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Allenatori Calciatori Fabio Belli

Boxing Day, il giorno del destino di Brian Clough

di Fabio BELLI

Di Brian Clough, l’allenatore senza peli sulla lingua che portò la classe operaia inglese in Paradiso grazie alle vittorie ottenute alla guida di Derby County e Nottingham Forest, si è detto e scritto davvero molto. In parecchi da tempo lo giudicano l’antesignano di Josè Mourinho negli atteggiamenti, anche se “Cloughie” era profondamente diverso in molti aspetti, soprattutto era molto più rude e ruvido pur essendo stato il primo, alla stregua di quanto poi perfezionato dal portoghese, a comprendere l’importanza e il ruolo dei media e della comunicazione nel calcio.

clougMeno si conosce però del Clough calciatore, autentico flagello divino in linea con le sue caratteristiche fisiche, piccolo attaccante dalla grande rapidità e reattività e soprattutto dal controllo di palla sullo stretto capace di fare impazzire qualsiasi difensore. Del Clough calciatore Bill Shankly, il manager che diede vita alla leggenda del Liverpool, diceva: “E’ peggio della pioggia di Manchester, quella almeno ogni tanto smette.” Sotto porta Clough invece non conosceva soluzione di continuità: con la maglia del Middlesbrough arrivò a segnare 197 reti in 212 apparizioni in campionato e si assestò su quelle medie anche dopo il suo passaggio al Sunderland all’inizio degli anni ’60.

Ma la sua carriera da calciatore si spezzò di fatto quando non aveva ancora compiuto ventotto anni: Clough subì un gravissimo incidente nel giorno di Santo Stefano del 1962, il cosiddetto Boxing Day. Chiamato così perché in Inghilterra è tradizionalmente legato all’usanza, nata nell’Ottocento. di regalare doni ai dipendenti o ai membri delle classi sociali più povere. In particolare, era consuetudine delle famiglie agiate britanniche preparare delle apposite scatole con all’interno alcuni doni e avanzi del ricco pranzo di Natale, da destinare al personale di servizio a cui era concesso libero il giorno successivo al Natale, per far visita alle proprie famiglie. Il 26 dicembre segna ormai da decenni l’inizio della maratona calcistica che gli appassionati di calcio in Gran Bretagna possono gustarsi nel periodo delle feste, quando qualche giorno di ferie aiuta a pensare più spensieratamente al football. Un’atmosfera sempre festosa ma che nel Boxing Day del 1962 segnò la fine del talento di Clough che molti ritenevano avrebbe potuto trovare compimento negli imminenti Mondiali in Cile. Pur considerando che il futuro leggendario allenatore rimase sempre ai margini dei Leoni Bianchi, collezionando solo due apparizioni in Nazionale in carriera, vuoi per la feroce concorrenza dell’epoca, vuoi per un carattere già ai tempi sin troppo schietto.

Ad ogni modo in quel 26 dicembre 1962 era programmata la sfida tra Sunderland e Bury: uno scontro con il portiere della squadra dei sobborghi di Manchester e il legamento crociato salta, un infortunio che segna la fine della carriera, a quei tempi, nella maggior parte dei casi. E Clough non fa eccezione: dopo un anno e mezzo di tentativi andati a vuoto, l’idea del rientro in campo per lui si fa da parte. L’Inghilterra perde un formidabile, astuto attaccante, ma trova nel contempo un allenatore destinato a lasciare sui tempi un segno indelebile. Le rivincite per Clough saranno molteplici, dal portare il Derby County dal fondo della Seconda Divisione alla vetta d’Inghilterra, ed il Nottingham Forest per due volte consecutive sul trono d’Europa. Ma il cerchio col Boxing Day si chiuderà solo ventidue anni dopo, quando Clough farà esordire proprio in occasione del Santo Stefano in campo, alla guida di un Forest ormai affermatissimo, il figlio Nigel appena diciottenne. Il quale inizierà nel 1984 una brillante carriera che lo porterà a partecipare agli Europei del 1992 con la maglia dell’Inghilterra, per seguire infine le orme paterne come allenatore. Un classico, perfetto caso di giustizia poetica.

