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Calciatori Fabio Belli

Branco: tre punizioni nella storia

di Fabio BELLI

Claudio Ibrahim Vaz Leal: un nome che i ragazzini appassionati di calcio leggono per la prima volta all’interno dell’album delle figurine Panini dedicato alla stagione 1986/87. Scritto in piccolo, ad indicare la vera identità di un nuovo talento brasiliano importato da una provinciale, il Brescia, che mancherà in quell’annata la salvezza in Serie A nonostante i gol di un bomber generoso, Tullio Gritti. E, come per molti talenti brasiliani, il nome “d’arte” di quel calciatore è breve e d’impatto: Branco. Quando arriva a Brescia, Branco ha ventidue anni ed è ancora acerbo per una ribalta come quella italiana che, in quegli anni, si afferma come la più rilevante a livello mondiale. Resta in Lombardia due anni, compreso uno in Serie B, poi viene ingaggiato dal Porto dove esplode il suo talento.

brancoSchierato inizialmente come interno di centrocampo, Branco in realtà eccelle come terzino sinistro, sfruttando un buon dinamismo e, soprattutto, un piede capace di calibrare lanci e cross perfetti. Soprattutto ai tempi del Porto emerge un suo particolare talento: quello sui calci di punizione. Branco è infatti in possesso di un tiro micidiale, potentissimo, forse il più violento della sua generazione. A questa potenza si abbina negli anni un affinarsi della tecnica: Branco colpisce il pallone sulla valvola applicando un effetto particolarissimo. La maggior parte degli specialisti imprime l’effetto a rientrare per aggirare la barriera e centrare l’incrocio dei pali, Branco tira staffilate centrali che si allargano verso l’estremità della porta, ed il portiere avversario vede sfuggire il pallone verso il quale è proteso in tuffo.

Questo talento si rivela nel Porto e nella nazionale brasiliana: ai Mondiali del 1990 in Italia, nel girone eliminatorio Murdo MacLeod, centrocampista della Scozia e del Borussia Dortmund, finisce in ospedale con un trauma cranico dopo essere stato colpito da una pallonata scagliata da Branco su punizione. Il malcapitato MacLeod era in barriera. L’Italia è però un conto aperto per Branco, considerando che i Mondiali finiscono nel peggiore dei modi per il Brasile, eliminato negli ottavi di finale dall’Argentina. Alla fine della competizione iridata si concretizza il trasferimento in un Genoa ambizioso, ricco di giocatori di qualità. Sono gli anni d’oro del calcio genovese, nella stagione del ritorno di Branco in Italia la Sampdoria vincerà lo scudetto ed il Genoa, quarto, si qualificherà per la prima volta nella sua storia in Coppa UEFA. Gioiello nella stagione dei grifoni, la micidiale punizione con la quale Branco regala il derby d’andata ai rossoblu contro i cugini futuri Campioni d’Italia. Una vittoria che sarà celebrata dai tifosi della Gradinata Nord con l’invio di una cartolina di Natale che raffigura la prodezza del centrale brasiliano.

La cavalcata in Coppa UEFA dell’anno successivo si rivelerà memorabile per il Genoa che sarà la prima squadra italiana capace di vincere ad Anfield, nella tana del Liverpool. Prima dell’impresa, i rossoblu avevano già ipotecato la qualificazione in semifinale nella gara d’andata. Il gol del fondamentale due a zero è a firma di Branco: una punizione da distanza incredibile, un capolavoro di potenza col pallone che disegna l’effetto sopra citato, caratteristico dei suoi calci piazzati. Marassi piange di gioia di fronte ad una delle più gloriose pagine della storia del Genoa.

