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Club Fabio Belli

Storia della Coppa dell’Europa Centrale, la “nonna” della Champions League (seconda parte)

di Fabio Belli

La finale del Prater del 1933 segna un periodo di massimo splendore per la Coppa dell’Europa Centrale. La competizione viene vista come un vero e proprio campionato d’Europa per club, e dal 1935 al 1938 le analogie con la Champions League di oggi aumenteranno. La formula si allarga a 16 squadre (addirittura 20 nel 1936) e partecipano non solo le squadre campioni nazionali, ma anche le migliori piazzate dei campionati d’Italia, Austria, Svizzera, Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia e nel 1937, anno di massima espansione del torneo, Romania. Il calcio italiano di pari passo vive un boom di popolarità con l’esplosione definitiva segnata dalla disputa in casa, con annessa vittoria, del Mondiale del 1934. La Juventus domina la scena nazionale, con 5 scudetti consecutivi (primato che sarà eguagliato in seguito solo dal Grande Torino) tra il 1931 e il 1935.

La Juventus del quinquennio d'oro
La Juventus del quinquennio d’oro

Ma la Coppa dell’Europa Centrale sembra profeticamente anticipare quello che sarà lo squilibrio tra i successi nazionali e quelli continentali della Vecchia Signora nella sua storia. La Juventus non supererà mai la semifinale della competizione: accadrà anche nel 1934 e nel 1935, con i bianconeri che in patria dominano, ma si vedono sbarrata la strada della semifinale da Admira e Sparta Praga, poi vincitrice nel 1935.

La "prima" europea del Napoli
La “prima” europea del Napoli

In queste edizioni e in quelle del 1936 e del 1938 l’Italia presenta quattro formazioni ai nastri di partenza. Nel 1934 e nel 1935 l’Ambrosiana Inter si ferma sempre agli ottavi, così come il Napoli (all’unica apparizione) e la Roma. All’esordio dei partenopei nel 1934, si aggiunge quello della Fiorentina nel 1935, che si arrenderà proprio allo Sparta Praga nei quarti dopo aver eliminato l’Ujpest. L’edizione che passa alla storia è quella del 1934 per l’Italia, perché sarà l’unica volta in cui una squadra trionferà in finale.

Quadro celebrativo del Bologna campione nel 1934
Quadro celebrativo del Bologna campione nel 1934

L’onore spetta al Bologna, che dopo la vittorie “d’ufficio” del 1932, fa il bis sul campo in un tiratissimo doppio confronto con l’Admira di Vienna. L’andata si gioca al Prater, con 50.000 austriaci che si esaltano per la clamorosa rimonta dei padroni di casa. Spivach e Reguzzoni portano i rossoblu sul 2-0, ma nel secondo tempo Stoiber, Vogl e Schall ribaltano clamorosamente il risultato. Il ritorno si gioca a quattro giorni di distanza, il 9 settembre del 1934 allo stadio del Littoriale, che poi diventerà il Renato Dall’Ara, dove il Bologna si è trasferito dopo aver lasciato il leggendario “Sterlino”, casa dei felsinei dal 1913 al 1927. E nascerà una leggenda: il 5-1 con cui gli emiliani conquistano la coppa (con tripletta di Reguzzoni) è il primo atto ufficiale della squadra “Che Tremare il Mondo Fa”, Campione d’Italia nel 1936, nel 1937, nel 1939 e nel 1941.

Meazza capocannoniere d'Europa
Meazza capocannoniere d’Europa

Nel 1936 (unica edizione a ben 20 squadre) la prima europea del Torino si risolve in un ko agli ottavi contro l’Ujpest dopo aver superato nel turno preliminare gli svizzeri del FC Bern. Subito fuori anche il Bologna, mentre la Roma, alla sua terza e ultima partecipazione, uscirà ai quarti contro lo Sparta Praga. I ceki supereranno anche l’Ambrosiana Inter in semifinale, nell’anno in cui Giuseppe Meazza si laureerà capocannoniere d’Europa con 10 gol. La vittoria finale andrà però per la seconda volta all’Austria Vienna.

Per rivedere una squadra italiana in finale bisognerà attendere l’anno successivo. Le partecipanti scendono di nuovo a 16, ma le nazioni partecipanti sono 7: massimo storico, con la popolarità del torneo che sfiora quelle delle attuali coppe europee. Cade subito il Bologna negli ottavi, avanza ai quarti il Genoa, iscritto in quanto vincitore della Coppa Italia, ma nei quarti di finale il Ministro degli Interni di Mussolini rifiuta di ospitare l’Admira a Genova, dopo l’andata terminata 2-2, per le proteste anti-italiane avvenute a margine della partita di andata. Come avvenne nel 1932, doppia squalifica: a beneficiarne allora fu il Bologna proclamato campione, stavolta fu la Lazio a ritrovarsi qualificata direttamente alla finalissima.

