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Club Fabio Belli

I New York Cosmos: ascesa e caduta per un… videogioco

di Fabio BELLI

Once in a lifetime” è uno splendido libro, purtroppo disponibile solo in inglese, che racconta nel migliore dei modi l’ascesa e la caduta di un esperimento unico al mondo: il tentativo da parte degli Stati Uniti di dominare la scena del calcio mondiale attraverso un club che ha vissuto a mille all’ora nella sua breve storia: i New York Cosmos. “Once in a lifetime” è anche il motto e lo stile di vita di una società che ha fatto giocare insieme Pelè, Beckenbauer e Chinaglia e chi era lì è pronto a giurare che fra i tre il leader della squadra fosse il terzo.

American Soccer - NASL - SoccerBowl '77 - New York Cosmos v Seattle SoundersPer carità, nulla da ridire su Long John, che era un signor centravanti, più giovane degli illustrissimi colleghi al momento dello sbarco negli USA e sicuramente dotato di una personalità straripante. Il particolare è però illuminante sulle dinamiche che portarono pian piano a sgretolarsi un club che all’epoca poteva contare su milioni e milioni di dollari per diventare grande. I Cosmos avevano arruolato delle star per divertire il pubblico, ma il calcio lo fanno i calciatori e l’essenza tutta particolare di uno sport come il “soccer” non poteva andare d’accordo con le esigenze dello show business a Stelle e Strisce.

Il colosso finanziario dietro i New York Cosmos era la Warner Communications: Steve Ross prese in carico in prima persona il compito di rendere i Cosmos la più prestigiosa squadra del mondo. Tra gli anni ’70 e ’80 i newyorkers vinsero cinque titoli della North American Soccer League (NASL) e, quando nel 1977 conquistarono il titolo contro i Seattle Sounders schierando contemporaneamente in campo Pelè, Carlos Alberto, Chinaglia e Beckenbauer, erano all’apice della fama. Ma l’alba degli anni ’80 fece suonare la sveglia, dimostrando come fossero i soldi a mandare avanti il pallone e non il pallone a produrre i soldi come Ross aveva promesso ai “capoccioni” della Warner all’inizio dell’avventura.

In pochi sanno infatti che la dorata bolla di sapone dei Cosmos scoppiò a causa di un… videogioco. La Warner Communications infatti deteneva tra le sue aziende anche l’Atari, con il mercato dei videogames che dal 1980 in poi era considerato una frontiera del futuro. Ma nel 1983 una prima grande crisi investì il mercato videoludico. Allora produrre un videogioco costava quasi come un film e la Warner prese una “legnata” memorabile con la conversione del film “Tron” in videogame. Le perdite economiche furono ingenti e, di conseguenza, vennero dismessi gli asset non strategici del gruppo come la stessa Atari e la Global Soccer, ovvero la società che controllava i Cosmos. I quali, senza l’appoggio della Warner, nel giro di tre anni chiusero i battenti e la NASL con loro.

Fra i tentativi di lanciare il calcio negli Stati Uniti il più riuscito è probabilmente l’ultimo: la MLS è ormai una lega organizzata a dovere, rispetta i tempi e le modalità alle quali lo sport americano è abituato ed è il giusto mix tra vecchie glorie, talenti emergenti ed idoli del posto in grado di appassionare il pubblico senza scadere a livello tecnico. Ma il fascino della NASL sarà forse irripetibile, visto che, oltre all’impatto di vedere tanti calciatori leggendari giocare tutti assieme, è stato l’unico vero tentativo di traslare il sogno americano nel mondo del calcio, con tutte le sue contraddizioni e il suo sfarzo accecante. Ed anche se i Cosmos ora sono rinati e forse presto parteciperanno alla MLS, si sa già in partenza che probabilmente non sarà mai la stessa cosa rispetto alla squadra di Pelè e Chinaglia, perché certe cose riescono solo “once in a lifetime“.

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Calciatori Fabio Belli Nazionali

Jurgen Sparwasser: 45 anni fa il gol che abbatté il Muro per una notte

di Fabio BELLI

In Germania Est, in pieni anni ’70, lo sport era sfoggio atletico di olimpismo. I calciatori erano prevalentemente scarti di altri sport, non molto considerati dall’opinione pubblica ma soprattutto dai vertici della DDR, interessati a propagandare la forza della Germania Orientale tramite l’atletica, la ginnastica, il nuoto. Quando le due Germanie il 22 giugno 1974 si trovarono così di fronte nella gara che assegnava la vetta nella prima fase a gironi dei Mondiali del ’74, la partita assumeva contorni socio-politici storici, ma dal punto di vista sportivo nessuno si aspettava grandi cose dalla formazione dell’Est che peraltro aveva già fatto la storia nelle due precedenti partite entrando tra le prime otto del mondo per la prima volta nella propria storia.