Nel 1993 Branco torna in Brasile, tra Gremio e Corinthians, per preparare al meglio il Mondiale americano del 1994. E dopo la delusione del 1990, per il Brasile arriverà un titolo atteso 24 anni, dai tempi di Pelè. Tappa decisiva per la conquista del Mondiale, la vittoria nei quarti di finale contro l’Olanda: i tulipani rimontano due gol alla squadra di Romario e Bebeto, ma devono arrendersi al gol del 3-2. Firmato, neanche a dirlo, da una bomba di Branco che manda in delirio il Paese. Degna consacrazione per un campione abituato a chiudere in attivo i conti in sospeso.

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Club Enrico D'Amelio

Fields of Anfield Road: Liverpool e la leggenda di Anfield in un coro

di Enrico D’AMELIO

Evitare di cadere nella retorica, quando si narrano certe storie, è difficile quasi quanto non emozionarsi a ricordarle o immaginarle. Svariati scrittori e giornalisti sportivi, nei fiumi di inchiostro riversati su carta in epoche remote o attuali, hanno preso spunto da Pasolini o Galeano per caricare di etica ed estetica uno spettacolo che si consuma da oltre un secolo su un rettangolo verde. Qualcosa di sacro e profano allo stesso tempo, con attori e spettatori distaccati o in simbiosi nelle differenti grida e gli identici silenzi.

In Inghilterra, dove il football ha visto la luce nella seconda metà dell’Ottocento, i contorni degli spalti, gli echi, i canti e i rumori diventano molto spesso il centro della scena, più che la cornice a fare da sfondo. In questi stessi luoghi, il calcio non è visto semplicemente come uno sport, un gioco, o, più comunemente, un fenomeno sociale di massa. Ma come qualcosa a cui approcciarsi con devozione. Lo racconta benissimo Alan Edge, uno scrittore tifoso del Liverpool, che ha intitolato un suo libro ‘La fede dei nostri padri – il calcio come una religione’. Una serie di ricordi riguardo a tutti gli step che un bambino poi diventato uomo avrebbe dovuto superare, per poter essere considerato un vero fan dei Reds dai tifosi di lunga data.

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Proprio dai racconti di questi ultimi, tante generazioni cresciute sui gradoni di Anfield hanno potuto far propria una storia gloriosa, intrisa di epos e leggenda, e omaggiarla con cori da levare al cielo come veri e propri inni sacri. Qualsiasi appassionato di questo sport conosce la canzone ufficiale del Liverpool Football Club – You’ll never walk alone -, intonata all’inizio e alla fine di ogni gara, a prescindere da quale possa essere risultato e posizione di classifica. Il primo documento ufficiale che riporta questo fatto è del 1964, quando un operatore della BBC riprese i tifosi della Kop a cantarla. Un anno dopo, durante la finale di Coppa d’Inghilterra contro il Leeds a Wembley, i sostenitori del Liverpool ripeterono il rito, a sottolineare che i giocatori con la maglia rossa, dovunque si fossero trovati, non avrebbero “mai camminato da soli”. Il telecronista dell’epoca, Kenneth Wolstenholme, lo stesso che poi raccontò l’unico titolo mondiale della Nazionale Inglese nel 1966, elogiò in diretta questa sfumatura, e disse che questa canzone sarebbe diventata “il biglietto da visita del Liverpool in ogni stadio”.

Meno noto, ma probabilmente ancora più toccante, l’altro coro che non può mancare ad Anfield durante gli ultimi minuti di gioco della più futile tra le partite, dal titolo ‘The fields of Anfield Road’. E’ un qualcosa che va a toccare nel profondo le radici di questa società, e che rinverdisce i ricordi di miti oramai lontani o addirittura defunti. Uno di questi è Bill Shankly, tecnico dei Reds dal 1959 al 1974, con cui vinse il campionato nel 1964, 1966 e 1973, e la Coppa Uefa sempre nel 1973. Restano impresse alcune sue frasi, come quella pronunciata a un poliziotto durante un giro di campo a fine stagione. L’agente s’era reso responsabile di aver allontanato con i piedi una sciarpa del club, così lui lo fulminò dicendogli: “Non farlo. Per te è solo una sciarpa, per un ragazzo rappresenta la vita”. Oppure, per umiliare l’altra squadra della città, l’Everton: “Ci sono solo due squadre di calcio nel Merseyside: il Liverpool, e le riserve del Liverpool”.