Polemiche dopo la partita d'andata tra Ferencvaros e Lazio nel 1937
Polemiche dopo la partita d’andata tra Ferencvaros e Lazio nel 1937

La squadra costruita dall’ingegner Eugenio Gualdi aveva conteso lo scudetto al Bologna la stagione precedente: Silvio Piola è il fiore all’occhiello di una formazione fortissima, la cui caratura internazionale viene confermata dalle vittorie contro Hungaria FC (che poi divenne MTK Budapest, la squadra del grande Hidegkuti) e Grasshopper. Di fronte però c’è un’altra squadra-mito degli anni ’30: il Ferencvaros di Gyorgy Sarosi, che a fine carriera conterà 351 gol in 382 apparizioni in maglia biancoverde, oltre a 42 centri in 62 gettoni in nazionale. L’Europa attende la sfida Piola contro Sarosi, e così sarà. Nell’andata a Budapest, il 12 settembre 1937, l’ungherese ruba la scena con una tripletta. Piola va a segno, ma finisce 4-2 per il Ferencvaros. La prima finale europea di club a Roma richiama comunque allo Stadio Nazionale molto pubblico, circa 20.000 spettatori nonostante il tempo inclemente, il 24 settembre del 1937. La Lazio subito in vantaggio con Costa, si vede gelata da una doppietta di Sarosi, anche se il pubblico si inferocisce per il rigore del momentaneo 1-1. L’impresa sembra impossibile, ma mezz’ora dopo la Lazio conduce 4-2! Sale in cattedra Piola con una magnifica doppietta, poi segna Camolese al 35′. 2′ dopo però Geza Toldi rimette la sfida in vantaggio per i magiari.

La finale Lazio-Ferencvaros celebrata dalla stampa ungherese
La finale Lazio-Ferencvaros celebrata dalla stampa ungherese

Si gioca sotto una pioggia battente: la Lazio sente vicina la realizzazione di un’impresa, ma il terreno pesante favorisce il calcio atletico degli ungheresi: nella ripresa vanno a segno Lazar e di nuovo Sarosi negli ultimi 20′, Piola sbaglia un calcio di rigore e il pubblico romano applaude uno spettacolo che si era visto solo con i Mondiali. Nelle stagioni successive, i venti di guerra iniziano a minare la regolarità del calcio. L’edizione del 1938 è l’ultimo vero Campionato d’Europa per club d’altri tempi: lo vince per la prima volta lo Slavia Praga in finale col Ferencvaros. Il Milan, alla prima partecipazione, esce agli ottavi, l’Inter ai quarti, ma in semifinale ci sono due italiane. La Juventus cade ancora in semifinale, un vero tabù, contro il Ferencvaros, il Genoa crolla a Praga (0-4) contro lo Slavia, dopo che il 4-2 dell’andata aveva fatto soffiare vento di finale per i rossoblu.

La finale dell’anno successivo, tutta ungherese tra Ujpest e Ferencvaros, non si disputerà: il settembre del 1939 significa guerra per la storia dell’Europa. La Coppa va in soffitta, tornerà in varie salse come Mitropa Cup, ma senza il seguito dell’epoca: negli anni ’80 la declassazione a coppa europea dei campioni di Serie B ne segnerà il declino, fino allo stop definitivo all’alba degli anni 90. Ma i ricordi degli anni ’30 restano indelebile, per quella che è stata l’unica vera vetrina internazionale per i campioni dell’epoca.

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Emiliano Storace Le Finali Mondiali

1990: Germania Ovest-Argentina 1-0. Tris tedesco nel Mondiale delle mille storie

di Emiliano Storace

Cinquantasei anni dopo l’edizione voluta fortemente da Benito Mussolini e dal regime nel 1934, il Mondiale di calcio tornava in Italia. Stavolta però ad attenderlo c’era un paese in grandissimo sviluppo, dove il calcio era una religione e la Serie A forse il campionato più bello del Mondo. Non si può certo dire che l’edizione numero 14 della massima competizione calcistica del nostro pianeta sia rimasta negli annali per il gioco espresso e per la spettacolarità delle sue partite. Le “Notti Magiche” di Italia ’90 sono rimaste nel cuore e nella mente di un popolo italiano che 24 anni fa riusciva ancora a sognare.

Germania tricampione nella "Notte Magica" dell'Olimpico
Germania tricampione nella “Notte Magica” dell’Olimpico

Oltre 50 milioni di italiani hanno accompagnato con caroselli e notti in bianco una nazionale di ottime qualità che Azeglio Vicini seppe assemblare con cura e intelligenza. E se le istituzioni italiane, fossero state altrettanto perfette come lo furono i nostri azzurri in campo, magari adesso ci ricorderemmo di un Mondiale in più e di qualche debito o scandalo in meno. Se non ci furono colpi di genio o Fenomeni da imitare, certamente il Mondiale italiano ha regalato storie e personaggi di cui il calcio si è innamorato col passare del tempo. Il Camerun di Roger Milla, trentottenne stella dei Leoni Indomabili e successivamente nominato calciatore africano del secolo, che tornò in nazionale solo per giocare il Mondiale in Italia. Il Costa Rica di Bora Milutinovic, che si qualificò per la prima volta agli ottavi di finale di un Mondiale sorprendendo anche gli stessi abitanti del piccolo stato centroamericano. L’Egitto dei miracoli, che nella sua storia si presentò solamente a due edizioni dei Mondiali entrambe in Italia: 1934 e 1990.

