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Calciatori Fabio Belli Nazionali

Francois Omam-Biyik, il salto del calcio africano oltre la propria storia

di Fabio BELLI

Il Mondiale del 1990 è stato un evento indimenticabile per gli appassionati di calcio. Un football all’epoca pieno zeppo di campioni, Maradona nell’Argentina, Roberto Baggio nell’Italia, l’Olanda di Van Basten e Gullit, i tedeschi, il Brasile dell’astro nascente Romario… insomma, un’epoca d’oro che andava a chiudere un decennio pieno di fantasia e di colori come gli anni ’80. E proprio al Pibe de Oro, in qualità di calciatore più forte del mondo e di campione iridato in carica, toccò aprire le danze del mondiale italiano nella partita inaugurale disputata al Meazza di Milano contro il Camerun.

Il calcio africano iniziava appena ad uscire dall’aspetto “pittoresco” che ne aveva contraddistinto la sua permanenza nelle competizioni internazionali dei precedenti vent’anni. Il Camerun era alla seconda partecipazione ai Mondiali e nel 1982 fece tremare gli azzurri poi Campioni del Mondo, uscendo imbattuto dal girone eliminatorio di Vigo dopo un 1-1 da batticuore contro l’Italia. Ma le prime vere squadre-sensazione del continente africano ai Mondiali furono l’Algeria nel 1982, trascinata dal “tacco di Allah” Madjer ed estromessa da un vero “biscotto” tra Austria e Germania ed il Marocco nel 1986, esaltato dai numeri degli estrosi Timoumi e Bouderbala nonché prima squadra del Continente Nero capace di superare il primo turno in un Campionato del Mondo. Il Camerun, sempre guidato in campo dall’ormai trentottenne Roger Milla, sembrava dunque la vittima sacrificale contro l’Argentina di Dieguito e Caniggia poi destinata ad arrivare di nuovo all‘atto finale della competizione.

Eppure proprio da quella partita gli sportivi di tutto il mondo inizieranno ad amare e sostenere i “Leoni Indomabili“, una generazione di calciatori che trovò le sue espressioni più talentuose nel portiere Tomas N’Kono, forgiato da anni passati nella Liga spagnola, e dallo stesso Milla, uno dei più forti attaccanti africani di tutti i tempi. Ma saranno anche tutti gli altri elementi in rosa a farsi conoscere e a conquistare le folle. A partire da quella di San Siro assolutamente incredula, dopo il fischio d’inizio, nel vedere Maradona e compagni stentare di fronte alla straripante forza atletica e alle accelerazioni devastanti del Camerun. Il tifo si schiera ben presto a favore dei “leoni indomabili”, ma la legge del più forte e del pronostico sembra compiersi inesorabilmente quando André Kana-Biyik si fa espellere lasciando il Camerun in inferiorità numerica.

Ma è a questo punto che si compie uno di quei miracoli che rendono unico il calcio: Makanaky scodella un pallone in area sul quale Francois Omam-Biyik si avventa saltando oltre le umane possibilità, come sembra evidente agli spettatori che in tutto il mondo seguono l’evento. Il portiere Pumpido, sorpreso quando ormai pensava che l’avversario non sarebbe mai arrivato all’impatto sul pallone, si lascia beffare ed il pallone si insacca in rete. E’ il gol che cambia il calcio internazionale e che apre una nuova frontiera nella quale il Camerun diverrà la prima squadra africana a piazzarsi tra le prime otto del mondo e che, soprattutto, rende la Coppa del Mondo un evento di massa anche in Africa. Nella capitale del Camerun, Yaoundè, il delirio provocato dal gol di Omam-Biyik proseguirà tutta la notte visto che i Leoni Indomabili, nonostante la chiusura del match in nove contro undici, portano a casa la vittoria contro i campioni del mondo in carica.

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Calciatori Enrico D'Amelio

Totò Di Natale, ovvero: dei treni da prendere e di quelli da lasciar passare

di Enrico D’Amelio

Il quartiere 219 di Pomigliano d’Arco è un luogo che opprime gli adulti e fa sognare i bambini. Padri impegnati dalla mattina alla sera a lavorare in uno dei poli industriali più famosi del Mezzogiorno, e figli che corrono dietro a un pallone nella speranza di un futuro lontano da umiliazioni e incertezze, da stenti e rassegnazione. Come per i fiori che sbocciano in primavera, però, anche il talento degli uomini, per formarsi ed emergere, ha bisogno del suo habitat naturale. Se alla Napoli di fine anni ’80 si sostituisce la tranquilla provincia toscana, un ragazzo cresciuto sotto il mito di Maradona può sbocciare ugualmente, ma probabilmente più in là nel tempo. Perché la luce del fiore che sembrava prodigio può essersi temporaneamente offuscata. In quel quartiere nasce Antonio Di Natale. Lì inizia a giocare a calcio, lì comincia la sua storia.

