che aveva visto le formazioni iberiche dominare in lungo e in largo. A nulla è servito l’innesto di Diego Costa: trapianto rigettato, e il dietrofront dalla Selecao alle Furie Rosse che tanto aveva fatto infuriare la Torcida, si è ritorto contro il bomber ora al Chelsea ed ex Atletico Madrid.
37. Non si giocava un Mondiale in Sudamerica da Argentina 1978. Una vera anomalia considerando la popolarità del football a quelle latitudini, ma la rinuncia della Colombia del 1986 e l’irruzione sulla scena di Africa ed Asia ha dilatato i tempi. Ora, finalmente, si stanno vedendo tifosi provenienti da tutta l’America Latina, con un calore di cui in parte si era perduta la memoria. E se i messicani hanno tenuto testa ai brasiliani, e i colombiani hanno già dato spettacolo, la “Marea Roja” cilena si è superata nel giorno dello “Spagnacanazo”. Una valanga di entusiasmo che ha raggiunto picchi da leggenda al momento dell’inno cantato a squarciagola sulle tribune del Maracanà, ed ha debordato con il trenino degli “hinchas” cileni in sala stampa, in una invasione di campo imprevedibile per l’organizzazione brasiliana.
38. Abbiamo già citato il Polpo Paul, che nel 2010 aveva pronosticato tutto il pronosticabile in Sudafrica, e della gallina colombiana che ne emula le gesta. Ma non tutti gli animali sono così precisi: il dromedario Ahmed si sta guadagnando una sinistra fama a suon di pronostici sbagliati. La Spagna ne ha pagato le conseguenze, e su Twitter in molti hanno anticipato la previsione del dromedario come fatale per la squadra di Del Bosque. Curiosamente, per la terza volta negli ultimi quattro Mondiali la squadra Campione in carica esce di scena al primo turno. La Francia nel 2002 e l’Italia nel 2010 erano però state eliminate nella terza ed ultima partita del girone eliminatorio. Dal fischio d’inizio di Spagna-Olanda a quello di Spagna-Cile, il Mondiale delle Furie Rosse è durato due partite e meno di 98 ore: un record difficilmente battibile, soprattutto sui presupposti con cui Iniesta e compagni erano sbarcati in Brasile.
Curiosità, notizie, il meglio e il peggio di Brasile2014 fino al 13 luglio.
Brasile – Croazia 3-1
1. Il fattore campo rappresenta una preoccupazione di tutti gli avversari della Selecao. L’arbitraggio del giapponese Nishimura (che pure era uno dei papabili per la finalissima, e sognava di ripercorrere le orme di Langenus nel 1930 e
di Elizondo nel 2006, che arbitrarono sia il match inaugurale che la finale) ha scatenato l’ironia della rete.
Messico – Camerun 1-0
2. Da cinque edizioni consecutive il “tricolor” si guadagna l’accesso agli ottavi di finale. Raramente ha sofferto così per qualificarsi: ma il tecnico Herrera, già divenuto un personaggio, ha addirittura lanciato la
candidatura messicana per il trionfo nel Mondiale del Messico.
3. A decidere la sfida contro il Camerun (squadra in cui ogni giocatore sembra aver avuto degli screzi con Eto’o, che per sé ha preteso una suite con Jacuzi matrimoniale da
3000 euro al giorno di sovrapprezzo) è stato l’eroe dell’Olimpiade di Londra, Oribe Peralta, che è appena diventato il più pagato calciatore della storia del campionato messicano: 10 milioni di dollari per il suo passaggio dal Santos Laguna al Club America.
Spagna – Olanda 1-5
4. La più pesante sconfitta di una nazione detentrice del titolo mondiale: il più ampio divario di sempre in una ri-edizione della finale di quattro anni prima. L’Olanda ha fatto saltare tutti gli schemi, con la Spagna che tra il Mondiale 2010 e gli Europei 2008 e 2012, aveva complessivamente subito solo sei gol.
5. A Salvador de Baia il più fischiato in assoluto, non solo del match ma di tutto l’inizio del Mondiale, è stato Diego Costa: il pubblico brasiliano non ha digerito il rifiuto del centravanti ex Atletico Madrid, ora al Chelsea, di far parte della Selecao per giocare nelle furie rosse. A fine partita si sarà pentito?
6. Il personaggio che ha
attirato maggiormente l’attenzione nella rinnovata Olanda di Louis Van Gaal è stato il 22enne difensore del Feyenoord Bruno Martins Indi. Portoghese di nascita ed olandese d’adozione, ha mostrato tutto il suo carattere soprattutto quando l’arbitro italiano Rizzoli, utilizzando il nuovo spray per segnalare righe provvisorie per la barriera sui calci di punizione, gli ha sporcato le scarpe, provocandone l’ira a dir poco funesta.