Così la società gli ha intitolato un ingresso di Anfield (Shankly Gates), e i tifosi della Kop l’hanno omaggiato nella strofa iniziale di questo canto, riadattato da una vecchia canzone irlandese di metà Ottocento, ai tempi della Grande Carestia. La sintesi della prima parte del coro è che Shankly non fa più parte del Club, ma ha fatto in tempo a lasciare in eredità un undici granitico, e che anche nel presente e nel futuro, dopo che nel passato, ci sarà gloria per le maglie rosse sui campi di Anfield Road. Lo stesso undici, infatti, si renderà protagonista delle più indimenticabili pagine di storia vissute dal Club pochi anni dopo. Si passa da un mito all’altro, da Bill Shankly a Bob Paisley, una vita per la squadra del Merseyside. Giocatore dal 1939 al 1954, allenatore della squadra riserve dal 1954 al 1959, allenatore in seconda per i successivi 15 anni, e tecnico della prima squadra dal 1974 al 1983. ‘Soli’ 9 anni alla guida dei grandi, ma un palmares da far spavento, con 6 titoli nazionali e 3 Coppe dei Campioni, record ancora imbattuto se raggiunto sulla stessa panchina, e soltanto eguagliato da Carlo Ancelotti nel 2014, ma alla guida prima del Milan (2003 e 2007) e poi del Real Madrid (2014).

A Paisley, oltre ad essere intitolato il cancello opposto a quello di Shankly nel tempio dei Reds, è dedicata la terza strofa del coro, sulla falsariga della prima, in cui viene ricordata la prima Coppa dei Campioni, vinta a Roma nel 1977 in finale contro il Borussia Moenchengladbach. La seconda e la quarta strofa, invece, si ripetono, e sono state riadattate dopo la tragedia di Hillsborough del 1989 in cui morirono 96 persone, tra cui un bambino di soli 10 anni, cugino del futuro capitano Steven Gerrard. Si passa da ‘Re Kenny’ – che sarebbe Kenny Dalglish, leggendario campione scozzese che ha vestito la maglia rossa dal 1977 al 1990, l’epoca d’oro del Liverpool, capace di conquistare 4 delle 5 Coppe dei Campioni della sua storia -, a Steve Heighway, storica ala irlandese degli anni ’70, andato poi negli Stati Uniti a fine carriera. E’ proprio dal 1990, tra l’altro, che il Liverpool non riesce a conquistare la Premier League. Un’assenza che gli ha fatto cedere lo scettro di squadra più titolata d’Inghilterra nel 2011, ai danni degli odiati rivali del Manchester United. Quasi una nemesi del fato dopo le stragi commesse dagli Hooligans del Liverpool in Belgio, nel 1985, e a Hillsborough quattro anni più tardi. La sensazione di malinconia di un’epoca che difficilmente potrà ritornare è mitigata dalla consapevolezza di sostenere una squadra di culto per i tifosi di ogni parte del mondo. Perché grazie alle imprese del passato e ai racconti dei vecchi, di padre in figlio o di nonno in nipote, i giovani tifosi dei Reds, una volta dentro Anfield, potranno rivivere ugualmente le immagini dei tempi andati. Quando il Liverpool era la squadra più forte d’Europa, e vi erano solo successi e gloria sui campi di Anfield Road.