La corsa al primo posto sembrava di esclusivo appannaggio della Germania Occidentale: piena zeppa di campioni, passando da Beckenbauer a Gerd Muller e arrivando fino al dualismo tra Overath e Netzer, non poteva farsi sfuggire il primato del girone per regalarlo ai cugini dell’Est. Giocando in casa poi! La partita si svolgeva al Volksparkstadion di Amburgo, e la tensione cominciò a montare giorni prima del faccia a faccia. Vennero concessi 8.500 biglietti per i tifosi provenienti dall’Est, i quali solo per il giorno della partita, e strettamente per il tempo necessario al viaggio, poterono usufruire di un visto turistico per oltrepassare il muro di Berlino, marcati stretti e schedati dai VoPos che controllavano l’afflusso in entrata e in uscita. Si diceva addirittura che la Banda Baader-Meinhof, il più temuto gruppo terroristico tedesco in assoluto, fosse pronta ad imbottire lo stadio di tritolo per approfittare dell’enorme visibilità che l’evento avrebbe avuto a livello mondiale.

Fortunatamente nulla di tutto questo accadde ed anzi la partita risultò essere una delle più interessanti del Mondiale. Ci furono occasioni da gol da una parte e dall’altra, Kreische per la Germania Est e Grabowski per la Germania Ovest fallirono nel primo tempo comodissime opportunità. Gli occidentali di Helmut Schoen, col peso del pronostico, non solo in merito alla partita ma con l’intero Mondiale ed il ruolo di padroni di casa sulle spalle, non riuscirono ad esprimere al meglio il loro potenziale. Si arrivò a 13′ dalla fine col punteggio ancora in parità e la sensazione che un eventuale 0-0 finale avrebbe salvato capra e cavoli, permettendo alla RFT di chiudere in testa e alla DDR di fare bella figura smorzando così ogni tipo di eventuale tensione.

Arrivò però il minuto 78, quando dalle retrovie Kurbjuweit fece partire un lungo lancio sul quale la difesa della Germania Ovest si trovò impreparata: il centravanti Jurgen Sparwasser, stella del Magdeburgo vincitore di una Coppa delle Coppe ai danni del Milan, addomesticò la sfera di testa e, dopo averla lasciata rimbalzare, si liberò di Vogts scagliando il pallone alle spalle di un impietrito Maier. La Germania Est si prese così partita e primo posto, e per la prima volta il regime della DDR celebrò l’impresa con toni trionfalistici. Si parlò di premi grandiosi per gli eroi di Amburgo guidati dal CT Georg Buschner, che in realtà ricevettero una gratifica di soli 2500 marchi, già pattuita alla vigilia del Mondiale in caso di passaggio del turno. E se la Germania Ovest si consolò della prima sconfitta nell’unico vero derby mai disputato in un Mondiale proprio con la conquista del titolo iridato, gli alti papaveri della DDR, circa un decennio dopo, incassarono la beffa della fuga di Sparwasser verso l’Ovest: proprio lui, l’eroe di una generazione che anticipò ancora una volta i tempi, prima che il muro si sbriciolasse per sempre.

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Club Fabio Belli

Lazio-Bayern Monaco del 1974: Chinaglia contro Muller in una Coppa dei Campioni mai disputata

di Fabio Belli

Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi e D’Amico da una parte. Maier, Hanser, Rohr, Schwarzenbeck, Beckenbauer, Kappelmann, Hadewicz, Durnberger, Muller, Hoeness e Wunder dall’altra. La prima è una formazione ben conosciuta dai tifosi della Lazio, quella dello storico primo scudetto del ’74. Il secondo è un gruppo entrato a pieno diritto nella leggenda del calcio, quello che ha sdoganato il calcio tedesco di club ai massimi livelli a livello internazionale. Ovvero, il Bayern Monaco per tre volte Campione d’Europa tra il ’74 ed il ’76. Si tratta solo di un’amichevole, giocata all’Olimpico di fronte ad oltre 50.000 spettatori, ma il match assumerà una valenza simbolica importantissima, perché sarà l’unica passerella europea di un certo spessore da parte della “Banda del ’74”.

Wilson e Beckenbauer ad inizio partita (fonte LazioWiki - Vincenzo Cerracchio)
Wilson e Beckenbauer ad inizio partita (fonte LazioWiki – Vincenzo Cerracchio)

La partita si disputa di martedì il 17 settembre del 1974, una data scelta non a caso, perché il giorno dopo la Lazio, fresca del trionfo in campionato del 12 maggio, avrebbe dovuto esordire nella massima competizione continentale. Per giocare la prima sfida in Coppa dei Campioni la Lazio dovrà invece attendere altri 25 anni, quando il torneo si è già trasformato in Champions League, nella sua prima sfavillante edizione a 32 squadre. Questo perché i biancocelesti pagarono salatissimi gli incidenti dell’anno prima in Coppa UEFA, nel match di ritorno dei sedicesimi di finale contro l’Ipswich Town. Una situazione che portò alla squalifica dalle Coppe Europee la Lazio, che contava però sull’intercessione di Artemio Franchi, all’epoca potentissimo dirigente calcistico italiano e soprattutto presidente dell’UEFA, per vedersi rivolto un atto di clemenza, e poter essere presente all’appuntamento con la storia.