Notato dal talent-scout Lorenzo D’Amato alla Scuola Calcio San Nicola a Castello di Cisterna, lascia la terra d’origine nel 1990, a soli 13 anni, per trasferirsi ad Empoli. Dal gioco al professionismo, con la storia che diventa viaggio. Il treno della vita, che si dice passi una sola volta, viene preso, anche se non a cuor leggero. A 500 km da casa iniziano le nostalgie e le profonde crisi interiori, figlie della lontananza da papà Salvatore e mamma Giovanna, ma soprattutto dai quattro fratelli (il più piccolo chiamato affettuosamente ‘Masaniello’) e dalla sorella Anna. Nonostante la classe superiore a quella dei coetanei, Totò vorrebbe mollar tutto e fare ritorno a casa, per vivere una vita forse più difficile, ma certamente più normale, almeno per un adolescente. Viene convinto dal ‘fratello maggiore’ Vincenzo Montella (uno dei partenopei trasferitisi in Toscana, come Nicola Caccia e Francesco Lodi) a stringere i denti e ad andare avanti. Così succede che il viaggio prosegue, anche se con qualche sosta di rito, come tutti quelli da compiere nel nostro paese. Nessun esordio precoce in Serie A, ma due anni a fare esperienza tra la provincia di Bologna (Iperzola) e Viareggio, prima del ritorno a Empoli nel 1999, ad ormai 22 anni. Tre stagioni in Serie B, con la prima annata in doppia cifra (16 gol nel 2001/02) che coincide con la promozione nella massima serie. Il debutto nel grande calcio arriva a 25 anni. Un po’ tardi per chi poteva già essere su altri palcoscenici, ma a fare la differenza a certi livelli non sono solo i mezzi tecnici, ma quelli interiori. Una vita da atleta irreprensibile e il matrimonio con Ilenia, oltre ad una fisiologica maturazione anagrafica, consentono una conferma anche nella categoria maggiore, con 13 marcature e l’esordio nella Nazionale allenata da Giovanni Trapattoni, in un’amichevole contro la Turchia.

A 27 anni il treno riparte e porta ancor più lontano, questa volta nel luogo della maturità e della definitiva consacrazione: Udine. Nulla di più agli antipodi per uno nato nell’hinterland napoletano, ma un posto forse freddo e discreto nel modo giusto per non far implodere un fiore dal cuore troppo caldo. La prima parentesi, con Luciano Spalletti in panchina, è memorabile a livello di squadra, con la qualificazione ai preliminari di Champions League (prima volta per la società bianconera), ma meno per quel che riguarda l’impatto personale, costellato da 7 segnature in 33 presenze. Diventano 8 i gol nella stagione successiva, fino a una doppia cifra raggiunta con stabilità per tre campionati consecutivi (11, 17 e 12). I compagni di squadra cambiano, come nella politica della famiglia Pozzo, ma Totò diventa sempre più un punto di riferimento, tanto che arrivano la maglia numero 10 e la fascia di Capitano. E’ nel 2009/10, a 32 anni, quando un calciatore ha già dato il meglio del suo repertorio, che il fiore sboccia del tutto, con 29 gol in 35 presenze, e le prime attenzioni dei club più importanti del nostro calcio (Juventus e Milan su tutti) a metterne in dubbio il futuro in Friuli. Un’altra scelta da fare, a distanza di quasi 20 anni, questa volta a livello professionale: essere una Bandiera della società friulana, o giocarsi le proprie carte in un top club, con una carriera sicuramente più breve, e anche più marginale? Un attento esame interiore spinge verso la scelta meno ambiziosa, ma probabilmente più saggia, se guardata a posteriori. Il Capitano diventa il giocatore più prolifico di sempre in maglia bianconera, oltre che quello con più gettoni di presenza in tutte le competizioni. Non più Zico, dunque, protagonista di due fugaci stagioni a Udine nella metà degli anni ’80, ma Di Natale al primo posto nell’immaginario collettivo friulano, con il recente sorpasso su Roberto Baggio nella classifica dei cannonieri di tutti i tempi della Serie A.

Il viaggio parallelo, quello con la maglia azzurra, è fatto di alcune soddisfazioni, ma non perdona i troppi ritardi accumulati. Più tranquillo e a proprio agio nelle gare di qualificazione, che non nella pressione del Grande Evento. Non convocato per il Mondiale del 2006, dove invece si laurea Campione del Mondo il compagno di squadra Vincenzo Iaquinta, e protagonista di una Nazionale scarica dal trionfo precedente, con le magre figure agli Europei del 2008 e al Mondiale in Sudafrica del 2010. Il vuoto lasciato dagli addii di Totti e Del Piero non viene colmato, un po’ per un carattere non allenato ai grandissimi palcoscenici, un po’ per un movimento calcistico che ha oramai perso la generazione migliore. Nel primo biennio di Prandelli, però, passa l’ennesimo treno da prendere al volo, con l’orgoglio ferito italiano che tenta il canto del cigno agli Europei del 2012 in Ucraina. Un gol a Casillas nella prima gara del girone ai pluricampioni spagnoli dà l’illusione di un finale diverso, con un trofeo finalmente da poter conquistare. Sempre contro gli iberici, però, arriva la delusione della medaglia d’argento con un sonoro 4-0 in finale, e l’ultima presenza con la seconda maglia più amata di sempre.

L’ultima parte della storia è tutta da scrivere, e quella del viaggio ancora da percorrere. Un inizio, un tragitto, una fine. Tanta strada battuta, per ritornare, come spesso capita ad ogni ‘Eroe’, al punto di partenza. Forse proprio lì, al 219 di Pomigliano d’Arco, ad osservare altri bambini che giocano, vincono e perdono, ancora nel mito immortale di Diego. Oppure, più probabilmente, nella quiete friulana. Nella speranza che i ragazzi di quella terra abbiano acquisito un esempio da raggiungere e un idolo da emulare. Non con la maglia di Juventus, Milan o Inter, ma, finalmente, con quella dell’Udinese. Questa sarà la definitiva consapevolezza di aver fatto la scelta giusta. Sui treni presi al momento giusto, e su quelli che è stato saggio lasciar passare.