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Allenatori Fabio Belli

Solo Brian Clough costruì Roma in un giorno

di Fabio BELLI

Rome wasn’t build in a day” è un detto molto popolare oltremanica. Quando lo riferirono a Brian Clough in merito alla pazienza necessaria per costruire un progetto vincente, lui aggiunse a modo suo: “E’ vero, Roma non fu costruita in un giorno: è anche vero però che nessuno mi chiese di prendere parte al progetto.” Perché altrimenti…

Il 20 settembre del 2004, dieci anni fa, “Cloughie” lasciava questo mondo, cedendo alla sofferenza fisica che doveva subire in seguito all’abuso di alcol, che lo costrinse anche ad un trapianto di fegato. Un vizio, quello della bottiglia, che era peggiorato in vecchiaia, in un mondo che cambiava troppo velocemente, e nel quale stentava a riconoscersi, proprio lui che per primo fra tutti aveva intuito certi mutamenti del calcio: l’importanza dei media, e quella dei soldi, due demoni che lui sfruttò a suo favore, per portare la provincia al potere.

Clough e Peter Taylor riuscirono nell’impresa di far vincere al Nottingham Forest più Coppe dei Campioni che scudetti nella sua storia. Non a caso, la biografia del tecnico, chiamata “Walking on water“, si riferiva proprio alla sua capacità di “fabbricare” miracoli, e di ripetere un’esperienza come quella di Derby, che sembrava unica nel suo genere, a Nottingham. Anzi, più che ripeterla completarla, perché al Derby County di Clough mancò la gloria europea, sogno infranto in una semifinale contro la Juventus che, inevitabilmente, segnò la fine dell’idillio col presidente di quella che era stata la sua creatura.

Nonostante a Nottingham la Coppa dei Campioni divenne quasi un’abitudine, il rimpianto più grande della carriera di Brian Clough, almeno stando a quanto disse lui stesso, resta aver lasciato il Derby County. Taylor non lo avrebbe mai fatto: fu la crepa che portò i due a non parlarsi mai più dopo l’ennesimo litigio a Nottingham, quando la gloria, più che i quattrini, non riuscì più a tenere insieme la coppia di tecnici meglio assortita della storia d’Inghilterra.

L’ambizione e l’abilità mediatica di Clough, oltre all’estrema lucidità tattica e alla capacità manageriale, si sposavano perfettamente con le straordinarie qualità di talent scout di Taylor, che trovava sempre nella realtà quei giocatori che l’altro aveva immaginato nella sua mente per fare grandi piccole squadre di provincia. Così arrivarono i fedelissimi come McGovern e O’Hare che seguirono Brian anche a Leeds e a Nottingham, così arrivò l’intuizione di portare Archie Gemmill e soprattutto Trevor Francis al City Ground. Francis è stato l’esempio evidente di come Clough operasse per plasmare le sue creature: spingere i bilanci di club fuori dall’aristocrazia del calcio al limite, al massimo delle loro potenzialità. L’azzardo di investire un milione di sterline, record per l’epoca, su un giocatore che, per le regole di allora, avrebbe potuto scendere in campo solo nell’eventuale finalissima di Coppa dei Campioni. Che il Nottingham giocò, e vinse, con un gol di…? Esatto, neanche a dirlo.

Se Dio avesse voluto che giocassimo per aria, avrebbe messo dell’erba lassù“, è un’altra sua famosissima citazione, emblema della sua predilezione per il gioco palla a terra, quasi un’eresia nel calcio inglese degli anni ’70. Segno che oltre che per quanto riguarda soldi e dichiarazioni a stampa e televisioni, Clough aveva capito in che direzione stava andando il calcio prima di molti altri. Dopo il divorzio da Taylor, l’alba degli anni novanta ne fiaccò lo spirito con una triplice delusione, quasi consecutiva. L’approdo mancato sulla panchina del Galles, lui che era convinto di poter portare la nazionale di Mark Hughes a Ian Rush a Italia ’90; la tragedia di Hillsborough, che spezzò il suo cuore di proletario di Middlesbrough, abituato alle folle oceaniche che vivevano il calcio come un rito in armonia, estranee alla follia degli hooligans; infine, la delusione della finale di FA Cup, l’unico trofeo che gli è sempre sfuggito, perduta contro il Tottenham nel giorno dell’infortunio di Paul Gascoigne.