Probabilmente è stata però proprio la politica a chiudere l’ultimo portone tra la Lazio e l’Europa: la squadra di Maestrelli era vista come una magnifica meteora, e al momento degli incidenti contro l’Ipswich, nell’autunno del 1973, in pochi in Italia pensavano che l’exploit della stagione precedente, con lo scudetto perduto per il gol di Damiani a Napoli a 2 minuti dalla fine del campionato, avrebbe potuto essere ripetuto. L’assenza di una formazione italiana nella Coppa dei Campioni 1974/75 era vista come un danno di immagine anche dai vertici federali, che non si adoperarono da subito sul caso Lazio-Ipswich, proprio perché pensavano che al massimo i biancocelesti sarebbero stati assenti dalla Coppa UEFA dell’anno successivo.

E invece, verso l’aprile del 1974 fu chiaro che il miracolo sfiorato l’anno precedente, si sarebbe compiuto: un’ingerenza pesante di Franchi a quel punto sarebbe stata vista come ad uso e consumo della federazione italiana, e il tempo giocò semplicemente a sfavore di Chinaglia e compagni. Quell’amichevole del settembre ’74 fu dunque solo un flash di quello che poteva essere e non è stato. All’epoca la leggenda del Bayern era appena iniziata, con la conquista della prima Coppa dei Campioni dei bavaresi nell’incredibile finale di Bruxelles contro l’Atletico Madrid, e con il titolo Mondiale nella finale, disputata proprio a Monaco, contro l’Olanda di Crujyff. Proprio il modello al quale era accostata la Lazio di Maestrelli, capace di portare in Italia dinamismo, squadra corta, diagonali degli esterni difensivi e particolarità fino a quel momento sconosciute alla tattica della Serie A.

Quella squadra, ansiosa di confrontarsi contro formazioni come il Leeds di Bremner e Lorimer (poi finalista in quell’edizione proprio contro il Bayern), il Barcellona di Crujyff, il Borussia Monchengladbach di Gunter Netzer e con lo stesso Bayern, dovette accontentarsi di quella passerella con Franz Beckenbauer e Gerd Muller. Schwarzenbeck, l’uomo che aveva strappato con il suo gol nel recupero dei supplementari la Coppa all’Atletico Madrid garantendo la ripetizione del match al Bayern, portò in vantaggio i tedeschi, ma la Lazio rispose nel finale con Franzoni, attaccante di riserva ricordato soprattutto per un suo gol nel derby d’andata nella stagione dello scudetto. Rimase un flash, un rimpianto, forse la conferma della consapevolezza di potersi giocare qualcosa di importante al gran ballo delle Grandi d’Europa: ma l’invito, alla fine, non arrivò mai per quella squadra pazza e meravigliosa.

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Emiliano Storace Le Finali Mondiali

1990: Germania Ovest-Argentina 1-0. Tris tedesco nel Mondiale delle mille storie

di Emiliano Storace

Cinquantasei anni dopo l’edizione voluta fortemente da Benito Mussolini e dal regime nel 1934, il Mondiale di calcio tornava in Italia. Stavolta però ad attenderlo c’era un paese in grandissimo sviluppo, dove il calcio era una religione e la Serie A forse il campionato più bello del Mondo. Non si può certo dire che l’edizione numero 14 della massima competizione calcistica del nostro pianeta sia rimasta negli annali per il gioco espresso e per la spettacolarità delle sue partite. Le “Notti Magiche” di Italia ’90 sono rimaste nel cuore e nella mente di un popolo italiano che 24 anni fa riusciva ancora a sognare.

Germania tricampione nella "Notte Magica" dell'Olimpico
Germania tricampione nella “Notte Magica” dell’Olimpico

Oltre 50 milioni di italiani hanno accompagnato con caroselli e notti in bianco una nazionale di ottime qualità che Azeglio Vicini seppe assemblare con cura e intelligenza. E se le istituzioni italiane, fossero state altrettanto perfette come lo furono i nostri azzurri in campo, magari adesso ci ricorderemmo di un Mondiale in più e di qualche debito o scandalo in meno. Se non ci furono colpi di genio o Fenomeni da imitare, certamente il Mondiale italiano ha regalato storie e personaggi di cui il calcio si è innamorato col passare del tempo. Il Camerun di Roger Milla, trentottenne stella dei Leoni Indomabili e successivamente nominato calciatore africano del secolo, che tornò in nazionale solo per giocare il Mondiale in Italia. Il Costa Rica di Bora Milutinovic, che si qualificò per la prima volta agli ottavi di finale di un Mondiale sorprendendo anche gli stessi abitanti del piccolo stato centroamericano. L’Egitto dei miracoli, che nella sua storia si presentò solamente a due edizioni dei Mondiali entrambe in Italia: 1934 e 1990.