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#Contromondiali Fabio Belli

#Contromondiale 12: #Messi, #Argentina, #Elio, #Agbonavbare, #Nigeria, #Svizzera, #Ecuador, #NYPost, #Chiellini, #Suarez

di Fabio Belli

Nigeria – Argentina 2-3

Messi sempre più leader dell'Albiceleste
Messi sempre più leader dell’Albiceleste

73. Il racconto di Brasile 2014 in tante mini-storie aiuta anche ad evitare una certa ripetitività. La presenza costante di Leo Messi suggerisce qualcosa: il Mondiale della “pulga” sembra lava di un vulcano in ebollizione: contro la Nigeria è arrivata anche la doppietta, quattro gol in tre partite, ed Argentina a punteggio pieno che dai tempi di Maradona, non aveva in squadra un leader così netto e definito. Anche il CT Sabella si è piegato alla “Messidipendenza”, e a certe dichiarazioni non manca mai il beneplacito dello spogliatoio. Uno per tutti, tutti per Messi: è il bello viene ora, perché il fuoriclasse del Barcellona sa che basta un solo passo falso per smentire quanto fatto vedere finora.

Agbonavbaré, da mito nigeriano celebrato da Elio, a facchino
Agbonavbaré, da mito nigeriano celebrato da Elio, a facchino

74. Esattamente venti anni fa, Elio e le Storie Tese cantavano in un memorabile pezzo dedicato ad USA ’94: “Se Agbonavbaré difenderà la propria porta nei mondiali di calcio americani, forse la Nigeria vincerà questi famosi campionati di calcio mondiali americani”. Agbonavbaré quei Mondiali neanche li giocò, sopravanzato nelle gerarchie dal portiere-Principe Peter Rufai. Una bella storia, anche perché dopo essersi visto soffiato il posto da un nobile, Agbonavbaré si è ritrovato a fare l’operaio, per la precisione il facchino; ci torneremo su. Ma quella squadra che si inchinò a Roberto Baggio agli ottavi di finale, negli anni novanta fu considerata la prima squadra africana in grado di godere di favori e attese nei pronostici: una generazione che tra Usa ’94 e Francia ’98, fu anche accompagnata da giovani che nella Olimpiadi del 1996 regalarono al calcio africano il primo grande alloro internazionale della sua storia. Tutto questo per dire che a distanza di venti anni, è ancora la scuola nigeriana la più efficace del continente nero, soprattutto di quello sub-sahariano. E anche contro l’Argentina la squadra di Keshi si è dimostrata all’altezza: lunedì contro la Francia a Brasilia, ci sarà da fare la storia.

Bosnia – Iran 3-1

Il derby di Teheran, uno dei più sentiti al mondo
Il derby di Teheran, uno dei più sentiti al mondo

75. Ai narratori di calcio, dispiace che l’Iran non sia riuscito a lasciare un vero segno in Brasile. La Nazionale persiana è arrivata ai Mondiali in uno stato di grande crisi economica, tanto che la federazione locale ha vietato (facendo uno strappo per quella di Messi) lo scambio delle maglie tra giocatori: ognuno aveva la sua, e doveva bastare per tutto il Mondiale. Non è bastato affidarsi ad un uomo di mondo come Carlos Queiroz in panchina, ex Real Madrid e soprattutto discepolo di Sir Alex Ferguson al Manchester United, per un gruppo composto soprattutto da giocatori impegnati nel campionato locale. Il calcio in Iran è uno sport sempre più apprezzato, in uno degli stati dall’età media più giovane del mondo, ed il derby tra Persepolis ed Esteghlal a Teheran è diventato uno dei più sentiti del mondo. Tante storie che non hanno però trovato uno sbocco effettivo sul campo.

Honduras – Svizzera 0-3

Puro umorismo svizzero
Puro umorismo svizzero

 

76. Il cammino della Svizzera nella prima fase del Mondiale dice in realtà molto più qualcosa della Francia che degli elvetici. Che contro l’Honduras si sono dimostrati pratici ed efficaci: il fatto di aver subito un rovescio così pesante contro la squadra di Deschamps, è forse indice di una forza dei transalpini che in molti avevano sottovalutato. In Svizzera intanto, l’umorismo per un paese ligio alle regole e abituato all’autarchia, si è scatenato sul fatto che i tifosi di tutti i cantoni per festeggiare gli ottavi hanno dovuto avere un occhio di riguardo al match degli odiati francesi contro l’Ecuador. Pericolo scampato, anche se ora l’Argentina appare come una montagna molto alta da scalare negli ottavi.

Ecuador – Francia 0-0

All'Ecuador non è mancato il calore sugli spalti
All’Ecuador non è mancato il calore sugli spalti

77. In attesa degli Stati Uniti, Brasile 2014 si è rivelata finora un’edizione trionfale per le americane, del Nord, del Centro e del Sud. Hanno fatto eccezione le due formazioni del girone F: e se sull’Honduras i pronostici erano impietosi già alla vigilia, ci si poteva attendere qualcosa di più dall’Ecuador, che di fatto si ritrova fuori per una scelleratezza contro la Svizzera, praticamente a tempo scaduto, nella prima partita. Un vero peccato, col Mondiale che perde un vero protagonista (Enner Valencia) ed una squadra arcigna ma molto vivace ed organizzata. In dieci contro i “bleus” e sostenuti da un coloratissimo tifo, l’Ecuador ha cercato la qualificazione fino all’ultimo: ma il Mondiale non perdona le ingenuità.

Rimasugli di Italia – Uruguay 0-1

78. E il premio per la miglior prima pagina sul caso Suarez-Chiellini va… al New York Post!

Miglior prima pagina Suarez-Chiellini al New York Post
Miglior prima pagina Suarez-Chiellini al New York Post

 

 

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

1998: Francia-Brasile 3-0. Le “sliding doors” di Ronaldo e Zinedine Zidane

di Fabio Belli

A sedici anni di distanza da quello che è stato l’ultimo Mondiale vinto da chi giocava in casa, si può dire che quello della Francia nel 1998 è stato davvero il delitto perfetto. E’ vero, il Brasile ha ottime chance per riprovarci nell’edizione ormai prossima, e la globalizzazione del calcio negli ultimi 28 anni ha portato il Mondiale in nazioni (Messico, Stati Uniti, Corea del Sud, Giappone, Sudafrica) senza squadre in grado di capitalizzare il fattore campo. Ma restando ai tempi moderni, tedeschi e italiani possono guardare con invidia a quanto costruito attorno ai “bleus” dai francesi in quell’estate di fine anni novanta.