Il testo integrale del coro:

Outside the Shankly Gates
I heared a Kopite callin’
Shankly they have taken you away
But you left a great eleven
Before you went to heaven
Now it’s glory ‘round the fields of Anfield Road

All ‘round the fields of Anfield Road
Where once we watched the King Kenny play (and he could play)
Steve Heighway on the wing
We had dreams and songs to sing
Of the glory ‘round the fields of Anfield Road

Outside the Paisley Gates
I heared a Kopite callin’
Paisely they have taken you away
You led the great eleven
Back in Rome in seventy-seven
And the Redmen, they are still playing the same way

All ‘round the fields of Anfield Road
Where once we watched the King Kenny play (and he could play)
Steve Heighway on the wing
We had dreams and songs to sing
Of the glory ‘round the fields of Anfield Road

https://www.youtube.com/watch?v=FNxDKLzs0zU

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Club Fabio Belli

Blackburn Rovers, ovvero: Tim Sherwood meglio di Zidane

di Fabio Belli

In molti ritengono che le radici del calcio moderno, così come quelle del calcio antico, abbiano origine in Inghilterra. Di sicuro il football d’oltremanica, all’inizio degli anni novanta, è stato il primo che ha saputo riformarsi e trasformarsi in una vera e propria macchina da soldi: parliamo di ricavi, e non i miliardi investiti dai tanti che hanno usato il pallone come vetrina o, perché no, anche come sfizio personale. E non è un caso che a vincere nell’ultimo anno della vecchia Football League sia stato il Leeds United: il passaggio di Eric Cantona dallo Yorkshire agli odiati rivali del Manchester United, e con esso anche lo scettro di squadra padrona d’Inghilterra, ha rappresentato un vero e proprio cambio di epoca.

A quelli a cui il calcio moderno non piace, viene facile individuare questo momento come quello della morte dei tempi più romantici e avventurosi del football. Eppure, anche nel rigidissimo scacchiere della Premier League, dal 1993 ad oggi vinta da sole quattro squadre, due di Londra (Arsenal e Chelsea) e due di Manchester (United e City), c’è stata l’eccezione che conferma la regola. E di eccezione si può parlare a tutti gli effetti, visto che negli ultimi 25 anni i titoli nazionali dei campionati di primo livello, quando non sono finiti tra le mani di grandi canoniche, hanno premiato club che avevano effettuato investimenti enormi sulla loro crescita. Lazio e Roma in Italia, ma anche Deportivo La Coruna e Valencia in Spagna, oppure il Wolfsburg in Germania, sono squadre arrivate al titolo allestendo formazioni con fior di campioni, e potendo contare su una potenza economica non indifferente.

Agli occhi di oggi appare incredibile quindi che nel 1995 il titolo sia stato festeggiato dal Blackburn Rovers: espressione di una cittadina di appena centomila abitanti nel cuore del Lancashire, e club passato alla storia per aver posto le basi della nascita del “sistema”, proponendo un 2-3-5 chiamato fantasiosamente “Piramide di Cambridge”. Piccolo particolare, era il 1893: anni ruggenti del calcio inglese, nei quali il Blackburn aggiunse a cinque FA Cup conquistate prima dell’avvento del ventesimo secolo, anche due titoli d’Inghilterra datati 1911 e… 1914. Ritrovare ottantun anni dopo ai vertici del calcio i Rovers non era certo nei piani degli ideatori della ricchissima Premier League, ma quella del 1995 fu una squadra che fece della normalità un lusso.

Nel 1992 il Blackburn si era classificato sesto in seconda divisione: la promozione nella neonata Premier arrivò grazie ad una vittoria da outsider assoluta nei play off. Ma quella squadra era pronta ad esplodere: dal Chelsea arrivò in prestito un diavolo della fascia, feroce progressista e mente geniale, Graeme Le Saux. In attacco, il club aveva speso cinque milioni di sterline per affiancare ad Alan Shearer il quotatissimo Tim Sutton del Norwich City, e alle loro spalle c’era il fantasioso Tim Sherwood, nel quale Kenny Dalglish in panchina riponeva una fiducia cieca. Tanto che per puntare su di lui, il club evitò la stagione successiva al titolo di versare quattro milioni di sterline nelle casse del Bordeaux per un certo… Zinedine Zidane. Roba che probabilmente avrebbero spedito nel Lancashire dalla Francia anche una cassa di vini omaggio per chiudere l’affare.

