1962: Brasile-Cecoslovacchia 3-1. Willy Schrojf, antieroe per caso

di Fabio Belli

Non tutti i campionati del mondo di calcio sono uguali fra loro, e d’altronde sono proprio le edizioni ordinarie a rendere tali quelle memorabili. In alcuni casi l’eccezionalità viene sfiorata, ma non raggiunta: se nel 1934 l’Italia non avesse saputo reagire al gol cecoslovacco di Puč nell’ultimo quarto d’ora di gioco della finale, forse sarebbe stata la partita dello stadio Nazionale, e non il “Maracanazo”, a passare alla storia come la più grande delusione di sempre del gioco del calcio. Nel 2010, un’Olanda forte ma non trascendentale arrivò ad un passo dal superare la leggendaria “Arancia Meccanica” del 1974 ed i suoi eredi del 1978. Nel 2002, il rischio di una finalissima tra Corea del Sud e Turchia fu più concreto di quanto non si pensi.

Seconda "Rimet" al cielo per il Brasile
Seconda “Rimet” al cielo per il Brasile

Nulla di tutto questo accadde, e quelle edizioni del Mondiale raramente sono citate in maniera enfatica nelle memorie degli sportivi. Un qualcosa di simile accadde nel 1962, quando a Santiago del Cile la Cecoslovacchia, allenata da un consumato stratega come Rudolf Vytlačil, si ritrovò a tentare di fare lo sgambetto ad un Brasile già lanciato verso la leggenda. Fu un Mondiale anomalo in tutti i sensi: a partire dalla location, un Cile allora troppo ai margini delle grandi del calcio, ma che grazie allo sforzo enorme di un giovane dirigente di origine tedesca, Carlos Dittborn Pinto, che tragicamente non arrivò a veder compiuto il suo capolavoro, riuscì ad allestire una macchina organizzativa funzionante. Poi per la caduta di stelle: l’Italia di Altafini e l’Urss di Jašin, che pagarono lo scandaloso fattore campo imposto dai cileni. La Spagna che, senza Di Stefano infortunatosi all’ultimo momento, perse il suo potenziale e vide il fuoriclasse di origine argentina mancare l’ultima occasione per disputare un Mondiale. E poi l’Inghilterra di Moore e Charlton, l’Ungheria ormai spogliata dei suoi fuoriclasse. Ed infine, Pelé, infortunatosi e costretto, per un brutto stiramento, a saltare quella che doveva essere la sua inevitabile consacrazione, dopo l’impresa di quattro anni prima in Svezia che lo svelò al mondo.

Una presa plastica di Willy Schrojf
Una presa plastica di Willy Schrojf

In un tale scenario, la Cecoslovacchia era riuscita a compiere il delitto perfetto, mettendo in fila Spagna, Ungheria e Jugoslavia, perdendo nelle eliminatorie col Messico, ma pareggiando contro il Brasile: già, quel Brasile che, nonostante un Garrincha in stato di grazia che nei quarti di finale aveva praticamente battuto da solo l’Inghilterra, sembrava meno imbattibile di quanto apparisse alla vigilia. Rispetto al 1958 erano cambiati solo due uomini (dentro Zòzimo e Mauro Ramos, fuori Bellini e Orlando), e il CT, Moreira. Ma l’assenza di Pelé poteva significare tutto, anche se il coniglio nel cilindro di Moreira si chiama Amarildo Tavares da Silveira. Ovvero, l’unico che per caratteristiche e temperamento può permettersi di non far rimpiangere la “perla nera”.

Vytlačil è uno che sa farsi i conti in tasca, sa di avere una squadra con soli due fuoriclasse: la leggenda del calcio boemo Josef Masopust, e lo slovacco di Bratislava Viliam “Willy” Schrojf, considerato ancora il miglior portiere cecoslovacco di sempre. Spettacolare, a volte anche troppo negli interventi, ha giocato fino a quel 16 giugno del 1962 un Mondiale strepitoso. Vytlačil si affida a lui per una partita di contenimento e ripartenze. Ha perfino bluffato sul caso della vigilia riguardante Garrincha: espulso nella semifinale contro il Cile, l’ala sarebbe squalificata, ma viene clamorosamente riabilitata con un annullamento delle sanzioni disciplinari per la finalissima. Invece di scandalizzarsi, i ceki danno il loro benestare: Vytlacil sa che la corrida contro i cileni ha fatto a pezzi Mané, che sotto la guardia di Novàk e Jelìnek, dopo un Mondiale da fuoriclasse, finirà con il giocare una delle partite più scialbe della sua carriera.

Ma tornando all’inizio, va detto che la gloria quando ti passa tra le mani, bisogna saperla afferrare. Metafora perfetta per un portiere, ma Vytlačil non può nutrire dubbi su Schrojf, che contro la Jugoslavia in semifinale ha portato praticamente da solo la squadra oltre l’ostacolo. Tutto si mette bene quando i compassati ritmi brasiliani si infrangono sul dinamismo ceko nella rarefatta aria di Santiago. Pospìchal a centrocampo sa quando Masopust può sganciarsi, i due si intendono a memoria e al quarto d’ora Gilmar deve già raccogliere il pallone in fondo al sacco. Questo però è anche il momento in cui lo straordinario e l’ordinario si fondono, e la storia, che sembrava indirizzata verso la sorpresa, si rimette al proprio posto grazie al “colpevole” più inatteso. Neanche 2’ dopo dalla prodezza di Masopust, Schrojf si fa sorprendere da un tiro scoccato quasi dalla linea di fondo da Amarildo. La parabola è pregevole e qualcuno prova ad assolvere l’estremo difensore da responsabilità eccessive.

In quel momento però, il destino è già scritto: si compie definitivamente nella ripresa, quando ancora Amarildo dalla linea dell’out riesce ad “uccellare” un imbambolato Schrojf. Stavolta la palla non è indirizzata in rete, ma per l’accorrente Zito è un gioco da ragazzi spingerla in fondo al sacco da due passi. Il disastro-Schrojf si completa su un cross quasi innocuo di Djalma Santos, che gli sfugge letteralmente dalle mani: la sintesi perfetta della gloria che, al momento di essere afferrata, può essere scivolosa come una saponetta. E Vavà completa l’opera, con il tap-in del 3-1. Il Brasile diventa la seconda squadra dopo l’Italia ad alzare al cielo la Coppa Rimet per due volte consecutive, e Cile 1962 resterà per sempre l’edizione in cui, dopo essere accaduta ogni tipo di follia, tutto alla fine è andato esattamente come doveva andare: al contrario del destino di Schrojf, che dopo aver afferrato di tutto al Mondiale e nella sua carriera, si fece sfuggire proprio i palloni più importanti.