L'Equipe de France per la prima volta Campione del Mondo
L’Equipe de France per la prima volta Campione del Mondo

E’ stato il delitto perfetto perché prima di loro c’erano riusciti anche inglesi ed argentini, ma facendo leva molto di più sul fattore ambientale. L’albiceleste del ’78 andò ai limiti del regolamento ed oltre, se ricordiamo la “marmelada peruana“, senza scomodare le pressioni del regime di Videla. L’Equipe de France ’98 si avvalse di una macchina organizzativa d’efficienza al pari solo di quella teutonica di Monaco ’74, quando tutto andò come doveva andare senza scomodare arbitri o strane manovre, fatta eccezione per una robusta inzuppata nel campo nella partita che di fatto valeva come una semifinale, contro la Polonia. La Francia fu impeccabile: squadra sempre protetta dal tifo incessante dello stadio nuovo di zecca, lo “Stade de France” di Saint Denis, buon sorteggio sfruttato al meglio col primo posto nel girone, nessuna nevrotica deviazione da Parigi, alla stregua dell’Italia nel ’90.

Certo, sportivamente parlando, un paio di sbandate ci furono. Innanzitutto Zinedine Zidane, chiamato ad arrivare dove neppure Le Roi Michel Platini era riuscito ad arrampicarsi, che si fa cacciare per un fallo di reazione contro l’Arabia Saudita, non esattamente una partita in grado di produrre chissà quali pressioni. Quindi, le sofferenze negli ottavi contro il Paraguay del monumento Chilavert, vittoria al golden goal, e contro l’Italia nei quarti, quando gli azzurri giocarono troppo tardi la carta Roberto Baggio, e dopo un assedio lungo un’ora e mezza e dei supplementari coraggiosi, videro infrangersi i loro sogni sulla traversa di Gigi Di Biagio. Ancora i rigori condannarono gli azzurri, per la terza volta consecutiva: passato lo “spaghetto”, i francesi ribaltarono una semifinale pazza contro la Croazia. Pazza perché Suker e compagni si fecero beffe della pressione di Saint Denis passando in vantaggio, ma si ritrovarono battuti da una doppietta di Lilian Thuram, uno che col gol, di mestiere, confidenza non doveva proprio averne.

Così, quando a Saint Denis si deve giocare la finalissima, qualcuno nell’Equipe de France comincia ad avere un po’ paura. Il super-Brasile di Ronaldo, Denilson, Cafu, Edmundo, Bebeto (ma non Romario), ha giocato solo un ottavo di finale degno della sua fama. Il Fenomeno viene da una stagione in cui l’Inter ne ha potuto toccare con mano la forza d’urto, accontentandosi però solo di una Coppa UEFA. Stellare la prova di Ronaldo contro la Lazio, ma i rimpianti per la sfida con la Juventus per lo scudetto restano, e riguardano soprattutto gli arbitri. Alla vigilia della finale però, una certezza sembra farsi strada: Ronaldo e Zidane devono riscattare in finale un Mondiale fino a quel momento non all’altezza.

Zidane in cima al mondo il 12 luglio del 1998
Zidane in cima al mondo il 12 luglio del 1998

Un film molto in voga di quegli anni era “Sliding Doors“: Gwyneth Paltrow si ritrova in una storia improntata sui bivi infiniti del destino. E come quella sera le vite di quei due straordinari campioni divergano nettamente, è sbalorditivo. Tanto si apre una stagione di successi, vittorie e prodezze per Zidane, tanto una di amarezze, dolore, infortuni e obiettivi mancati per Ronaldo. In quella che è la stranissima, ancestrale simbologia dei Mondiali, la storia cambierà quattro anni dopo, quando dopo la Champions League vinta con lo storico gol al Leverkusen da Zidane con la maglia del Real Madrid, il francese sarà costretto a una mesta passerella da infortunato in Asia, mentre Ronaldo, dopo quattro stagioni amarissime, passate quasi tutte in infermeria, tornerà il Fenomeno.

Ma a Saint Denis il 12 luglio del 1998 le “sliding doors” del destino sono tutte per Zizou. Ronaldo, lo si saprà poi in uno scandalo di proporzioni planetarie, sta in piedi per miracolo. Vuoi lo stress, vuoi le infiltrazioni per le fragilissime ginocchia, prima della partita è stato colto da convulsioni violentissime in albergo: qualche compagno di squadra pensava fosse morto. Schierarlo in campo in quelle condizioni, di fronte agli occhi del mondo intero, resta un’offesa eterna a quello che è stato il suo straordinario talento. Zidane invece arriva nelle migliori condizioni psicofisiche possibili: la squalifica paradossalmente lo ha fatto arrivare fresco e riposato alle partite chiave, e arrivati all’intervallo ha già bucato due volte di testa un incredulo Taffarel. E’ il delitto perfetto, nemmeno l’assenza in difesa di Blanc, che ha baciato nel suo rituale immancabile la “pelata” del portiere Barthez in borghese perché squalificato, intacca le sicurezze transalpine. La cavalcata finale di Emmanuel Petit per il gol del 3-0 è quella di una Nazione intera verso una gloria rincorsa vanamente per 68 anni. Zidane finisce in cima al mondo, Ronaldo in fondo alla scaletta di un aereo: per rialzarsi, al Fenomeno serviranno i quattro anni più lunghi della sua vita.