Al sole di Sicilia e Sardegna, i “Faraoni” non passarono il girone ma si tolsero molte soddisfazioni pareggiando contro Irlanda e Olanda e perdendo solo di misura contro l’Inghilterra. Fu l’edizione anche della prima e unica partecipazione ad un Mondiale degli Emirati Arabi Uniti, squadra materasso ma che strappò applausi e consensi a tutto il pubblico italiano con la RAI che volle esaltarne la partecipazione dedicandogli tanti speciali televisivi in tarda serata con un Piero Chiambretti scatenato nell’intervistare sceicchi ed emiri al seguito della squadra.

Oltre alle prime volte e alle imprese calcistiche, fu anche l’edizione di un’Italia esaltante (che perse in semifinale contro l’Argentina a Napoli in una notte stregata) e di una Germania Ovest nettamente superiore a tutte le altre squadre. Dopo due finali perse nell’82 e nell’86 contro Italia e Argentina, la “Nationalmannschaft” era riuscita a presentarsi nuovamente ad un Mondiale da favorita insieme all’Italia paese ospitante. Alla guida c’era ancora Franz Beckenbauer (che di lì a poco avrebbe lasciato la guida della Nazionale) mentre la squadra era composta da tantissimi calciatori militanti nella nostra Serie A, al tempo la terra promessa per ogni calciatore tedesco.

La Germania arrivò in finale senza nessun affanno, vincendo sei gare su sette tra cui un infuocato ottavo di finale contro l’Olanda a San Siro. Uno scherzo del destino volle che nella finalissima di Roma ci fu ad attenderla ancora una volta l’Argentina, proprio quella squadra che quattro anni prima gli aveva tolto la gioia del terzo titolo mondiale con un gol di Burruchaga nel finale. Per la prima volta nella storia dei Mondiali, andava in scena un remake della stessa finale a soli quattro anni di distanza, una sorta di vendetta o di maledizione a seconda della squadra vincitrice. La partita era la stessa ma il divario tra le due squadre era nettamente cambiato in favore dei tedeschi.

Andreas Brehme calcia il rigore Mondiale
Andreas Brehme calcia il rigore Mondiale

I biancocelesti Campioni del Mondo non erano infatti all’altezza della spedizione messicana, con un Maradona in fase calante e non più in grado di trascinare da solo un’intera nazione. In una delle finali più noiose mai giocate che la storia ricordi, l’unico sussulto lo regalò il solito Diego Armando Maradona quando apostrofò con un sincero “Hijos de Puta” , l’intero pubblico dell’Olimpico che fischiava il suo inno. Ci pensò l’interista Andreas Brehme a rompere l’equilibrio tra le due squadre, trasformando un dubbio calcio di rigore concesso (anche qui lo zampino dispettoso della storia) dall’arbitro messicano Codesal che pochi istanti prima non ne aveva concesso un altro ancor più netto stavolta su Dezotti. La Germania conquistò così il terzo titolo mondiale della sua storia eguagliando i successi di Brasile e Italia. Una Germania tosta in difesa con Berthold, Brehme, Augenthaler e Kohler, veloce e letale in avanti con Voeller, Klinsmann, Hassler e Lothar Matthaus. Un successo meritato e neanche tanto a sorpresa, visto il livello di una nazionale che era scesa in Italia per prendersi il titolo vendicando la finale dell’Azteca.

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Le Finali Mondiali Valerio Fabbri

1978: Argentina-Olanda 3-1 dts. Tra la Junta e Quiroga, le mani nella “marmelada”

di Valerio Fabbri

Il mondo del 1978 e’ diviso in due blocchi, e se in Europa occidentale sono stati superati i regimi militari (Grecia, Spagna), nell’altra metà del mondo ci sono ancora diverse giunte al potere. Fra queste l’Argentina, la cui Junta continua a far sparire i dissidenti, ma il colonnello Videla è considerato più presentabile del cileno Pinochet. La FIFA concede al paese sudamericano di ospitare il Mondiale di calcio, e si alzano poche voci critiche. Una di queste arriva dall’Olanda (Freek de Jonge parla di “Hitler argentino”), che ironia della sorte sfiderà i padroni di casa in finale.