Cile – Australia 3-1
7. Mondiale in Sudamerica significa anche nuovi colori sugli spalti. La “Marea Roja” che ha affollato lo stadio di Culabà per sostenere Sanchez e compagni si è mostrata degna del calore dei tifosi di casa nel match inaugurale a San Paolo.
8. Consigli per gli
acquisti: Mathew Leckie, classe ’91, gioca nella Zweite Bundesliga nell’Ingolstadt. La sua velocità ha letteralmente impressionato, pur di fronte ai brevilinei cileni. Classe ’91, vedremo se sarà uno dei nomi caldi del mercato estivo, o se sarà uno di quei giocatori che la storia del Mondiali ci ha abituato a veder ballare una sola estate.
Durante la lunga rassegna Mondiale con i racconti delle finali, abbiamo già parlato degli incroci del destino che spesso, davvero per un soffio, non hanno provocato sorprese epocali. Il binario della Coppa del Mondo è sempre sembrato predefinito, come guidato dalla mano invisibile della storia. Se il tiro di Hurst nel ’66 è finito dentro, e quello di Rensenbrink nel ’78fuori, dopo aver colpito un legno a portiere battuto, non sembra un casualità. La Francia nel ’98 prima della finale sarebbe potuta uscire di scena, per un nulla, nei tre turni precedenti ad eliminazione diretta. Eppure alla fine tutto è andato così come si pensava dovesse andare. Nel 2006 invece, la finale ha scritto un copione completamente diverso da quello che gli Dei del calcio sembravano aver preparato.
L’edizione tedesca, stavolta in una Germania unita, come non era accaduto nel ’74, sembrava essere diventata la passerella d’addio perfetta per un grande campione della storia del calcio: Zinedine Zidane. Che dopo il trionfo del ’98, aveva preannunciato il suo ritiro alla fine del suo terzo ed ultimo Mondiale. Giocato divinamente, non appena i ritmi si erano alzati. Partita super contro la Spagna negli ottavi, addirittura leggendaria nei quarti contro il Brasile, fuori dalla finale dopo sedici anni, perfetta contro il Portogallo, per la seconda volta nella sua storia tra le semifinaliste. Mai nell’ultimo quadriennio Zizou aveva giocato così: dopo la Champions League conquistata con il Real Madrid nel 2002, la sua carriera aveva preso un lento declino, ma nell’ultimo grande appuntamento si era ridestato dal suo sonno. E aveva svegliato tutta una squadra impigrita, che fino alla partita contro il Togo aveva rischiato di nuovo l’eliminazione al primoturno, come nel 2002.
Dall’altra parte, un’Italia che a sua volta sembrava seguire lo spartito del 1970 e del 1994: partenza in sordina (stavolta era stato il ciclone “Calciopoli“, costato addirittura la retrocessione in B alla Juventus, a sconvolgere la vigilia azzurra), e poi crescendo culminato con una grande impresa in semifinale. La vittoria in casa dei tedeschi a Dortmund: Germania che proprio dal 1970 sconta un complesso quarantennale verso gli azzurri, nel quale i gol di Grosso e Del Piero alla fine dei tempi supplementari ricoprono un ruolo di primo piano. L’Italia in realtà porta ai Mondiali una generazione che, dopo aver mancato clamorosamente i Mondiali di quattro anni prima, ha l’ultimaoccasione per lasciare un segno tangibile nella storia del calcio. I Buffon, Nesta, Cannavaro, Totti, Del Piero, Filippo Inzaghi, Toni, di cui per anni si è detto meraviglie, senza che ne conseguisse un trionfo tangibile per la Nazionale. Il materiale per vincere c’è, ma come spesso avviene per i colori azzurri, tra il dire e il fare le variabili sono molte.
Nesta infatti si infortuna per l’ennesima volta in Nazionale; Totti è reduce da un grave incidente che per un soffio non gliel’ha proprio fatto saltare il Mondiale. Del Piero e Inzaghi parono dalle retrovie, e Toni, dopo anni passati a segnare a valanga con Palermo e Fiorentina, nontrova il gol, un po’ alla Paolo Rossi. E la doppietta contro l’Ucraina resterà un pezzo unico. Attorno ad un FabioCannavaro da leggenda, che a fine stagione sarà anche insignito del Pallone d’Oro, emergono però dei protagonistiinattesi. Fabio Grosso, che con una discesa pazzesca rimedia il rigore-risolutore contro l’Australia negli ottavi, e segna il gol che fa crollare le certezze tedesche e zittisce gli 80.000 del Westfalenstadion di Dortmund. E Marco Materazzi, che di Nesta prende il posto contro la Repubblica Ceca, e che giocherà un Mondiale al di sopra di ogni previsione.