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

1994: Brasile-Italia 3-2 dcr. La rivoluzione sacchiana si fermò al Rose Bowl

di Fabio Belli

Il Rose Bowl di Pasadena è un catino bollente quando Franco Baresi sta per calciare il primo rigore della serie italiana. E’ già un momento storico di per sé, visto che mai la finale del Mondiale si è decisa ai calci di rigore in sessantaquattro anni di storia. Difficile che chi legga non conosca già l’epilogo di quella roulette russa dal dischetto. Ma in molti, troppi partono dal rigore fallito dal giocatore simbolo di quel Mondiale e di quella stagione della storia del calcio, Roberto Baggio, che fu solo il sigillo in una storia già compromessa dai precedenti errori di Massaro, e proprio del “Kaiser Franz” milanista. Il rigore di Baresi rappresenta invece il momento in cui tutto ancora poteva accadere, e in cui poteva portarsi a compimento una rivoluzione iniziata sei anni prima, e sulla scia della quale il calcio italiano era tornato a dominare la scena mondiale a livello di club.

Brasile "tetracampeao" nel 1994
Brasile “tetracampeao” nel 1994

I centri nevralgici della rivoluzione sono due, ed è in parte un caso, e in parte no, che i blocchi della Nazionale italiana ai Mondiali statunitensi del 1994 provenissero proprio da quelle due squadre: Parma e Milan. Ovvero, la squadra che lanciò l’allora CT della Nazionale, e quella che lo consacrò di fronte al mondo intero. Stiamo parlando ovviamente di Arrigo Sacchi, che con un nuovo modo di interpretare la zona fece innamorare Silvio Berlusconi, che gli mise in mano una delle più strabilianti squadre di tutti i tempi. Tornato in cima all’Europa e al mondo, il Milan continuerà a vincere con Fabio Capello, mentre Sacchi proverà ad applicare i crismi della sua rivoluzione alla Nazionale. Un’impresa ardita, condita da un numero di giocatori convocati e di esperimenti senza precedenti, tanto che la squadra arrivò al giugno del 1994, alla prima partita persa contro l’Irlanda, senza avere ancora una fisionomia precisa.

Quando Franco Baresi si trova a battere quel rigore, la rivoluzione sta per essere compiuta nel modo più strano. Niente calcio champagne, fatta eccezione per una mezz’ora in semifinale contro la Bulgaria, ma partite eroiche per resistenza ed applicazione, o decise da prodezze straordinarie dei singoli. Contro Norvegia, Nigeria e Spagna si è vinto così, ma contro i bulgari la sorte ha chiesto il conto al CT. Lite con Beppe Signori, il più formidabile cannoniere di quegli anni del calcio italiano con la maglia della Lazio, stanco di giocare da tornante sinistro e di castrare le sue velleità offensive. Il gran rifiuto del bomber di Alzano Lombardo priverà Sacchi di una freccia micidiale, ma la testardaggine nel CT nel non schierare da punta pure il primo cannoniere capace di sfondare il muro dei 25 gol in campionato dopo 32 anni, non fu da meno. Squalifica per Billy Costacurta, anima difensiva del suo Milan proprio con Baresi, il che portò ad un recupero ad ogni costo di quest’ultimo, perché almeno uno dei due doveva assolutamente giocare. Ed infine, infortunio per Roberto Baggio, che sarà un fantasma al Rose Bowl, contro un Brasile che avrebbe temuto mortalmente la sua fantasia.

Di fronte a Pasadena c’è infatti la più pragmatica Selecao di tutti i tempi. Anche più di quella che Sebastiao Lazaroni aveva schierato con una difesa a cinque che fece inorridire i puristi della “Zaga“: il Brasile difende a quattro, e gli dei del calcio punirono al Delle Alpi di Torino il tecnico con la memorabile giocata Maradona-Caniggia che decise il match. Stavolta, la presenza di un terminale offensivo come Romario è una garanzia. In più lo stato di grazia di Bebeto, suo partner perfetto in campo, Dunga a centrocampo e Branco, che con una punizione delle sue ha steso l’Olanda nei quarti di finale, rendono la squadra di Parreira poco spettacolare, ma quadrata e maledettamente efficace.

L'errore dal dischetto di Baresi a Pasadena
L’errore dal dischetto di Baresi a Pasadena

E torniamo quindi alla palla sul dischetto di Baresi. Sacchi quel momento non voleva giocarselo così, col suo capitano guerriero ferito, reduce da un’operazione al menisco e da un recupero con pochi precedenti di velocità. Sognava di incantare il mondo con l’applicazione su scala Nazionale del suo calcio totale, quello che fece quasi piangere dal nervoso il Real Madrid della “Quinta del Buitre“, umiliato in Coppa dei Campioni dall’applicazione maniacale della tattica del fuorigioco. Quella partita invece, giocata con un caldo infernale, fu se possibile ancor più brutta della finale di quattro anni prima, in cui però non c’era l’attenuante della temperatura. I flash da insolazione parlano di pochi palloni sprecati da entrambi gli attacchi, e di un bacio di Gianluca Pagliuca ad un palo che gli evitò la papera del secolo.

E finalmente ed inesorabilmente si arriva a Franco Baresi, che manda alle stelle i sogni suoi, del suo allenatore rivoluzionario e quelli di un’Italia intera, che con quella squadra aveva imparato a soffrire e a raddrizzare situazioni impossibili. Sbaglieranno come detto anche Massaro e quello che l’Italia abituata a soffrire aveva imparato a chiamare Divin Codino, e che Bruno Pizzul chiamava solo “Roberto“, come uno di famiglia, per distinguerlo dall’altro Baggio, Dino, che ci aveva salvato contro la Norvegia. Ma Sacchi, all’errore di Franco, già aveva capito tutto: non per niente a fine partita, tra i brasiliani festanti per la conquista del “tetra“, furono loro ad abbracciarsi e a piangere calde lacrime di rimpianto. Di lì in poi la rivoluzione sacchiana imboccò la discesa, la grande illusione non tornò mai più.