Orfani di Cruijff, in forza al Barcellona e rimasto sulla Costa Brava a godersi la popolarità del numero uno al mondo, gli oranje arrivano in finale ai danni dell’Italia. Nel gironcino delle semifinali – l’ultima volta che si disputerà sarà nel 1982 – gli olandesi, guidati da Happel, tradiscono la filosofia del calcio totale con una marcatura asfissiante di Neeskens su Rossi e vincono in rimonta 2-1. E’ una partita dura e nervosa, condizionata da un arbitraggio fin troppo permissivo, che l’Olanda subirà a sua volta nell’ultimo atto.

Argentina, Campione per la prima volta ad ogni costo
Argentina, Campione per la prima volta ad ogni costo

L’Argentina di Menotti conquista la finale dopo un incredibile 6-1 al Perù, passato alla storia del calcio come la “Marmelada Peruana”. Nonostante la Federazione brasiliana avesse chiesto che Brasile-Polonia e Argentina-Perù, ultime partite del gironcino, si disputassero in contemporanea, la nazionale di Claudio Coutinho è costretta a giocare prima dell’Argentina. Vince, ma sarà eliminata dal torneo per differenza reti e senza nemmeno una sconfitta. E’ poi il turno di Argentina-Perù: all’albiceleste serviranno almeno quattro gol di scarto per raggiungere la finale del Monumental. La squadra rivelazione del mondiale resiste meno di venti minuti ai padroni di casa: 4-0 in cassaforte già a fine primo tempo, altri due gol nel secondo per “certificare” la superiorità. Rimane questa una delle partite più chiacchierate dei Mondiali di calcio. Fra versioni ritrattate dei peruviani – del portiere Quiroga, di origini argentine e residente a Rosario, e del difensore Manzo – e voci di ogni genere, la malleabilità peruviana garantì un’enorme quantità di grano gratuito e diversi milioni di dollari nelle casse della banca centrale, secondo due ex militari argentini. Solo un tassello nella più ampia operazione d’immagine messa in piedi dalla Junta, che con il Mondiale mirava a conquistare la coppa, unica delle big sudamericane ancora a secco, ma soprattutto a lanciare un messaggio di paese pacifico, florido, e di successo. Un’operazione simile a quella compiuta dall’Italia di Mussolini nel 1934.

Rensenbrink, il palo che poteva cambiare la storia
Rensenbrink, il palo che poteva cambiare la storia

Al Monumental di Buenos Aires arbitra l’italiano Sergio Gonella, preferito al gia’ designato israeliano Abraham Klein, “reo” di una direzione di gara (Italia-Argentina 1-0, Bettega) imparziale ed equilibrata nei confronti dei padroni di casa, sottolineata dalla stampa internazionale. Inevitabile che il direttore di banca torinese risenta dell’atmosfera del Monumental: ammonizioni in sequenza agli olandesi, nemmeno un richiamo a Passarella che picchia a più non posso, facendo saltare due denti a Neeskens e infischiandosene anche in quell’occasione del juego limpio, il fair-play sbandierato e invocato senza pudore dalla Junta. Il capitano dell’albiceleste e’ l’emblema, il volto, il simbolo dell’Argentina che trionfa per la prima volta in un Mondiale, ma anche una trasposizione in campo del generale Videla e degli altri militari. Dopo il vantaggio di Mario Kempes, unico argentino in rosa che gioca al di fuori dei confini (Valencia), Nanninga porta la partita ai supplementari, a allo scadere Rob Rensenbrink coglie uno dei più clamorosi pali della storia, che poteva stravolgere tutti i piani della junta come un fulmine a ciel sereno. Si va invece all’extra time dove non c’è più storia. Prima Kempes e poi Bertoni stendono al tappeto gli oranje ormai scarichi, scoraggiati anche dai fischi di Gonella. Videla ottiene quello che aveva preparato e desiderato, “¡Argentina campeon!”. La squadra celebra il titolo con i generali prima ancora che con la gente, ad eccezione di Kempes, unico calciatore che ignora la Junta e rimane a festeggiare con i tifosi. Incoscienza, coraggio, (in)consapevolezza: quello di Kempes rimane un gesto storico.

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

1962: Brasile-Cecoslovacchia 3-1. Willy Schrojf, antieroe per caso

di Fabio Belli

Non tutti i campionati del mondo di calcio sono uguali fra loro, e d’altronde sono proprio le edizioni ordinarie a rendere tali quelle memorabili. In alcuni casi l’eccezionalità viene sfiorata, ma non raggiunta: se nel 1934 l’Italia non avesse saputo reagire al gol cecoslovacco di Puč nell’ultimo quarto d’ora di gioco della finale, forse sarebbe stata la partita dello stadio Nazionale, e non il “Maracanazo”, a passare alla storia come la più grande delusione di sempre del gioco del calcio. Nel 2010, un’Olanda forte ma non trascendentale arrivò ad un passo dal superare la leggendaria “Arancia Meccanica” del 1974 ed i suoi eredi del 1978. Nel 2002, il rischio di una finalissima tra Corea del Sud e Turchia fu più concreto di quanto non si pensi.