Complice anche la stanchezza per i supplementari contro i tedeschi, la finale è più a tinte “bleus” che azzurre. Zidane mette subito la sua firma trasformando alla “Panenka” un rigore che per poco non finisce però al di qua della linea. Nel primo tempo però l’Italia reagisce dimostrandosi squadra vera. Prima Marco Materazzi sale altissimo, e di testa pareggia. Quindi Toni timbra la traversa. La squadra di Domenech accorcia le distanze tra i reparti, e le secondo tempo, dopo la fiammata di un gol annullato a Toni, c’è un crescendo francese che culmina in una parata che ha dell’incredibile di Buffon su un’inzuccata formidabile di Zidane.
Sembra davvero tutto scritto: dopo la grande festa in semifinale, l’Italia sembra andare incontro verso l’ennesima delusione, soprattutto perché all’orizzonte ci sono quei rigori che hanno visto gli azzurri sempre sconfitti negli ultimi 26 anni, fatta eccezione per l’Europeo del 2000. E’ invece un colpo di testa di Zidane a cambiare la storia: ma non quello sventato miracolosamente da Buffon, ma quello rifilato a Materazzi, sempre lui, per un’offesa che porta improvvisamente la finale dei Mondiali in uno scenario di partitella tra ragazzini di 10 anni in periferia. Accade anche questo, e il re del calcio di quella fase storica del Football, esce di scena come non avrebbe fatto forse nemmeno con gli amichetti in Algeria nella prima infanzia.
La storia cambia in quelmomento, per un colpo di testa che non va a segno, ed un altro che colpisce un bersaglio illecito, il petto di Materazzi, in Mondovisione. Guai a stuzzicare il destino: senza il suo leader in campo, la spinta della Francia si spegne. Si va ai rigori, dove accade qualcosa di mai visto: gli azzurri ne segnano cinque su cinque (ovviamente tirano anche Materazzi e Grosso, gli uomini del destino), la Francia sbaglia con Trezeguet e gli Champs Élysées gremiti durante la partita si svuotano in un lampo. Un trauma, anche per il presidente della FIFA Blatter che preferisce restare a consolare Zidane nello spogliatoio, invece di premiare gli azzurri. Segno che il copione scritto era un altro: ma per fortuna delle milioni di persone che affollano le piazze italiane per tutta la notte, in un revival speciale ed inatteso di Spagna ’82, il calcio ogni tanto ama anche improvvisare.
Gli avvenimenti della storia che si possono definire rivoluzionari hanno radici sempre lontane e non accadono mai per caso. Tra il 1915 e il 1925, il 1928 e il 1940, e tra il 1945 e il 1947, un signore inglese di nome Jack Reynolds venne chiamato ad Amsterdam ad allenare l’Ajax. Lì iniziò a mettere in pratica un nuovo sistema di gioco di democrazia tattica applicata al calcio, dove nessun giocatore era ancorato al proprio ruolo, e nel corso della partita chiunque poteva operare indifferentemente come difensore, centrocampista o attaccante. Velocità di pensiero, ricerca continua degli spazi e mai una posizione predefinita erano le prerogative di tale impostazione. Tra gli interpreti di spicco di questo ‘calcio totale’ c’era il futuro commissario tecnico della Nazionale olandese, Rinus Michels, che 27 anni dopo condurrà gli oranje a un passo dal sogno al Mondiale in Germania Ovest del 1974. Nella memoria collettiva, l’Olanda degli anni ’70 viene ricordata come la più bella espressione di romanticismo incompiuto legato allo sport. Una filosofia di vita modernissima, una continua sinfonia in movimento che ha segnato lo spartiacque tra calcio antico e moderno. Il soprannome affibbiato a questo gruppo verrà preso da uno straordinario film di Stanley Kubrick di tre anni prima: ‘Arancia Meccanica’. Nulla di violento, però, potrà mai essere assimilabile ad una delle Nazioni più libertarie e pacifiche dell’Europa di quel tempo, ma solo un accostamento cromatico e una semplificazione dialettica per un atletismo portato all’eccesso.