Tornando alla stagione del titolo, dietro alle imprese del Blackburn c’era il magnate dell’acciaio Jack Walker, tutt’altro che un Berlusconi per l’epoca, soprattutto rispetto alle grandi che spendevano e spandevano, Manchester United in testa. Ferguson diede una bella ripassata a Dalglish sia all’andata che al ritorno, ma contro le cosiddette piccole il Blackburn non perdeva un colpo né in casa né in trasferta. Era la normalità al potere: Alan Shearer segnava come nessun altro in Europa (chiuse il campionato con 34 reti!), e nelle interviste indicava salsicce e fagioli come suo piatto preferito. Era una squadra che non faceva sognare nessuno, tranne i suoi tifosi e i migliaia di simpatizzanti che in Europa ne seguivano l’impassibile scalata.

All’ultima giornata, i Rovers avevano 2 punti di vantaggio sullo United, e dovevano giocare ad Anfield contro il Liverpool. Lo United andava sul campo del West Ham con la certezza di vincere il titolo in caso di arrivo a pari punti, per la migliore differenza reti. Gli Hammers passarono in vantaggio mentre Shearer buttava nel sacco il suo ultimo pallone della stagione. Un lieto fine annunciato? Macché: il Manchester United prese a dominare contro un West Ham senza più obiettivi in campionato, e pareggiò facilmente, bombardando letteralmente il portiere avversario Miklosko, mentre Barnes e Redknapp (al 93′) ribaltano la situazione a Liverpool. I tifosi del Blackburn impallidiscono, mentre la tv inglese negli ultimi 30 secondi tiene la telecamera fissa su Kenny Dalglish, che appare quasi rassegnato a ricevere la notizia più temuta: grazie a Miklosko la beffa però non arriverà mai, e dopo aver assaggiato cos’era un vero thriller, i super-normali festeggiarono un titolo atteso 81 anni. Incredibile ma vero: e con Zidane la storia probabilmente sarebbe continuata, ma in fondo in un angolo del Lancashire sanno bene che non sono loro ad essersi persi Zizou, ma il resto del mondo a non aver ammirato da vicino Tim Sherwood al massimo della sua forma.

 

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Calciatori Club Enrico D'Amelio

Steven Gerrard e il mito di Anfield

di Enrico D’Amelio

Il calcio è un fenomeno sociale, specchio dell’antagonismo che storicamente ha contraddistinto ogni uomo. Questo, con tutta probabilità, lo ha portato ad essere un rito così longevo, con una storia plurisecolare, destinato a durare nel tempo nei vari angoli del mondo. Ogni paese, però, è figlio della propria cultura che da sempre ne ha caratterizzato l’essenza. Se pensiamo all’Inghilterra, ad esempio, una sola parola può balenare alla nostra mente: tradizione. Lì, il 26 ottobre del 1863, è nato il football. Regno Unito sinonimo di storia e leggende, come quelle esibitesi in un tempio (chiamarlo stadio sarebbe riduttivo) che non ha eguali nel mondo come fascino e mito: Anfield.

urlQuando si varcano quei cancelli, da spettatore o attore protagonista, nulla potrà più rimanere come prima. Centinaia di migliaia coloro i quali ne hanno fatto parte in 129 anni di vita (la fondazione risale al lontano 1884), una sola la presenza costante: quella delle undici maglie rosse del Liverpool Football Club. Non ce ne vogliano i più giovani, possibili simpatizzanti di un Chelsea diventato dalla fine degli anni ’90 una delle squadre più in vista del paese e non solo, o di quell’Arsenal raccontato magistralmente dallo scrittore Nick Hornby in un libro oramai di culto, ma la rivalità che da sempre spacca in due il paese della Regina è quella che vede protagoniste Liverpool e Manchester United. Circa 80 i chilometri che dividono le due metropoli, lontane non solo logisticamente dalla Londra cosmopolita e multietnica. La working class al potere, con storie che vanno oltre il campanilismo puramente calcistico. Si narra che un tassista di Liverpool, ogni qual volta dovesse condurre un passeggero nell’odiata città rivale, abbassasse il finestrino e sputasse a terra una volta arrivato a destinazione, per sottolinearne odio e disprezzo.