Seconda "Rimet" al cielo per il Brasile
Seconda “Rimet” al cielo per il Brasile

Nulla di tutto questo accadde, e quelle edizioni del Mondiale raramente sono citate in maniera enfatica nelle memorie degli sportivi. Un qualcosa di simile accadde nel 1962, quando a Santiago del Cile la Cecoslovacchia, allenata da un consumato stratega come Rudolf Vytlačil, si ritrovò a tentare di fare lo sgambetto ad un Brasile già lanciato verso la leggenda. Fu un Mondiale anomalo in tutti i sensi: a partire dalla location, un Cile allora troppo ai margini delle grandi del calcio, ma che grazie allo sforzo enorme di un giovane dirigente di origine tedesca, Carlos Dittborn Pinto, che tragicamente non arrivò a veder compiuto il suo capolavoro, riuscì ad allestire una macchina organizzativa funzionante. Poi per la caduta di stelle: l’Italia di Altafini e l’Urss di Jašin, che pagarono lo scandaloso fattore campo imposto dai cileni. La Spagna che, senza Di Stefano infortunatosi all’ultimo momento, perse il suo potenziale e vide il fuoriclasse di origine argentina mancare l’ultima occasione per disputare un Mondiale. E poi l’Inghilterra di Moore e Charlton, l’Ungheria ormai spogliata dei suoi fuoriclasse. Ed infine, Pelé, infortunatosi e costretto, per un brutto stiramento, a saltare quella che doveva essere la sua inevitabile consacrazione, dopo l’impresa di quattro anni prima in Svezia che lo svelò al mondo.

Una presa plastica di Willy Schrojf
Una presa plastica di Willy Schrojf

In un tale scenario, la Cecoslovacchia era riuscita a compiere il delitto perfetto, mettendo in fila Spagna, Ungheria e Jugoslavia, perdendo nelle eliminatorie col Messico, ma pareggiando contro il Brasile: già, quel Brasile che, nonostante un Garrincha in stato di grazia che nei quarti di finale aveva praticamente battuto da solo l’Inghilterra, sembrava meno imbattibile di quanto apparisse alla vigilia. Rispetto al 1958 erano cambiati solo due uomini (dentro Zòzimo e Mauro Ramos, fuori Bellini e Orlando), e il CT, Moreira. Ma l’assenza di Pelé poteva significare tutto, anche se il coniglio nel cilindro di Moreira si chiama Amarildo Tavares da Silveira. Ovvero, l’unico che per caratteristiche e temperamento può permettersi di non far rimpiangere la “perla nera”.

Vytlačil è uno che sa farsi i conti in tasca, sa di avere una squadra con soli due fuoriclasse: la leggenda del calcio boemo Josef Masopust, e lo slovacco di Bratislava Viliam “Willy” Schrojf, considerato ancora il miglior portiere cecoslovacco di sempre. Spettacolare, a volte anche troppo negli interventi, ha giocato fino a quel 16 giugno del 1962 un Mondiale strepitoso. Vytlačil si affida a lui per una partita di contenimento e ripartenze. Ha perfino bluffato sul caso della vigilia riguardante Garrincha: espulso nella semifinale contro il Cile, l’ala sarebbe squalificata, ma viene clamorosamente riabilitata con un annullamento delle sanzioni disciplinari per la finalissima. Invece di scandalizzarsi, i ceki danno il loro benestare: Vytlacil sa che la corrida contro i cileni ha fatto a pezzi Mané, che sotto la guardia di Novàk e Jelìnek, dopo un Mondiale da fuoriclasse, finirà con il giocare una delle partite più scialbe della sua carriera.

Ma tornando all’inizio, va detto che la gloria quando ti passa tra le mani, bisogna saperla afferrare. Metafora perfetta per un portiere, ma Vytlačil non può nutrire dubbi su Schrojf, che contro la Jugoslavia in semifinale ha portato praticamente da solo la squadra oltre l’ostacolo. Tutto si mette bene quando i compassati ritmi brasiliani si infrangono sul dinamismo ceko nella rarefatta aria di Santiago. Pospìchal a centrocampo sa quando Masopust può sganciarsi, i due si intendono a memoria e al quarto d’ora Gilmar deve già raccogliere il pallone in fondo al sacco. Questo però è anche il momento in cui lo straordinario e l’ordinario si fondono, e la storia, che sembrava indirizzata verso la sorpresa, si rimette al proprio posto grazie al “colpevole” più inatteso. Neanche 2’ dopo dalla prodezza di Masopust, Schrojf si fa sorprendere da un tiro scoccato quasi dalla linea di fondo da Amarildo. La parabola è pregevole e qualcuno prova ad assolvere l’estremo difensore da responsabilità eccessive.