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Calciatori Fabio Belli

Paulo Futre, talento cristallino e ginocchia fragili

di Fabio Belli

Di talenti inespressi, per sfortuna, scelleratezza o quant’altro, la storia del calcio è piena. Alcuni però sono ricordati più di altri, magari anche per aver lasciato un segno forte anche fuori dal rettangolo di gioco. Gli ‘altri’ invece escono di scena così come erano entrati, in punta di piedi, e ogni tanto nella mente degli appassionati riaffiora un flash, che fa rendere conto di quanto sia sottile il confine tra gli altari e la polvere.

futrePaulo Futre ne è un esempio lampante: ai Mondiali messicani del 1986 arriva con le credenziali di miglior talento portoghese degli ultimi venti anni. Non per niente, la Nazionale lusitana si ripresenta alla rassegna iridata esattamente a venti anni di distanza dal terzo posto ottenuto in Inghilterra dalla generazione di fenomeni che aveva in Eusebio la sua punta di diamante. La scuola portoghese sta di nuovo crescendo all’epoca, come dimostrato dalla semifinale raggiunta agli Europei del 1984. L’avventura in Messico finirà male, con una clamorosa eliminazione al primo turno per una squadra che, pur ricca di talenti, come spesso accade al Portogallo pecca in concretezza.

Futre ha però qualcosa in più: tipico numero dieci d’attacco, segna e fa segnare con la maglia del Porto. A soli ventuno anni si laurea Campione d’Europa, nella leggendaria finale del “tacco di Allah”, titolare al fianco di Madjer e Juary nella sfida vinta contro il Bayern Monaco. Futre non segna, ma le sue magie lo svelano all’Europa intera. L’Atletico Madrid se lo accaparra, in Spagna resterà per sei stagioni, più del previsto, perché un talento come il suo pareva destinato ai palcoscenici massimi, sin da subito. Il tallone d’Achille di Futre è un fisico che non garantisce una piena autonomia. Si infortuna spesso, e alle sublimi doti da rifinitore, non riesce ad abbinare medie realizzative convincenti.

Nel frattempo, la Nazionale del Portogallo vive una nuova involuzione che lo porta a mancare gli appuntamenti del Mondiale del 1990 e degli Europei del 1988 e del 1992. Ogni anni si parla di un suo possibile passaggio alle big della Liga come Barca e Real, ma non se ne fa mai nulla. Nel 1993 allora Futre si risolve di accettare le sirene italiane. La Reggiana neopromossa in Serie A lo presenta come il regalo per i tifosi del “Mirabello“. Sembra un grande passo indietro, ma negli anni Novanta il calcio italiano è imbattibile per qualità, visibilità e ovviamente anche per i salari. La Reggiana può essere l’occasione giusta per attirare l’attenzione delle grandi italiane, abituate a dominare nelle competizioni continentali, di quel periodo.

L’esordio è folgorante: Futre va subito a segno e dispensa magie nella sfida contro la Cremonese. Ma il destino ha piani crudeli, da subito, per la sua avventura italiana. A pochi minuti dalla fine del match, uno scontro con il difensore grigiorosso Pedroni gli costa la rottura del tendine rotuleo. E’ l’inizio di un calvario che lo vedrà restare fermo quasi due anni. Nel campionato 1993/94 quella resterà la sua unica presenza in Serie A, ne aggiungerà dodici l’anno successivo, senza evitare una malinconica retrocessione per gli emiliani.

In quelle stagioni il Milan di Berlusconi fa collezione di talenti, e tra Baggio e Savicevic, anche Futre viene aggiunto alla sbalorditiva parata che la squadra rossonera fa sfilare a San Siro. Ma il ginocchio ormai è andato: ironia della sorte, in maglia rossonera in campionato Futre scenderà in campo solo una volta, proprio contro la Cremonese, la squadra che ha segnato lo spartiacque della sua carriera. E’ la partita dello scudetto 1995/96, il quarto in cinque anni per il Milan di Fabio Capello. Futre concluderà la carriera appena due anni dopo in Giappone, a soli trentadue anni, e con sole 43 presenze negli ultimi 5 campionati da professionista. Resterà così uno dei più grandi talenti inespressi del football mondiale di tutti i tempi.

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Calciatori Enrico D'Amelio

Roberto Baggio e quei due gesti valsi più di mille parole

di Enrico D’Amelio

A volte le storie d’amore finiscono nel modo più triste. Distacchi che come pietra tombale mettono la parole fine a una simbiosi durata nel tempo, costellata di colpi di genio, gol, prodezze e assist a mandare in estasi una città intera. Per Firenze, nella seconda metà degli anni ’80, Roberto Baggio era l’enfant prodige. L’esile ragazzino venuto da Vicenza, coccolato tra le colline di Fiesole, che domenica dopo domenica sbocciava come uno dei fiori più belli dell’intera Serie A. Viola la maglia, 10 il suo numero, come tutti i predestinati che sembrano nati per incantare le folle di uno stadio.

Roberto Baggio con la sciarpa raccolta dopo il rigore fallito in Fiorentina-Juventus (90/91)
Roberto Baggio con la sciarpa raccolta dopo il rigore fallito in Fiorentina-Juventus (90/91)

Succedeva che a San Siro partiva dalla sua metà campo, per poi mettere in ginocchio quella difesa che ognuno di noi ricorda come la migliore della storia del calcio, che a Napoli prendesse la scena al cospetto di un certo Diego Armando Maradona, con un altro gol da antologia, o che facesse diventare memorabile una banale partita di qualificazione di Coppa Italia ad agosto. Cinque anni con la casacca della Fiorentina, dal 1985 al 1990, e una crescita costante di pari passo col club, che lo portano a giocarsi la finale di Coppa Uefa contro la Juventus di Dino Zoff, pochi mesi prima dei Mondiali delle “notti magiche”. Il trofeo andrà ai bianconeri, e proprio lì si consumerà il tradimento. L’Avvocato Agnelli si innamora del ‘Divin Codino’, ne tratta l’acquisto con il patron viola Pontello, che, di lì a poco, anche per le violente contestazioni suscitate in città, cederà la quota di maggioranza societaria ai Cecchi Gori. Roberto non solo si toglie per sempre la maglia gigliata, ma indossa quella della Juventus. Un colpo imperdonabile per chi l’aveva adottato e coccolato come il figlio prediletto, e che si vede tradire con la rivale più odiata. Due schiaffi in un colpo solo, fino alla resa dei conti, con la partita da giocare a Firenze nella stagione 1990/91.

