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Calciatori Marco Piccinelli

Marco Antônio de Freitas: a Venezia tra calcio e saudade

di Marco Piccinelli

I lettori abituali di questo blog potrebbero storcere un po’ il naso dando un’occhiata a questo post: che c’è di diverso in una storia di un calciatore straniero che viene a giocare in Italia decidendo, in seguito, di tornare al suo Paese d’origine per varie ragioni? Che c’è di diverso nella classica motivazione dei brasiliani riguardante la nostalgia di casa, quella che si chiama saudade?
Che poi, la saudade non è proprio nostalgia di casa ma anche assenza, lontananza, malinconia; Gilberto Gil, nella sua canzone Toda Saudade, l’ha definita più o meno così: «Ogni saudade è la presenza dell’assenza, di qualcuno, un luogo o un qualcosa, infine; un improvviso no che si trasforma in ; come se il buio potesse illuminarsi».
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Con la storia di Marco Antônio de Freitas la saudade c’entra, ma non è solo quello stato d’animo ad essere predominante: una serie di motivazioni, tutte rilevanti, interpretano un ruolo fondamentale sul proscenio della presenza dell’attaccante brasiliano in Italia.
Marco Antônio de Freitas arriva in laguna quando il Venezia è fallito di recente e si trova a disputare il girone C della serie D per la seconda volta consecutiva: in panchina c’è Enrico Cunico, allenatore vicentino di fama locale che s’è fatto le ossa in Prima e Seconda Categoria prima di approdare all’Eurotezze in Eccellenza, poi il primo salto al Montebelluna in D e l’approdo all’FBC Unione Venezia da cui viene esonerato ad una manciata di domeniche prima della fine del campionato.
A Cunico era subentrato Gianluca Luppi, colonna difensiva di un A.C. Venezia che i tifosi ricordano ancora: con lui alla guida dei lagunari, la squadra assume un gioco diverso da quello di Cunico, il suo approccio era decisamente migliore – col senno di poi – di quello di Cunico, ma tant’è. Quella stagione la vinsero i cugini del Treviso, il Venezia arrivò secondo con i playoff persi contro il San Donà Jesolo, compagine che – in ogni caso – perse lo spareggio decisivo per la Lega Pro contro la Turris e l’anno successivo ancora nella finalissima contro il Cosenza. Dopodiché fallì completamente, e ora l’Asd San Donà di Piave – Don Bosco milita in Seconda Categoria.

Ma questa è un’altra storia.

Il Venezia di Cunico era, in ogni caso, una squadra che poteva puntare alla vetta della classifica, ed è stata la prima stagione di Emil Zubin in arancioneroverde, il bomber che in due sole stagioni ha visto il proprio nome superare quello di Paolo Poggi, icona veneziana, nella classifica marcatori di tutti i tempi.