Al sole di Sicilia e Sardegna, i “Faraoni” non passarono il girone ma si tolsero molte soddisfazioni pareggiando contro Irlanda e Olanda e perdendo solo di misura contro l’Inghilterra. Fu l’edizione anche della prima e unica partecipazione ad un Mondiale degli Emirati Arabi Uniti, squadra materasso ma che strappò applausi e consensi a tutto il pubblico italiano con la RAI che volle esaltarne la partecipazione dedicandogli tanti speciali televisivi in tarda serata con un Piero Chiambretti scatenato nell’intervistare sceicchi ed emiri al seguito della squadra.

Oltre alle prime volte e alle imprese calcistiche, fu anche l’edizione di un’Italia esaltante (che perse in semifinale contro l’Argentina a Napoli in una notte stregata) e di una Germania Ovest nettamente superiore a tutte le altre squadre. Dopo due finali perse nell’82 e nell’86 contro Italia e Argentina, la “Nationalmannschaft” era riuscita a presentarsi nuovamente ad un Mondiale da favorita insieme all’Italia paese ospitante. Alla guida c’era ancora Franz Beckenbauer (che di lì a poco avrebbe lasciato la guida della Nazionale) mentre la squadra era composta da tantissimi calciatori militanti nella nostra Serie A, al tempo la terra promessa per ogni calciatore tedesco.

La Germania arrivò in finale senza nessun affanno, vincendo sei gare su sette tra cui un infuocato ottavo di finale contro l’Olanda a San Siro. Uno scherzo del destino volle che nella finalissima di Roma ci fu ad attenderla ancora una volta l’Argentina, proprio quella squadra che quattro anni prima gli aveva tolto la gioia del terzo titolo mondiale con un gol di Burruchaga nel finale. Per la prima volta nella storia dei Mondiali, andava in scena un remake della stessa finale a soli quattro anni di distanza, una sorta di vendetta o di maledizione a seconda della squadra vincitrice. La partita era la stessa ma il divario tra le due squadre era nettamente cambiato in favore dei tedeschi.

Andreas Brehme calcia il rigore Mondiale
Andreas Brehme calcia il rigore Mondiale

I biancocelesti Campioni del Mondo non erano infatti all’altezza della spedizione messicana, con un Maradona in fase calante e non più in grado di trascinare da solo un’intera nazione. In una delle finali più noiose mai giocate che la storia ricordi, l’unico sussulto lo regalò il solito Diego Armando Maradona quando apostrofò con un sincero “Hijos de Puta” , l’intero pubblico dell’Olimpico che fischiava il suo inno. Ci pensò l’interista Andreas Brehme a rompere l’equilibrio tra le due squadre, trasformando un dubbio calcio di rigore concesso (anche qui lo zampino dispettoso della storia) dall’arbitro messicano Codesal che pochi istanti prima non ne aveva concesso un altro ancor più netto stavolta su Dezotti. La Germania conquistò così il terzo titolo mondiale della sua storia eguagliando i successi di Brasile e Italia. Una Germania tosta in difesa con Berthold, Brehme, Augenthaler e Kohler, veloce e letale in avanti con Voeller, Klinsmann, Hassler e Lothar Matthaus. Un successo meritato e neanche tanto a sorpresa, visto il livello di una nazionale che era scesa in Italia per prendersi il titolo vendicando la finale dell’Azteca.

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

1986: Argentina-Germania Ovest 3-2. Un imprevedibile scherzo del destino

di Fabio Belli

Mai come il 29 giugno 1986, la finale del Campionato del Mondo di calcio ha avuto un protagonista così universalmente atteso. Diego Armando Maradona si è ritagliato il suo posto nei cuori di tutto il popolo argentino con l’incredibile performance nei quarti di finale contro l’Inghilterra. Raramente in oltre cento anni di storia del football, un solo calciatore è riuscito a caricarsi sulle spalle una partita così densa di significati. La vittoria su Lineker e compagni rappresenta una rivincita dell’orgoglio patrio per gli argentini dopo la guerra della Falkland, il cui risarcimento è rappresentato dal gol di mano realizzato dal “diez”, che sblocca il risultato di fronte a oltre 110.000 spettatori in delirio all’Azteca di Città del Messico. E’ la leggendaria “Mano de Dios“, condita dalla famosa frase maradoniana “se rubi a un ladro, avrai cento anni di perdono“.