In quel momento però, il destino è già scritto: si compie definitivamente nella ripresa, quando ancora Amarildo dalla linea dell’out riesce ad “uccellare” un imbambolato Schrojf. Stavolta la palla non è indirizzata in rete, ma per l’accorrente Zito è un gioco da ragazzi spingerla in fondo al sacco da due passi. Il disastro-Schrojf si completa su un cross quasi innocuo di Djalma Santos, che gli sfugge letteralmente dalle mani: la sintesi perfetta della gloria che, al momento di essere afferrata, può essere scivolosa come una saponetta. E Vavà completa l’opera, con il tap-in del 3-1. Il Brasile diventa la seconda squadra dopo l’Italia ad alzare al cielo la Coppa Rimet per due volte consecutive, e Cile 1962 resterà per sempre l’edizione in cui, dopo essere accaduta ogni tipo di follia, tutto alla fine è andato esattamente come doveva andare: al contrario del destino di Schrojf, che dopo aver afferrato di tutto al Mondiale e nella sua carriera, si fece sfuggire proprio i palloni più importanti.

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Le Finali Mondiali Valerio Fabbri

1938: Italia-Ungheria 4-2. Il calcio come la guerra, la guerra come il calcio

di Valerio Fabbri

Nel 1938 l’Italia di Vittorio Pozzo conquista la seconda finale mondiale consecutiva, che porterà anche il terzo trofeo in bacheca, dopo il Mondiale del 1934 e l’oro olimpico del 1936 a Berlino. E’ un Mondiale atipico per la situazione politica in Europa che e’ in procinto di esplodere, rinviando al 1950 la successiva edizione. La Guerra civile in Spagna ha escluso una favorita del torneo. Lo stesso vale per l’Austria. L’invasione militare nazista di marzo e la conseguente annessione al Terzo Reich pongono la parola fine al Wunderteam di Hugo Meisl, maestro del calcio danubiano che aveva elaborato una sintesi fra il sistema di Herbert Chapman e il metodo del suo amico Pozzo. Il torneo si svolge in Francia, e questa scelta suscita irritazione tra i sudamericani, che volevano disputare il torneo nel loro continente. Il risultato e’ che anche Argentina e Uruguay non partecipano. Per la prima volta poi i padroni di casa e la squadra campione in carica accedono di diritto alla fase finale, che dura solo due settimane (4-19 giugno).

Il trionfo azzurro a Colombes
Il trionfo azzurro a Colombes

All’esordio nello stadio di Marsiglia gli azzurri sono contestati per il saluto romano, ma sui giornali italiani la notizia viene nascosta. Mai come in questa occasione la Nazionale e’ considerate l’emblema della dittatura fascista, e dagli esuli antifascisti presenti sulle gradinate piovono insulti in tutti i dialetti della penisola. Il commissario Pozzo, convinto patriota che aveva combattuto nella Grande Guerra sul fronte orientale, ha vita facile a giocare la carta del “soli contro tutti”, per ragioni calcistiche più che politiche. Una strategia che, mutatis mutandis, si ripeterà per i Mondiali del 1982 e del 2006, peraltro con simili risultati. Quell’episodio costituisce un mattone pesante sulla costruzione della vittoria finale.

Silvio Piola
Silvio Piola

E’ Peppino Meazza il capitano e la stella della formazione italiana – “una ragazza per Meazza”, si cantava a San Siro per esaltarlo, idolo dentro e fuori dal campo in un’Italia che era già ripiegata nelle curve dell’autarchia, pur essendo convinta di essere l’avanguardia di un nuovo modello politico. Nei fatti non è Meazza, campione anche di sregolatezza, a influire sulla vittoria finale. Sono il laziale Silvio Piola (5) ed il triestino Gino Colaussi (4) a realizzare i gol che portano al trionfo la formazione azzurra. schierata con il piu’ classico metodo pozziano, caratterizzato da una robusta difesa e rapidi contropiede, che trova la sua perfezione nella semifinale contro il Brasile (2-1).

Tuttavia l’esaltazione fascista della superiorità italica non trova riscontro nei fatti, che di lì a breve, collimeranno con la realtà. Gli italiani sono costretti a raggiungere Parigi per la finale con un treno notturno, dove le cuccette non sono sufficienti ad ospitare tutti gli azzurri. C’e’ quindi apprensione per la finale. La partita contro l’Ungheria, altra espressione del calcio danubiano che, a differenza dell’Austria, continuerà a sfornare grandi calciatori anche nel dopoguerra, costituisce uno dei grandi classici del calcio europeo di quegli anni. Dopo averli subiti ad inizio secolo, da una decina d’anni l’Italia supera con regolarità la formazione magiara. Guida in mezzo al campo e capitano degli ungheresi è György (Giorgio) Sárosi, di madre italiana, futuro allenatore in Italia nel dopoguerra, considerato al pari di Meazza e dell’austriaco Sindelar il miglior calciatore della sua epoca.