Come sempre succede in situazioni di questo tipo, il tifo organizzato si spacca in due. Una parte, la predominante, vorrebbe dimostrare l’amore ferito di un tempo con fischi e insulti all’amato che fu; un’altra, non meno sentimentale, vorrebbe immaginarlo come quello che correva per il prato verde del ‘Franchi’, e applaudirlo ancora una volta, senza soffermarsi su quale maglia porti adesso. C’è però da sostenere la Fiorentina, principalmente, e la cornice della ‘Fiesole’ è da brividi, con una coreografia spettacolare che ritrae la città di Firenze incorniciata con tutte le sue bellezze. I ragazzi allenati da Sebastiao Lazaroni lottano su ogni pallone, e si portano in vantaggio con una magistrale punizione di Diego Fuser, che, per un giorno, si traveste da Baggio. Il 10 della Juve non sembra lui. Vaga per il campo, è svogliato, non ha spunti degni della sua classe. Viene marcato a uomo da Salvatori, che in una partita come questa sembra essere Beckenbauer. Nonostante tutto, però, Roberto riesce a procurarsi un calcio di rigore, per una trattenuta di un difensore viola. E qui, per un momento, come nei film sentimentali a lieto fine, succede l’imprevedibile. Il rigorista della Juventus è Baggio, ma di trafiggere la ‘Sua’ Fiorentina proprio non se la sente. Julio Cesar prova a convincerlo, ma lui, che a 23 anni ha tirato e segnato un calcio di rigore in Semifinale di Coppa del Mondo contro l’Argentina, declina l’invito. Lascia l’incarico a De Agostini, che, ironia della sorte, si fa ipnotizzare da Mareggini, rendendo ancora più evidente la rinuncia del ‘Codino’.

Maifredi, allora tecnico juventino, a questo punto, decide di sostituire il numero 10, che, mentre abbandona il campo passando sotto la tribuna principale, viene accompagnato da un boato di fischi. Finché un tifoso non decide di lanciargli una sciarpa della Fiorentina, che cade a pochi centimetri dai suoi piedi. Potrebbe far finta di non vederla, andare oltre, invece il richiamo dell’amante tradita è troppo forte. La raccoglie, la nasconde sotto la giacca della Juventus, e fa un timido saluto accompagnato da un sorriso. Tornano alla mente come immagini indelebili i fotogrammi di cinque anni d’amore, di una città che come nessuna l’aveva adottato, e che lui, nonostante tutto, continua ad amare in un angolo di cuore. In quel momento, il match clou che si stava giocando in campo, per i tifosi di Firenze quasi non esiste più. Un ragazzo di 23 anni ha fatto fermare il tempo e messo sullo sfondo l’evento principale, con lo stadio intero che d’impeto esplode in un altro boato, ma questa volta d’amore, per il vecchio fuoriclasse. Come nei film sentimentali dal finale amaro, dove c’è un ultimo e passionale slancio tra due vecchi amanti arrivati all’inevitabile passo d’addio. Si sono amati, si sono traditi, feriti, ma quel che è stato rimarrà per sempre. D’altra parte che importa aver tanto sofferto, se si può dire d’aver vissuto un momento così immortale?

Parafrasando un capolavoro della cinematografia: “Siamo due vecchi, Roby: l’unica cosa che ci resta è qualche ricordo; e se domenica calcerai quel rigore, neanche quelli ti rimarranno.”

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Fabio Belli Presidenti

L’Avvocato Agnelli, dalla miniera di aneddoti all’amore per Platini

di Fabio Belli

Dire Juventus e dire Agnelli è la stessa cosa, quasi tutti lo sanno. Da Giovanni all’Avvocato Gianni, da Umberto fino ad arrivare ai giorni nostri, ad Andrea e alla possibile apertura dell’ennesimo ciclo vincente bianconero, che si rigenera dalle ceneri di Calciopoli come l’Araba Fenice. Dire Juventus è dire Agnelli, ma si può essere d’accordo che tra tutti i protagonisti della storia bianconera, l’Avvocato sia stato quello più carismatico, più ricco di stile e di aneddoti raffinati.

url-1Volerli riassumere in un solo articolo è follia, citarne qualcuno invece è un esercizio di stile che fa bene al cuore degli appassionati, oltre che allo spirito di chi vuole disintossicarsi dal calcio saturo di polemiche dei giorni nostri. Da quanti sterili protagonisti l’Avvocato sarebbe stato annoiato, se fosse ancora qui. Lui che amava i personaggi sopra le righe, originali, ed oltre ad essere stato, nella sua quarantennale esperienza da padre nobile della Juventus, una miniera di aneddoti, era anche uno che amava raccontare le storie del passato, quelle della Juventus cinque volte Campione d’Italia negli anni ’30, la squadra della sua prima giovinezza, ma anche quella dell’immediato dopoguerra, simbolo della rinascita dell’Italia dalle macerie.