Guidare una nazionale è il massimo obiettivo per un allenatore“, aveva detto più volte, convinto che il suo anticonformismo, dai e dai, insisti e insisti, non gli avrebbe precluso la panchina dell’Inghilterra. Non arrivò nemmeno quella gallese, e la storia praticamente finì lì. Finché ha potuto, è rimasto a parlare alla radio e alla televisione, con quel tono di chi la sapeva lunga, e la sapeva davvero, non solo a chiacchiere: Brian Clough, se voleva, Roma te la tirava su con una giornata di duro lavoro e un doppio whisky a cose fatte.

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Calciatori Fabio Belli

Justin Fashanu: la storia del primo calciatore professionista dichiaratamente gay

di Fabio BELLI

Probabilmente a Brian Clough, icona degli allenatori inglesi, non sarebbe piaciuto essere considerato un antesignano di Josè Mourinho anche se le analogie, soprattutto mediatiche, sono abbondanti. Sicuramente “Cloughie” era meno ammiccante nei comportamenti con stampa e pubblico anche se, per primo, aveva intuito le grandi potenzialità del baraccone tenuto su da stampa, tv, etc. Di sicuro il tecnico due volte campione d’Europa con il Nottingham Forest aveva un gusto per la battuta ruvida, secca e fulminante senza eguali.

Così quando si decise a discutere una certa situazione con Justin Fashanu, attaccante acquistato a peso d’oro dal Forest dal Norwich City nel 1981 ed in piena crisi d’identità in campo e fuori, incapace di sobbarcarsi l’oneroso ruolo di stella della squadra, come al solito non andò troppo per il sottile. Il dialogo, all’interno dell’ufficio di Clough, si svolse più o meno così, come raccontò lo stesso giocatore:
Clough: “Ragazzo, dove vai se devi comprare un taglio di carne?”
J. Fashanu: “Dal… macellaio, credo.”
C: “E se vuoi comprare del pane, dove te ne vai?”
JF: “Dal fornaio.”
C: “E allora per l’amor di Dio, perché continui ad andare in quei locali per finocchi?”
Il che, nella sua logica stringente, fa capire esattamente quale fosse il “problema” imputato a Fashanu che, in quel momento, cercava di conquistare la personalità magnetica di Clough nascondendo una verità che poi fece emergere alla luce del sole pochi anni dopo: fu infatti il primo calciatore professionista, per giunta di una certa fama, a dichiararsi gay.

E se la questione “calcio ed omosessualità” è ricoperta tutt’oggi da una fitta coltre di omertà ed imbarazzo nell’ambiente, immaginate all’epoca, ormai oltre trent’anni fa, quanto la cosa fosse d’impatto. Nella sua autobiografia Clough espresse profondo rimorso per non aver saputo essere psicologicamente vicino a Fashanu, forse troppo ingenuo nel dichiararsi in un ambiente come quello del football professionista che riversò su di lui una valanga di pura ostilità. Con il passaggio al Nottingham Forest, Fashanu era diventato ad appena vent’anni il primo calciatore nero britannico a valere più di un milione di sterline sul calciomercato. Ancora teenager aveva realizzato 35 reti con la maglia del Norwich in prima squadra (realizzando nel 1980 il “Gol dell’anno” in First Division contro il Liverpool) e sembrava davvero poter essere la “Next Best Thing” del calcio d’Oltremanica. Ma lo scarso rendimento al Forest nascondeva difficoltà psicologiche, per la sua omosessualità tenuta nascosta, che lo avrebbero poi portato solo alla fine degli Anni ’80 al coming out.

La carriera di Fashanu precipitò velocemente in seguito alle incomprensioni con Clough: dopo qualche stagione dal rendimento appena discreto con il Notts County, i rivali cittadini del Forest, arrivò a cambiare ben 12 squadre nei successivi 10 anni di carriera toccando nel suo peregrinare Stati Uniti, Canada, Scozia e Svezia. Questo fino a quando si dichiarò ufficialmente gay appena prima delle due annate passate al Torquay United. L’impatto per la sua vita, già consumata tra eccentricità varie e finanze sistematicamente sperperate, fu devastante: fu rinnegato anche dal fratello John (celebre attaccante vincitore di una FA Cup con il Wimbledon) e abbandonato da tutti finì per ritrovarsi coinvolto in un’accusa di violenza carnale ai danni di un ragazzo diciassettenne del Maryland, negli USA. Nonostante negli anni successivi emerse una carenza di prove, Fashanu non resse alla vergogna delle accuse e si suicidò nel 1998, all’interno della sua casa nei sobborghi di Londra. Il suo nome è però ancora ricordato nella comunità gay tra i personaggi pubblici più influenti e coraggiosi nella lotta per i pari diritti.