Maradona alza al cielo la Coppa del Mondo all'Azteca
Maradona alza al cielo la Coppa del Mondo all’Azteca

Ma è anche la partita del “Barrilete Cosmico“, ovvero come il cronista Victor Hugo Morales chiamò Maradona dopo la realizzazione del “gol del secolo“, l’incredibile slalom tra gli inglesi considerato a tutt’oggi la più strabiliante prodezza della storia del calcio. Maradona è comunque in stato di grazia come mai nella sua carriera, e non sono solo le motivazioni extra contro gli inglesi a farlo volare. In semifinale contro la rivelazione Belgio, sigla una doppietta e riporta l’Argentina in finale dopo otto anni dal trionfo di Baires. Di fronte, ci sono i soliti tedeschi occidentali che ormai da venti anni, fatta eccezione per il 1978 quando persero il podio per una scelleratezza contro l’Austria, sono presenza fissa tra le prime quattro posizioni. Una squadra, la Germania Ovest, che mescola vecchio e nuovo, con un Rummenigge quasi al canto del cigno ma ancora competitivo, ed un attaccante come Rudi Voeller astro nascente del calcio europeo, e che presto diventerà un idolo della parte giallorossa di Roma. Parlando di italiani del futuro, anche Matthäus e Brehme, che vestiranno la maglia dell’Inter, sono diventati ormai un pilastro della squadra, che vede indossare il numero dieci ancora al trentatreenne Felix Magath, castigatore della Juventus nella finale di Coppa dei Campioni del 1983 con l’Amburgo.

Ma il punto è che nessuno dei tedeschi è Maradona, ed era dai tempi di Pelé che un giocatore non riusciva a catalizzare in questo modo l’attenzione in un Mondiale. L’Azteca si aspetta una magia “definitiva” dal fuoriclasse del Napoli, che sta trascinando verso il titolo un’Argentina tutt’altro che trascendentale, di sicuro inferiore tecnicamente a quella che pure fu letteralmente sospinta di forza alla vittoria nel Mondiale giocato in casa nel 1978. Diego è il giocatore migliore della competizione e forse di tutti i tempi, ma alle sue spalle ci sono solo un buon attaccante (Valdano), onesti portatori d’acqua (Burruchaga, Olarticoechea) e una difesa rocciosa ma tecnicamente non impeccabile. La quale ha dovuto fare anche a meno di Passarella, ufficialmente per un grave problema gastrico, ufficiosamente perché sembra che Maradona abbia cancellato l’unica altra possibile personalità ingombrante nello spogliatoio. Al suo posto gioca il “Tata” José Luis Brown, reduce addirittura da una stagione di inattività, con sole cinque presenze prima di Natale nel Deportivo Espanol di Buenos Aires.

300.000 occhi sono puntati su Maradona dagli spalti dell’Azteca, ma due in particolare un po’ più in basso: quelli di Franz Beckenbauer, che da CT tedesco vuole stupire il mondo con una gabbia in grado di fermare il fenomeno del Mùndial. Sull’altra panchina però Carlos Bilardo ha le sue idee, tutte abbastanza chiare. Se non lasciano giocare Diego, gli spazi per Valdano e Burruchaga si moltiplicano, e non di poco viste le energie necessarie per limitare il fuoriclasse. La sorte tende anche una mano non da poco agli argentini, visto che il portiere tedesco Schumacher, fino a quel momento impeccabile, esce a vuoto su un cross del “Burru”, permettendo a Brown di completare la sua favola con il colpo di testa del vantaggio. Ad inizio ripresa, Valdano sigla il raddoppio e l’epilogo sembra scritto.

I tedeschi però, lo hanno dimostrato a più riprese nella storia dei Mondiali, hanno questa caratteristica di non darsi mai per vinti che a volte trascende la logica. Sotto di due in un Azteca in delirio per gli argentini, mettono palla al centro e sfruttano il “braccino” degli avversari, e soprattutto la loro difesa non certo impenetrabile. Nel giro di 7′ Rummenigge e Voeller riportano il risultato in parità. Mancano dieci minuti al termine, i supplementari sembrano inevitabili ed ora tutti si aspettano Maradona, il sigillo finale su un Mondiale che mai ha avuto un padrone così chiaro.