La partita però è a senso unico. Dinanzi ai sessantamila di Colombes, gli azzurri dominano dall’inizio alla fine, con doppiette di Colaussi e Piola e gol ungheresi di Titkos e Sárosi. Come disse Winston Churchill, gli italiani “vanno alla Guerra come se fosse una partita di calcio, e vanno a una partita di calcio come fosse la Guerra”. Per i tifosi italiani, nella penisola e non solo, è tripudio. Per la dittatura una boccata d’ossigeno, un vessillo da manipolare in nome della propaganda fascista, insieme alla vittoria di Gino Bartali pochi giorni dopo al Tour de France. Le rivincite sul fascismo andranno prese sul terreno dovuto, nel calcio non se ne parla.

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Andrea Rapino Le Finali Mondiali

1934: Italia-Cecoslovacchia 2-1 dts. Il record ineguagliabile di Luisito Monti

di Andrea Rapino

Lothar Matthäus si gustò la sua bella rivincita nella notte magica dell’Olimpico, così come fece Ronaldo a Yokohama nel 2002. L’elenco di giocatori che hanno alzato al cielo la Coppa del Mondo al secondo tentativo è lungo. Nella lista ce n’è però uno solo che può vantare un record singolare.

Nazionale_di_calcio_dell'Italia_-_Mondiali_1934Ovvero, Luis Felipe Monti, centromediano classe 1901, figlio di emigrati romagnoli in Argentina che nel 1930 s’è accontentato del secondo gradino del podio con la casacca dell’Albiceleste, e che nel 1934 si riscatta con la nazionale di Vittorio Pozzo.
Monti nasce a Buenos Aires, e si distingue soprattutto nel San Lorenzo, dove in otto anni gioca oltre 200 partite e porta a casa tre titoli nazionali. A farlo cedere al richiamo delle sirene italiane nel 1931 è la Juventus che sta infilando cinque scudetti consecutivi. Le porte della Penisola per gli stranieri sono chiuse, ma Monti e altri campioni sudamericani entrano dalla finestra grazie all’escamotage dell’italianizzazione sportiva. Nel 1931 disputa la sedicesima partita con la selezione argentina, e già l’anno successivo scende in campo nel primo dei suoi 18 incontri in maglia azzurra.

Non è il solo ad arrivare dall’altra sponda dell’Oceano tra i campioni del ’34. Di quella squadra si ricorda anche Enrique Guaita, attaccante non ancora 24enne da poco approdato alla Roma e subito stella giallorossa, in seguito “stroncato” dalla rocambolesca fuga notturna che nel 1935 lo riporterà in Argentina, spinto dalla paura per la chiamata alle armi per la campagna etiopica. C’è poi Raimundo Bibiani Orsi, che la Juventus ha condotto in Italia già da qualche anno, e che con l’Argentina ha perso la finale di Parigi del 1928, quando l’Olimpiade difatti assegnava la palma di selezione più forte del pianeta.

Luisito Monti in maglia bianconera
Luisito Monti in maglia bianconera

Monti però nei Mondiali italiani ha qualche motivo in più degli altri per essere assetato di rivincita, perché l’appuntamento col tetto del Mondo l’ha saltato due volte: ha perso sia la finale olimpica di Parigi ’28, sia quella del ’30 a Montevideo, dove tra l’altro è stato uno dei calciatori argentini che ha ricevuto minacce di morte alla vigilia della sfida con l’Uruguay. Inoltre si imbarcato per l’Italia bersagliato dalla stampa argentina che lo bolla subito come traditore, e torna a rinfacciargli proprio la scarsa verve nella sfida decisiva al Centenario.

L’italoargentino, che grazie alla prestanza fisica si ritrova il nomignolo “doble ancho“, cioè “armadio a due ante”, non delude il commissario unico che ne ha fatto il perno della mediana azzurra. Pozzo lo schiera in tutte e cinque le partite, compresa quella finale: con lui, nell’allora Stadio Nazionale del Pnf, sono grandi protagonisti gli altri “doppi connazionali”. La Cecoslovacchia fa tremare gli azzurri portandosi in vantaggio a un quarto d’ora dal termine con Puč, ma subito dopo Orsi pareggia sfruttando un assist di Guaita. Ai supplementari è di nuovo Guaita a servire la palla, stavolta girata alle spalle di Plánička da Schiavio, che vale la Coppa Rimet. Per l’Italia è festa. Luisito non lo immagina, ma lui è entrato nella storia anche come unico calciatore ad aver giocato due finali con due Nazionali diverse: un primato che, con le regole attuali, nessuno potrà togliergli.