Da alcuni anni, complice l’egida quasi trentennale di Sir Alex Ferguson, i Red Devils sono diventati la squadra più titolata d’Inghilterra, con 19 titoli nazionali contro i 18 dei rivali, ma i Reds sono avanti 5 a 3 a livello di Coppe dei Campioni, con l’ultimo successo arrivato nel 2004/05, al termine di una rocambolesca, storica finale contro il Milan di Carlo Ancelotti in quel di Istanbul. La rete di capitan Maldini, la doppietta di Hernan Crespo, per un 3-0 all’intervallo che aveva il sapore dell’umiliazione. Lì, dopo alcuni anni di anonimato, l’anima della Merseyside è riemersa dalle ceneri, con protagonista un ragazzo di Liverpool entrato nella leggenda: Steven Gerrard. E’ lui, con il gol che ha accorciato le distanze, a prendere per mano i suoi. Poi tocca a Smicer segnare la rete del 3-2, fino al pareggio arrivato grazie a Xabi Alonso, dopo che il tiro dagli undici metri era stato respinto da Nelson Dida. E poi i supplementari, le parate incredibili di Dudek su Shevchenko e, infine, la lotteria dei rigori.

Steven Gerrard il predestinato. Quello che, nella sua autobiografia, ha rivelato di giocare per il cugino Joh-Paul Gilhooley, morto a dieci anni nella tragedia del 1989 di Hillsborough durante la semifinale di Coppa di Lega contro il Nottingham Forest. Quello che a 19 anni, dopo essere stato sorpreso insieme ad alcuni suoi giovani compagni in un pub a tarda notte, ebbe la maturità di dire: “Mi vergogno. Non per me stesso. Ma perché con la mia bravata ho infangato il nome del Liverpool Football Club”. Quello che rinuncia ad andare nei club più forti d’Europa per alzare la Champions League con la maglia rossa, il numero 8 sulle spalle e la fascia di capitano al braccio. Quello che, con una moglie bellissima e tre splendide figlie, ha l’ardore di dire: “Quando starò per morire, non portatemi in ospedale, ma ad Anfield. Qui sono nato e qui voglio morire”. Certamente, Steven. Ma prima altre battaglie t’aspettano. Con la maglia rossa, all’interno del tempio. E con una curva capace di spingere il pallone in rete, quei 20000 vessilli che sventolano e un canto che risuona incessante, sulle inconfondibili note di “You’ll never walk alone”.

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Allenatori Enrico D'Amelio

Franco Scoglio, un Professore in panchina

di Enrico D’Amelio

Uomo di mare, Professore e profeta del suo triste destino. Questo e tanto altro nella vita di Franco Scoglio, un po’ genio, un po’ pazzo, con una laurea in pedagogia messa nel cassetto per coltivare una passione ancor più grande e di una vita: quella della panchina. Nato a Lipari nel 1941, ha vissuto due carriere parallele da allenatore, fatte di innamoramenti, delusioni cocenti e ritorni di fiamma, nelle due città che più ha amato: Messina e Genova. 30 anni di carriera conditi da ben 8 esoneri e una dimissione, ma anche da imprese ai limiti dell’impossibile arrivate sui campi terrosi del profondo sud. Gentiluomo, Ronzulli, Papaleo, Rosaclerio, Geria, Polizzo, Babuscia, Arigò, Scignano, Sorace, Chiappetta era l’undici iniziale con cui condusse la Gioiese, nel lontano 1981/82, alla vittoria del campionato Interregionale, con un dominio del torneo dalla prima all’ultima giornata, che valse un ritorno in Serie C che mancava alla società calabrese dal 1948.