La "gabbia" tedesca per Maradona: in mezzo a cinque avversari, Diego toccherà verso Burruchaga il pallone della vittoria
La “gabbia” tedesca per Maradona: in mezzo a cinque avversari, Diego toccherà in avanti verso Burruchaga il pallone della vittoria

Oltre ad essere proverbialmente irriducibili, però, i tedeschi sono bravissimi a prevedere tutto il prevedibile, ma si fanno anche sorprendere dall’imprevisto più di quanto sarebbe lecito aspettarsi. Appena tre minuti dopo il 2-2 di Voeller, Maradona si ritrova chiuso nel cerchio di centrocampo in un perimetro composto da cinque avversari. E’ la “gabbia” disegnata da Beckenbauer, che si rivolta clamorosamente contro la Germania. Perché a Maradona in quel momento non interessa la gloria personale: quella se l’è già guadagnata, in maniera indelebile, contro l’Inghilterra, e l’ha consolidata contro il Belgio. Ma Diego sa che senza la Coppa, quelle imprese sbiadirebbero. E allora non fa altro che toccare, in maniera deliziosa, in avanti per Burruchaga che è fuori dalla gabbia, e corre nella prateria che lo separa da Schumacher e dall’inevitabile gol del 3-2. E così, nel Mondiale di Maradona, la firma sulla vittoria in finale è del “Burru”: un imprevedibile scherzo del destino, che ha colpito i tedeschi nel momento peggiore. E Diego alzò la Coppa che lo rese Immortale.

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Enrico D'Amelio Le Finali Mondiali

1974: Germania Ovest-Olanda 2-1. Quel traguardo mai oltrepassato

di Enrico D’Amelio

Gli avvenimenti della storia che si possono definire rivoluzionari hanno radici sempre lontane e non accadono mai per caso. Tra il 1915 e il 1925, il 1928 e il 1940, e tra il 1945 e il 1947, un signore inglese di nome Jack Reynolds venne chiamato ad Amsterdam ad allenare l’Ajax. Lì iniziò a mettere in pratica un nuovo sistema di gioco di democrazia tattica applicata al calcio, dove nessun giocatore era ancorato al proprio ruolo, e nel corso della partita chiunque poteva operare indifferentemente come difensore, centrocampista o attaccante. Velocità di pensiero, ricerca continua degli spazi e mai una posizione predefinita erano le prerogative di tale impostazione. Tra gli interpreti di spicco di questo ‘calcio totale’ c’era il futuro commissario tecnico della Nazionale olandese, Rinus Michels, che 27 anni dopo condurrà gli oranje a un passo dal sogno al Mondiale in Germania Ovest del 1974. Nella memoria collettiva, l’Olanda degli anni ’70 viene ricordata come la più bella espressione di romanticismo incompiuto legato allo sport. Una filosofia di vita modernissima, una continua sinfonia in movimento che ha segnato lo spartiacque tra calcio antico e moderno. Il soprannome affibbiato a questo gruppo verrà preso da uno straordinario film di Stanley Kubrick di tre anni prima: ‘Arancia Meccanica’. Nulla di violento, però, potrà mai essere assimilabile ad una delle Nazioni più libertarie e pacifiche dell’Europa di quel tempo, ma solo un accostamento cromatico e una semplificazione dialettica per un atletismo portato all’eccesso.

Il Kaiser Franz alza la Coppa del Mondo al cielo di Monaco
Il Kaiser Franz alza la Coppa del Mondo al cielo di Monaco

Non meno democratica, nonostante la turbolenta situazione storica del periodo, era la Germania ad occidente del Muro di Berlino. Da undici anni era stato istituito il campionato Nazionale (la Bundesliga), e nelle prime sette stagioni avevano trionfato altrettante squadre diverse. Dal 1970, però, iniziava l’egemonia di Bayern Monaco e Borussia Moenchengladbach, che domineranno questo decennio e forniranno gran parte dei loro uomini alla Nazionale in maglia bianca con l’aquila imperiale sul petto. I Bavaresi hanno due giocatori simbolo tra le loro fila: uno è il capitano Franz Beckenbauer, leggendario difensore di gran classe denominato “Kaiser”, per il suo modo di intendere il calcio da leader indiscusso e aristocratico. L’altro è Paul Breitner, un fantastico terzino sinistro che si conquisterà le antipatie di compagni di squadra e allenatori per l’abitudine di girare il Paese con il Libretto Rosso di Mao Tse-Tung. Un intellettuale di sinistra prestato allo sport, dovendo sintetizzare. Emblemi del Borussia erano il capitano Berti Vogts – che a proposito di simpatie politiche avrà da discutere nella gara contro i cileni col centravanti Caszely, passato alla storia come oppositore di Pinochet -, e il bomber Jupp Heynckes, che nel 2013, ironia del destino, porterà il Bayern Monaco alla conquista del triplete (Bundesliga, Champions League e Coppa di Germania) da allenatore.