Nella grandeur juventina degli anni ’80, all’Avvocato piaceva tormentare Platini, suo figlio calcistico preferito e per questo stuzzicato, come lo furono anche Baggio e Del Piero negli anni novanta. Una volta al campo di allenamento l’Avvocato si presentò in macchina, direttamente dentro il rettangolo verde, e cominciò ad intrattenersi con i calciatori. Propose una scommessa: fece piazzare tanti palloni sulla linea di centrocampo, e chiese a tutti di cimentarsi per provare a colpire volontariamente la traversa. In molti mancavano il bersaglio, qualcuno riusciva, lui osservava sornione finché notò Platini in disparte, che faceva stretching col massaggiatore. “Platini, la annoia il nostro gioco?” “Sinceramente , Avvocato.” rispose l’asso francese. “Allora perchè non prova a divertirci lei?” Senza battere ciglio Platini sussurrò qualcosa al massaggiatore, che lentamente si avviò verso la parte opposta del campo, e con l’aiuto di una panca salì a posizionare, in bilico sulla traversa, una lattina vuota. Da dove si trovava, Platini scalciò l’aria un paio di volte per sgranchirsi, quindi prese la mira e fece saltare, da una parte all’altra del campo, la lattina al primo colpo. “Molto bene,” si limitò a sorridere l’avvocato, e se ne andò.

Per parlare di Platini l’Avvocato, che era stato sempre un mattiniero, amava iniziare le sue settimane con telefonate a Boniperti, il suo uomo di fiducia alla Juventus che abbandonava gli spalti per scaramanzia alla fine di ogni primo tempo, e soprattutto al tecnico dell’epoca, Trapattoni, che alle sei del mattino si svegliava, comunque fosse andata la partita del giorno prima, per fare il punto con l’Avvocato. Che pungeva sempre: “Però quel Maradona lì mi sembra più bravo…” in un confronto che gli permetteva di rimproverare a Boniperti di aver lasciato cadere nel vuoto la sua segnalazione del Pibe de Oro, ai tempi dell’Argentinos Juniors. Amava tenere sulla corda i suoi uomini, l’Avvocato, ma lo faceva perché ne era orgoglioso. Ed era ottimista: quando in una assolata giornata di fine aprile del 1986 la Juventus piegò il Milan conquistando di fatto il suo ventiduesimo scudetto, a causa dell’incredibile crollo della Roma contro il Lecce, un giornalista gli chiese se si aspettava una giornata così. E lui rispose col suo solito tono ironico e disincantato: “Io mi aspetto sempre di tutto dalle giornate.” Stile inconfondibile, allora lo chiamavano stile Juventus.

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Calciatori Fabio Belli

Roberto Mancini e il colpo di tacco che fece la storia al “Tardini”

di Fabio Belli

“Ma che hai fatto? Che hai fatto???” L’entusiasmo di Bobo Vieri, quasi fanciullesco, faceva forse parte del carattere di un personaggio che, tra gli spigoli della sua indole, ha sempre mostrato di divertirsi, giocando a pallone. Ma quella sera, correndo incontro la compagno di squadra che aveva appena siglato il gol del vantaggio, non aveva fatto altro che esternare il pensiero di milioni di persone che, quel gol, l’avevano visto in diretta televisiva.

“Il gol più bello della storia”, fu il titolo dell’editoriale dell’allora direttore del Corriere dello Sport, Mario Sconcerti, il lunedì successivo alla partita. Forse iperbolico, ma senza mettersi a questionare sullo slalom di Diego Armando Maradona a Messico ’86 contro l’Inghilterra, sulla rovesciata del cigno di Marco Van Basten nella finalissima di Euro ’88, o sulle prodezze di Roberto Baggio, Pelè, Ronaldo, Messi o chi per loro, va detto che il colpo di tacco con il quale Roberto Mancini, con indosso la maglia della Lazio, ammutolì il “Tardini” di Parma in una sfida-scudetto del 1999, fu l’apoteosi del gesto tecnico in questione. Cross da calcio d’angolo ed impatto perfetto con il pallone, spalle alla porta, con sfera piazzata all‘incrocio dei pali, dove Gianluigi Buffon, allora estremo difensore degli emiliani e già della Nazionale, proprio non poteva arrivare.

In quegli anni Buffon aveva un conto aperto con la Lazio: neanche un anno dopo dal colpo di tacco di Mancini, subì un clamoroso gol da quasi 40 metri dal mediano biancoceleste Almeyda, una prodezza al volo irripetibile per l’interditore argentino, polmoni poderosi ma piedi poco nobili, ma forse per chiunque. Ma quel colpo di tacco fu una magia improvvisa, in una partita fino a quel momento equilibrata tra due squadre che si stavano giocando il primo posto. Una nuova scala del calcio, composta in quella stagione anche dalla Fiorentina allenata da Trapattoni, che si fece beffare sul filo di lana dal Milan di Zaccheroni, forse il più sparagnino della storia, ma trascinato da una forza irresistibile, quella della sorte, verso il suo sedicesimo scudetto.

La Lazio si riprenderà dalla delusione l’anno successivo, quello della pioggia di Perugia. Ma se si parla con la maggioranza dei tifosi biancocelesti, quasi tutti diranno che era quella squadra, quella che vinse a Parma con il colpo folle di Mancini, la più forte in assoluto della pur munifica gestione Cragnotti. In quella stagione e all’alba di quella successiva arrivarono due trofei europei a stretto giro di tempo, ma non lo scudetto, anche se la notte del “Tardini” sembrava spalancare a quella formazione qualunque possibilità. Mancini segnò il secondo gol laziale, ma quella partita finì tre a uno: il tris lo firmò proprio Vieri, conclusione di collo pieno, potentissima, alle spalle di Buffon nel finale di partita. Dopo quel gol, Bobo prese il pallone e se lo portò via, come per dire: dopo quello che vi abbiamo fatto vedere, questo ce lo portiamo a casa noi. E se non fu il più bello della storia, poco ci mancò…