Non meno democratica, nonostante la turbolenta situazione storica del periodo, era la Germania ad occidente del Muro di Berlino. Da undici anni era stato istituito il campionato Nazionale (la Bundesliga), e nelle prime sette stagioni avevano trionfato altrettante squadre diverse. Dal 1970, però, iniziava l’egemonia di Bayern Monaco e Borussia Moenchengladbach, che domineranno questo decennio e forniranno gran parte dei loro uomini alla Nazionale in maglia bianca con l’aquila imperiale sul petto. I Bavaresi hanno due giocatori simbolo tra le loro fila: uno è il capitano Franz Beckenbauer, leggendario difensore di gran classe denominato “Kaiser”, per il suo modo di intendere il calcio da leader indiscusso e aristocratico. L’altro è Paul Breitner, un fantastico terzino sinistro che si conquisterà le antipatie di compagni di squadra e allenatori per l’abitudine di girare il Paese con il Libretto Rosso di Mao Tse-Tung. Un intellettuale di sinistra prestato allo sport, dovendo sintetizzare. Emblemi del Borussia erano il capitano Berti Vogts – che a proposito di simpatie politiche avrà da discutere nella gara contro i cileni col centravanti Caszely, passato alla storia come oppositore di Pinochet -, e il bomber Jupp Heynckes, che nel 2013, ironia del destino, porterà il Bayern Monaco alla conquista del triplete (Bundesliga, Champions League e Coppa di Germania) da allenatore.
I tedeschi, con un sorteggio beffardo, vennero inseriti nel Gruppo Uno, dove figuravano, oltre a Cile e Australia, i cugini più poveri, quelli a oriente del Muro di Berlino. Lì, nella DDR-Oberliga, era la Dinamo Dresda la squadra migliore del momento, anche se nei dieci anni successivi il campionato verrà vinto solo dalla Dinamo Berlino, la società di riferimento della Stasi. Un campionato di regime dilettantistico, data l’incompatibilità della concezione di professionismo sportivo con la vigente ideologia comunista. Nonostante questo, però, saranno i teutonici della DDR a battere quelli della Germania Ovest nella terza e ininfluente gara del girone per 1-0. L’ultimo atto di questo torneo, però, non può che vedere protagoniste Germania Ovest e Olanda. L’immagine di Beckenbauer e Cruijff che si scambiano i gagliardetti a metà campo è la logica conseguenza di un finale già scritto. Il Brasile Campione del Mondo in carica è orfano di Pelé, la partecipazione dell’Italia verrà ricordata solo per la lite tra Ferruccio Valcareggi e Giorgio Chinaglia a causa di una sostituzione contro Haiti, e la Polonia si accontenterà di avere tra le sue fila il capocannoniere del Mondiale, Grzegorz Lato, con sette reti all’attivo.
La storia ci racconta come finì la corsa. Il 7 luglio 1974, all’Olympiastadion di Monaco di Baviera, sono gli olandesi a dare il calcio d’inizio, e per 54 secondi non fanno mai toccare il pallone ai tedeschi. Il loro genio Johan Cruijff decide di accelerare e andare in porta con tutto il pallone, costringendo un difensore tedesco ad atterrarlo. Il calcio di rigore, il primo assegnato nella storia delle finali di una Coppa del Mondo, viene trasformato dal biondo centrocampista Johan Neeskens. La Germania Ovest è sotto in casa propria, senza aver mai avuto il possesso palla. A questo punto i ragazzi di Michels hanno il torto di guardarsi troppo allo specchio e di nonchiudere il conto. Così è Breitner a prendere per mano i compagni, procurarsiun altro rigore e rimettere le cose a posto. Il primo tempo sembra incanalato sull’1-1, ma il DNA della squadra di Schoen non contempla l’ipotesi di accontentarsi, tant’è che prima dell’intervallo Vogts e compagni riescono a trovare il 2-1 grazie a un colpo di genio di Gerd Muller. Il risultato non cambierà fino alla fine, e il trofeo calcistico più prestigioso verrà alzato al cielo da Kaiser Franz.
Nonostante questo, nei ciclivittoriosi che nel calcio scandiscono i tempi della storia, l’eccezione che conferma la regola spetta di diritto all’Arancia Meccanica olandese. L’unica a presentarsi con la bacheca vuota al cospetto dell’Italia di Piola, del Brasile di Pelé o dell’Argentina di Maradona. L’unica, altresì, a potersi permettere di sfoggiare quel fascino indiscusso che è proprio solo di chi arriva a un centimetro dal traguardo, senza mai riuscire ad oltrepassarlo. Come in un finale cinematografico onirico e romantico, in cui non si capisce dove finisca la realtà e inizi l’immaginazione.