Cruijff in azione durante il mondiale tedesco
Cruijff in azione durante il mondiale tedesco

I tedeschi, con un sorteggio beffardo, vennero inseriti nel Gruppo Uno, dove figuravano, oltre a Cile e Australia, i cugini più poveri, quelli a oriente del Muro di Berlino. Lì, nella DDR-Oberliga, era la Dinamo Dresda la squadra migliore del momento, anche se nei dieci anni successivi il campionato verrà vinto solo dalla Dinamo Berlino, la società di riferimento della Stasi. Un campionato di regime dilettantistico, data l’incompatibilità della concezione di professionismo sportivo con la vigente ideologia comunista. Nonostante questo, però, saranno i teutonici della DDR a battere quelli della Germania Ovest nella terza e ininfluente gara del girone per 1-0. L’ultimo atto di questo torneo, però, non può che vedere protagoniste Germania Ovest e Olanda. L’immagine di Beckenbauer e Cruijff che si scambiano i gagliardetti a metà campo è la logica conseguenza di un finale già scritto. Il Brasile Campione del Mondo in carica è orfano di Pelé, la partecipazione dell’Italia verrà ricordata solo per la lite tra Ferruccio Valcareggi e Giorgio Chinaglia a causa di una sostituzione contro Haiti, e la Polonia si accontenterà di avere tra le sue fila il capocannoniere del Mondiale, Grzegorz Lato, con sette reti all’attivo.

La storia ci racconta come finì la corsa. Il 7 luglio 1974, all’Olympiastadion di Monaco di Baviera, sono gli olandesi a dare il calcio d’inizio, e per 54 secondi non fanno mai toccare il pallone ai tedeschi. Il loro genio Johan Cruijff decide di accelerare e andare in porta con tutto il pallone, costringendo un difensore tedesco ad atterrarlo. Il calcio di rigore, il primo assegnato nella storia delle finali di una Coppa del Mondo, viene trasformato dal biondo centrocampista Johan Neeskens. La Germania Ovest è sotto in casa propria, senza aver mai avuto il possesso palla. A questo punto i ragazzi di Michels hanno il torto di guardarsi troppo allo specchio e di non chiudere il conto. Così è Breitner a prendere per mano i compagni, procurarsi un altro rigore e rimettere le cose a posto. Il primo tempo sembra incanalato sull’1-1, ma il DNA della squadra di Schoen non contempla l’ipotesi di accontentarsi, tant’è che prima dell’intervallo Vogts e compagni riescono a trovare il 2-1 grazie a un colpo di genio di Gerd Muller. Il risultato non cambierà fino alla fine, e il trofeo calcistico più prestigioso verrà alzato al cielo da Kaiser Franz.

Nonostante questo, nei cicli vittoriosi che nel calcio scandiscono i tempi della storia, l’eccezione che conferma la regola spetta di diritto all’Arancia Meccanica olandese. L’unica a presentarsi con la bacheca vuota al cospetto dell’Italia di Piola, del Brasile di Pelé o dell’Argentina di Maradona. L’unica, altresì, a potersi permettere di sfoggiare quel fascino indiscusso che è proprio solo di chi arriva a un centimetro dal traguardo, senza mai riuscire ad oltrepassarlo. Come in un finale cinematografico onirico e romantico, in cui non si capisce dove finisca la realtà e inizi l’immaginazione.

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

1966: Inghilterra-Germania Ovest 4-2 dts. Alf Ramsey, un tempo per lavorare, un tempo per riposare.

di Fabio Belli

“Signori, non ho molto da dirvi, se non anticiparvi che l’Inghilterra vincerà la prossima Coppa del Mondo. E adesso lasciatemi lavorare”. I giornalisti presenti alla conferenza stampa di presentazione in cui Alf Ramsey, allora ovviamente non ancora “sir”, si svelava come nuovo CT dell’Inghilterra, capirono da quella ventina di parole che nulla sarebbe stato più come prima. Legata alle sue tradizioni già centenarie nel football, l’Inghilterra sembrava però inchiodata al suo passato: i britannici continuavano a ripetersi di essere i più forti, e gli altri vincevano. La storia doveva cambiare, e chi come Ramsey poteva capirlo, visto che era in campo il giorno dell’umiliazione per eccellenza del calcio inglese, quando la Nazionale di Sua Maestà venne battuta nei Mondiali brasiliani del 1950 dai dilettanti statunitensi?

L'Inghilterra sfata un tabù centenario e sale sul tetto del mondo
L’Inghilterra sfata un tabù centenario e sale sul tetto del mondo

Il viaggio iniziò il giorno di quella conferenza stampa nel 1963, e terminò idealmente quel 30 luglio del 1966 a Wembley. Per presentarsi sotto gli occhi della Regina a giocare nella finale dei Mondiali in casa, Ramsey aveva messo in soffitta il WM del suo storico predecessore, Michael Winterbottom, e un rigido protocollo che vedeva i calciatori della Nazionale scelti dalla Football Association. Decisioni che scatenarono non poche polemiche nell’ultraconservatore ambiente inglese, ma ciò che contava era il risultato finale. L’Inghilterra era lì, e di fronte aveva l’avversario forse più stimolante possibile, quella Germania Ovest che evocava nei sudditi d’Albione slanci patriottici mica da ridere.