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Allenatori Fabio Belli

Clough, Benitez e Moyes: se non uccidi il mito, il mito uccide te

di Fabio Belli

Nei corridoi delle sedi delle più prestigiose società calcistiche del mondo, ci sono le foto sui muri. Scatti dei trionfi più belli, dei momenti che hanno fatto la storia, che certe volte sembra quasi riprendano vita sulle pareti. Sembra, certe volte: perchè altre volte è proprio così, il mito fagocita tutto quello che viene dopo di lui, e non c’è terreno più impervio dove costruire le mura di un solido futuro, che quello costituito dalle rovine di un glorioso passato.

David Moyes Manchester UnitedDei quarantaquattro giorni di Brian Clough al Leeds United, nella parte iniziale della stagione 1974/75, si è scritto di tutto è di più. Dal libro al film dedicati al ‘Maledetto United‘, ai racconti di quando Billy Bremner ha messo in scena una scazzottata con Kevin Keegan, nel bel mezzo del Charity Shield a Wembley contro il Liverpool. Si dice che mai crisi di rigetto nel calcio fu così violenta di quella causata dal connubio Clough-Leeds. Di sicuro se ne conosce il motivo, con i senatori della squadra più vincente d’Inghilterra all’alba degli anni ’70, ovvero gli ‘scoto’ Bremner, Lorimer e Jordan, assieme all’irlandese Johnny Giles, che reagirono malissimo a come ‘Cloughie’ aveva tirato giù dal piedistallo Don Revie. Ovvero il padre di quella squadra, al quale i suoi figliocci giurarono fedeltà eterna fino a cannibalizzare il suo successore.

Se con un altro approccio, Clough avrebbe avuto vita più facile allo United, non è dato sapere. Di sicuro, quella squadra nella stessa stagione, dopo il cambio in panchina, raggiunse la finalissima della Coppa dei Campioni, trofeo che Clough stesso vinse due volte negli anni successivi alla guida del Nottingham Forest. Segno che né da una parte né dall’altra mancava il valore, e che i problemi erano squisitamente ambientali. Che questa storia abbia ben poco insegnato al mondo del calcio del futuro, lo si può evincere da alcuni recenti episodi. Come l’avventura di Rafa Benitez all’Inter: il tecnico spagnolo che ha avuto il merito di rianimare un altro mito, quello del Liverpool tornato alla vittoria in Champions League dopo ben 21 anni sotto la sua guida. Ma che si è scontrato nell’Inter con l’eredità di chi, con il leggendario “triplete“, ha fatto superare al club milanese un complesso ultraquarantennale: José Mourinho.

Anche Benitez è caduto nel peccato originale di Clough, cercando di “uccidere il padre”, freudianamente parlando, già dopo i primi giorni dal suo arrivo alla Pinetina. Via le foto, difesa avanti di venti metri, nuova filosofia di gioco e di pensiero. Per la banda composta da Eto’o, Milito, Zanetti, Cambiasso, Snejider & co. (senza dimenticare la grande influenza dell’uomo-spogliatoio Materazzi) troppo tutto insieme. La squadra stenta in campionato come mai era accaduto dopo Calciopoli, Benitez lascia paradossalmente dopo la vittoria nel Mondiale per Club, e dopo uno sfogo mai gradito da Massimo Moratti su mercato ed etica di spogliatoio. Cosa pensasse di lui il gruppo, con diverse interviste ci ha pensato molto bene lo stesso Materazzi a chiarirlo, nel corso degli anni.

E veniamo ai giorni nostri: cioè a David Moyes, che dopo anni di elogi e nessun trofeo all’Everton, passa alla guida del primo Manchester United senza Alex Ferguson dopo ventisette anni. Qui però la storia è destinata a ripetersi nonostante una premessa del tutto differente: al contrario di Clough e di Benitez, Moyes aveva ricevuto la benedizione del proprio predecessore. Una mossa che sir Alex conoscendo i suoi ragazzi, considerava indispensabile per non diventare subito schiavi del passato, alla fine di un ciclo vincente che per numero di successi aveva fatto impallidire anche quello dei “Busby Babes“. Ma vallo a dire a Rooney, Giggs, e compagnia cantante: anche nel calcio, quando una “dittatura” finisce, è impossibile ristabilire subito l’ordine. Ed il Manchester United rischia di non partecipare alle Coppe Europee per la prima volta dopo anni e anni di dominio continentale. Troppo per non convincere lo stesso Ferguson a ritirare la sua benedizione, e a consigliare l’allontanamento dello stesso Moyes dopo la sconfitta in Premier League, ironia della sorte, proprio contro l’Everton. Forse è destino che i miti restino lontani da tutto quello che viene dopo di loro, per non causare l’eterno, impietoso confronto con un passato inarrivabile.