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Calciatori Fabio Belli

Silvio Piola, alfiere del calcio eroico degli anni ’30, tra Parigi e le imprese nei derby romani

di Fabio Belli

Sul dominio internazionale del calcio italiano negli anni ’30 si è parlato moltissimo, e spesso, soprattutto in relazione alle due vittorie nei Mondiali del 1934 e del 1938 della Nazionale azzurra, si è sottolineato come probabilmente anche presunti aiuti e le ingerenze politiche del regime fascista abbiano contribuito ad issare sul tetto del mondo il movimento calcistico italiano in quel decennio. Una interpretazione alquanto ingenerosa, considerando lo spessore dei calciatori dell’epoca. Una generazione di fenomeni, con Giuseppe Meazza a fare da trait d’union ad una parata di campioni che vide Schiavio, Orsi ed Attilio Ferraris trionfare nel 1934, e Ferrari, Biavati, Colaussi e Silvio Piola nel 1938.

contrastoProprio Colaussi e Piola, allo stadio di Colombes a Parigi, sigleranno una doppietta ciascuno che permetterà all’Italia nella finalissima contro l’Ungheria di confermare il titolo mondiale di quattro anni prima. In particolare Piola, nel 1938, ha venticinque anni ed è al massimo dello splendore della sua carriera. E’ stato portato alla Lazio dopo essere esploso nella Pro Vercelli, grazie agli ambiziosi piani del presidente Eugenio Gualdi, che vuole portare la formazione biancoceleste a sfidare lo strapotere delle grandi del Nord, con lo scudetto che all’epoca mai si è spinto a sud di Bologna. Giunto a Roma per l’allora cifra record di duecentocinquantamila lire, Piola porta la Lazio a vette mai raggiunte dall’avvento della Serie A a girone unico, fino al secondo posto del 1937, con lo scudetto vanamente conteso proprio al Bologna.

La stagione del mondiale consacra Piola tra i più grandi fuoriclasse in assoluto del calcio mondiale. Prima sfiora con la Lazio la conquista dell’allora unico trofeo internazionale per club, la Coppa dell’Europa Centrale. Un’antesignana della Champions per squadre italiane, austriache, svizzere, ungheresi, cecoslovacche, romene e jugoslave. Il top del calcio europeo di allora, testimoniato dal fatto che Italia, Austria, Cecoslovacchia, Ungheria e Jugoslavia arrivarono tra il 1930 ed il 1938 una o più volte tra le prime quattro del Mondiale. In una infuocata finale di ritorno all’allora stadio Nazionale (poi divenuto Flaminio), la Lazio manca l’alloro europeo al cospetto del Ferencvaros, nonostante tre gol di Piola tra andata e ritorno. Il titolo sempre sfuggito con la maglia biancoceleste, però, arriva come detto ai Mondiali parigini, che Piola chiude con cinque reti all’attivo, vicecapocannoniere alle spalle dell’asso brasiliano Leonidas.

Il rapporto con la Lazio va avanti, tanto che Piola resta ancora oggi il miglior marcatore della storia biancoceleste, con 142 reti in 227 incontri di campionato. Ma con le dimissioni di Gualdi dalla presidenza, la squadra biancoceleste non riesce più ad insidiare le grandi per il titolo, fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Ma al di là dei numeri Piola è entrato nel cuore dei tifosi della Lazio in due occasioni:  il 15 gennaio 1939, quando per la prima volta la Roma subisce l’onta della sconfitta in un derby giocato al campo Testaccio, con Piola nell’inedita veste di regista offensivo, ed il 16 marzo 1941, quando batterà i rivali cittadini praticamente da solo e gravemente ferito. Per quella sfida l’allenatore Canestri si trova ad affrontare una delicatissima situazione di classifica. Per giunta, al 10′, la ruota sembra girare a favore dei giallorossi quando Piola si scontra molto violentemente con il difensore avversario Acerbi: ferita profondissima alla testa, Piola perde molto sangue e, in un’epoca senza sostituzioni, se lasciasse il campo farebbe restare i suoi in dieci.

Piola resta a bordo campo più di un quarto d’ora, mentre gli assalti della Roma vengono respinti dal portiere Uber Gradella. Quindi, dopo quattro punti di sutura e la testa fasciata da un turbante, il capitano biancoceleste rientra in campo. E segna prima di testa (!), per poi raddoppiare nella ripresa, con i punti che non hanno retto ed il turbante inzuppato di sangue, al termine di una strepitosa azione personale, eludendo la guardia di due difensori. Roma-Lazio 0-2, Piola – Piola, e l’incubo retrocessione per i biancocelesti è scacciato, con il più grande centravanti dell’anteguerra che esce in barella, sfinito ed applaudito anche dai tifosi della Roma presenti allo stadio Nazionale, che rendono omaggio allo straordinario valore. E’ l’ultimo regalo di un leone che, a più di trent’anni, viene giudicato ormai al tramonto e viene lasciato tornare al nord. Ma il carattere dimostrato a campo Testaccio fa parte del DNA di Piola, che giocherà altri dieci anni, fino al 1954, e tra Juventus e Novara inanellerà altri 112 gol in Serie A, ancora oggi miglior marcatore di tutti i tempi del calcio italiano.