Sir Alf Ramsey
Sir Alf Ramsey

C’è da dire che la cifra tecnica del Mondiale fu nettamente superiore a quella della rassegna cilena di quattro anni prima. La Corea del Nord dimostrò a tutti (e a salatissime spese dell’Italia, com’è noto) che c’era un “terzo mondo” calcistico pronto ad affacciarsi sulla scena. Il Portogallo mise in scena un ideale passaggio di consegne, seppur temporaneo, tra Pelé (di nuovo massacrato dagli infortuni) ed un Brasile costretto a lasciare il torneo al primo turno, ed Eusebio, il fenomenale talento del Benfica. L’Urss fece sfoggio di un calcio atletico ammirevole e del solito, formidabile Lev Jašin. Ma fu opinione comune che a giocarsi il titolo arrivarono le squadre migliori. I padroni di casa sfruttarono il fattore campo soprattutto nei quarti di finale contro l’Argentina, mandata a casa da un gol di Geoffrey Hurst e da un clima intimidatorio, che si chiuse col memorabile epiteto di “Animals!” lanciato da Ramsey alla delegazione albiceleste. L’ossatura della squadra era composta dai talenti dell’”Academy” del West Ham Hurts, Moore e Peters, e dagli assi del Manchester United, Bobby Charlton e l’indemoniato mediano Nobby Stiles. La Germania Ovest giocava già un calcio rapido e moderno, guidata da un giovane centrale di centrocampo che andava a comporre una affascinantissima sfida delle sfide con Bobby Charlton nella finale: Franz Beckenbauer.

Con queste premesse, lo spettacolo non poteva certo latitare. Di solito bravi a rimontare, i tedeschi occidentali colpiscono per primi con Helmut Haller, ma subiscono quasi subito il pareggio del solito Hurst. I capovolgimenti di fronte sono tanti, ma i due protagonisti più attesi, Charlton e Beckenbauer, sentono l’affanno della tensione. Quando Peters a meno di un quarto d’ora dalla fine firma il sorpasso, Wembley è in delirio. Ma, è una banalità dirlo nel calcio, guai a dare per morti i tedeschi: allo scadere un tiro-cross di Siggi Held prende una traiettoria folle, con Gordon Banks in porta sbilanciato dai tanti “lisci” in area di rigore: l’ultimo che può arrivare sul pallone, allungandosi, è Weber, e ce la fa: 2-2 e supplementari dopo trentadue anni in una finale dei Mondiali.

E’ qui che Alf Ramsey mette il suo valore aggiunto: la sua rudezza e la sua imperturbabilità sono fondamentali in un momento in cui alla sua squadra potrebbe crollare il mondo addosso. “Li avevamo battuti, vuol dire che possiamo batterli ancora. Adesso”. Sono le parole che servono: le squadre sono stanche alla stessa maniera, ma l’Inghilterra riparte da uno 0-0 ideale che gli fa sfruttare la spinta forsennata di Wembley. Un “bomba” di Hurst, fenomenale nello stoppare, girarsi e tirare, si stampa sulla traversa, e sbatte sulla linea di porta: è gol? A quasi 50 anni di distanza se ne discute ancora. Le immagini tramandate non sono chiare, l’impressione è del gol, ma da un’altra angolatura il dubbio rimane. Il guardalinee Bakhramov, investito di una responsabilità enorme, professa sicurezza. E’ gol, e la storia non può più cambiare, anzi arriva il sigillo sempre di Hurst, che firma la sua tripletta. Il proverbiale aplomb inglese lascia spazio ad una festa che verrà tramandata di generazione in generazione, nei racconti di chi c’era, mentre la Regina consegna la Coppa Rimet nelle mani di Bobby Moore.

Il giorno dopo, di passaggio alla BBC Ramsey incrocia due giornalisti. Non sono due qualunque, ma gli unici che lo hanno difeso con editoriali di fuoco, quando il resto del paese gridava al sacrilegio per la profanazione del metodo-Winterbottom. “Alf… ce l’abbiamo fatta!” dissero avanzando a braccia spalancate verso il tecnico, che nel rispondere fu ancora più stringato che nel giorno della sua prima conferenza stampa: “E’ il mio giorno libero, non ho niente da dirvi”. In pratica, da “lasciatemi lavorare”, a “lasciatemi riposare”: ogni cosa a suo tempo, e caratteraccio a parte, per gli inglesi l’importante fu che Ramsey capì che era arrivato il momento di diventare campioni nei fatti, e non solo a parole.