Non memorabili le prime due esperienze alla guida del Messina, con un sesto posto in C/1 e un esonero in C/2 nel corso degli anni ‘70. Al terzo tentativo, però, il Professore riuscì a scrivere la storia. L’anno era il 1984, la società giallorossa era stata appena rilevata da Salvatore Massimino e in rosa c’erano giocatori del calibro di Schillaci, Napoli e Catalano. Il primo anno arrivò il terzo posto, a soli 3 punti dalle vincitrici Catanzaro e Palermo. L’anno dopo, invece, nessuno poté fermare il cammino del Messina: trionfo con 45 punti e accesso al campionato di Serie B 1986/87. Altri due anni alla guida dei siciliani, per poi, dopo 17 anni vissuti tra Calabria e Sicilia, approdare in un’altra città di mare, questa volta lontano da casa: Genova.

Mai come allora, però, Franco Scoglio una casa la trovò davvero. “Morirò parlando del Genoa”, disse in un’intervista rilasciata negli anni ’90, a testimoniare quanto fosse indissolubile il suo legame con la città che l’aveva adottato. Mai, come a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, la Genova calcistica poté assurgere al ruolo di ‘Superba’, con i rossoblu condotti in A nel 1989 dal Professore e la Sampdoria a primeggiare in Italia e in Europa. Due anni indimenticabili sulla panchina della società più antica d’Italia, per poi tornare 3 anni dopo, nel 1993, con il tempo che sembrava essersi interrotto e un vero e sfortunato capitano, Gianluca Signorini, pronto a ricongiungersi col suo mentore. Lo stesso capitano che assieme ai suoi compagni aveva scritto forse la pagina più bella di storia del Genoa, andando ad espugnare Anfield nel 1992 in una gara di Coppa UEFA. Triste la fine del secondo passaggio in Liguria, con la retrocessione in Serie B nel 1995, dopo uno spareggio perso ai rigori contro il Padova. Poi, nel 2001, dopo un’esperienza di tre anni alla guida della nazionale tunisina, il ritorno. Tante le aspettative riposte in lui dalla sua gente, ma, questa volta, l’incantesimo sembra essersi rotto. Il Professore è oramai stanco e si congeda da Marassi dopo soli 4 mesi, regalando però ai suoi tifosi l’emozione più grande: battere la Sampdoria per 1-0 nel derby d’andata, con una commovente corsa sotto la Gradinata Nord a fine gara che sa di commiato. Quella notte, dopo anni di bocconi amari, la Genova rossoblu riesce a sentirsi padrona di una città che negli ultimi anni era stata troppo colorata di blucerchiato.

Lui, 4 anni dopo, morì d’infarto come aveva profetizzato, mentre litigava per il suo Genoa con il presidente Preziosi in diretta televisiva. Così aveva predetto e così è stato il suo destino. In panchina e nella vita, sempre il Genoa a scandire i titoli di coda di un uomo speciale, e, proprio per questo, geniale. Che ha avuto il merito, in trent’anni di carriera, di non fa capire a nessuno se si divertisse a prendere tutti in giro, dissacrando un mondo che si prende troppo sul serio, o che credesse davvero ad alcune frasi paradossali che amava ripetere: “Il Presidente non esiste, la società non esiste e la squadra non esiste: esistono solo tifoseria e tecnico”. Una volta in trent’anni, nella sua ultima ribalta, s’è avverato anche questo. Con i giocatori della Sampdoria che abbandonavano il campo con mestizia e con il popolo rossoblu intero a rendere omaggio al suo Profeta. Anche per questo, grazie, e buon viaggio, Professore.

“Sono un diverso perché non frequento il gregge; il sistema ti porta all’alienazione”.