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Allenatori Club Fabio Belli

“Cheating bastards!”: Juventus-Derby County del 1973 e l’anatema di Brian Clough sugli italiani

di Fabio Belli

In tempi di uragano scommesse, chi ama la retrospettiva può prendere spunto dalle parole di Giovanni Trapattoni, che affronterà Euro 2012 come CT dell’Irlanda: “All’estero ci chiamano mafiosi“. O a quelle di Daniele De Rossi, colonna del centrocampo della nazionale: “Il marchio di fabbrica ormai è quello.” Ma è proprio vero? A volte non bisogna farsi prendere dalla foga del momento, e ricordare come praticamente tutte le federazioni, nell’ormai bicentenaria storia del calcio, siano state coinvolte in scandali di ogni tipo. D’altra parte, l’essere arrivati nel giro di trent’anni ad uno scandalo delle scommesse numero quattro, che si aggiunge a Calciopoli e ad altre amenità sparse nel tempo, non può certo far bene a quella che unanimemente viene chiamata “reputazione“.

Un episodio illuminante in merito alla considerazione che all’estero hanno sull’attitudine tutta italiana agli “intrallazzi“, è individuabile in una ormai leggendaria semifinale di Coppa dei Campioni: l’11 Aprile del 1973 infatti la Juventus ed il Derby County di Brian Clough e Peter Taylor si affrontarono nel match d’andata per accedere alla finalissima di Belgrado. La spunterà la Juventus, con un 3-1 che venne poi difeso a Derby nella sfida di ritorno, ma le polemiche riguardo la partita furono feroci. I bianconeri torinesi furono trascinati da una splendida doppietta di Altafini, ma Clough espresse pesantissimi dubbi sull’influenza della federazione italiana sulla partita, e sulla conduzione arbitrale in generale. E in tempi in cui la diplomazia nel calcio era un’arte molto più praticata, soprattutto in occasione degli incontri internazionali, rimasero scolpite nella memoria collettiva le parole dell’allora allenatore del Derby, quando fu chiamato nel post-partita ad interloquire con i giornalisti italiani: “No cheating bastards will I talk to… I will not talk to any cheating bastards! (Non voglio parlare con nessun bastardo imbroglione).

Seguirono altrettanto pesanti dichiarazioni al ritorno in patria della squadra inglese, nelle quali venne messo in dubbio anche il valore dei soldati italiani nella seconda guerra mondiale, in un’escalation che faceva in fondo parte del modo di essere del tecnico inglese, abituato a dire quello che pensava senza curarsi troppo delle conseguenze. D’altronde Coughie, esponente medio della working class inglese, provava ribrezzo per ogni forma di aggiustamento o di possibile accordo partorito nelle stanze dei bottoni. Non per niente fu proprio grazie alla proverbiale, irriducibile lealtà sportiva inglese che il suo Derby County si laureò campione d’Inghilterra per la prima volta nella sua storia: la squadra era già praticamente in vacanza, in tournée a Maiorca, quando arrivò la notizia che il Leeds United aveva perduto l’ultima partita del campionato in casa del Wolverhampton, mancando così il sorpasso in vetta alla classifica sui “Rams”.

In realtà in quella semifinale le prodezze di Altafini ebbero un peso specifico decisamente superiore all’arbitraggio. Senza considerare che il Derby aveva giocato un massacrante match di campionato proprio contro il Leeds, nel quale Clough, spinto dalla rivalità col tecnico avversario Revie, non aveva risparmiato i migliori nonostante la posta in palio non fosse decisiva per la classifica. Segno che a volte l’accortezza non confina esattamente con l’imbroglio… anche se quel “Cheating Bastards” è un’idea degli italiani che probabilmente oltremanica, ed in generale oltralpe, resta impressa anche nella mente di chi non ha mai sentito parlare di questo episodio.