Marco Antônio de Freitas approda a Venezia a campionato iniziato da poco e fin da subito si allena duramente assieme a tutta la squadra: proviene dal Rio Branco Football Club, squadra di Serie D brasiliana; in precedenza una serie infinita di maglie vestite, dal Fortaleza al Comercial, dal Ferroviaria all’Anapolina, fino a quella (nel 2005) del Jeonbuk Hyundai Motors Football Club, team della massima serie Sud Coreana; cresce nelle giovanili del São Paulo e ci disputa una sola stagione nel 1999.
L’attaccante approda in laguna nel 2010 quando il fratello, Augusto Cesar de Freitas, era già un veterano di Eccellenza e Serie D in Italia: Guto, diminutivo di Augusto, ha fatto, in piccolo, lo stesso percorso del fratello maggiore partendo dal Brasile e tentando di sconfinare nel campionato indonesiano nel Persita Tangerang prima del ritorno in Brasile per una stagione al Sao Carlos. Poi, per Guto, c’è stato spazio solo per l’Italia: Francavilla, Sangiustese, Sarzanese, Boca Petri Carpi, Montebelluna, Marano, Thermal Ceccato, due anni al Cerea e ora punta del Laguna Venezia1 in Eccellenza Veneta.
La vita di Marco Antônio de Freitas in laguna, però, non inizia col piede giusto dal momento che fin da subito non arrivano tutti i documenti necessari perché si sancisse formalmente il trasferimento dal Brasile all’Italia, tuttavia il brasiliano non molla.
Gli allenamenti proseguono e, finalmente, inizia a fare le prime apparizioni sui campi veneti ammantati dalla nebbia invernale: Cunico non lo schiera mai dal primo minuto, nonostante affermi che si tratta di un ottimo giocatore tattico e di sostanza, facendolo entrare sempre a partita finita.
A marzo 2011 il Venezia deve affrontare prima il Belluno e poi il Treviso, squadra con cui, a parte la rivalità storica, si è sviluppata una competizione per il primo posto del girone: la partita contro i gialloblu termina in pareggio e Marco Antônio, di nuovo, viene fatto entrare quando mancano poco meno di 10 minuti al termine della partita.
Eppure Marquinho, ogni volta che entra nel rettangolo di gioco, dimostra di saperci fare col pallone, se non altro per l’indubbia esperienza che ha maturato in Brasile: appena tocca palla gli piombano addosso sempre tre avversari per rubargli la sfera.
Così non va avanti e gli infortuni si sommano alle delusioni del poco minutaggio sulle gambe e al termine della partita contro il Belluno, infatti, intervistato da Andrea Martucci, giornalista che seguiva la società, esprime un’oncia di rammarico per le continue sostituzioni che lo fanno entrare a partita ormai terminata.

Sfiora il gol in diverse occasioni ma non riesce mai ad insaccare alle spalle del portiere avversario: la saudade nei confronti di casa cresce sempre di più. Cresce, a dismisura, quando il Presidente del Venezia Rigoni muore improvvisamente e la società ha bisogno di un rapido riassetto, nel momento in cui si concretizza la famosa cordata russa capitanata dall’ormai ex Presidente Yurij Korablin (ora posto ricoperto da Joe Tacopina, che i più si ricorderanno poco tempo fa al Bologna).

Cambio di panchina: via Cunico, dentro Luppi e de Freitas comincia a vedere le possibilità di giocare, dopo essersi ripreso dall’infortunio.

Gioca, dal primo minuto, solo l’ultima partita del campionato contro il Pordenone (nel Venezia di quel giorno avrebbe giocato anche l’appena maggiorenne Francesco Fedato, ora punta del Livorno). Finisce 3 a 2 per gli arancioneroverdi e Marquinho sigla il gol del vantaggio, mostrando, in una manciata di minuti, tutta la classe che non aveva potuto mostrare durante la stagione: cross di Cardin dalla sinistra, tiro rapidissimo di prima che va ad inserirsi in quella fessura minuscola tra la mano del portiere – già in volo – e la traversa della porta.
Non ci sarebbe arrivato neanche Lev Yashin.
I compagni urlano più di lui dopo il gol realizzato, la squadra gli corre incontro, si lascia abbracciare da tutti, dato che era – ormai da tempo – un componente della squadra a tutti gli effetti, benvoluto da chiunque all’interno del club: per una volta ha segnato lui, Marco Antônio de Freitas.
«E’ stato un bello gol», dice a fine partita, interpellato dal sempre presente Martucci, «io che ha fatto prima partita contro Pordenone, faccio oggi mia ultima partita». Marquinho ha già acquistato un biglietto aereo che neanche Luppi è riuscito a fargli spostare: «credo che la squadra va fino a fine con play-off, io torno a casa a cercare squadra in Brasile».
Non è stata la stagione migliore per Marco Antônio, ma la sfortuna degli infortuni, il transfer che non arrivava e un allenatore che gli imponeva lo status di riserva, hanno fatto tutto: il resto è saudade, altro che noia.
Tornato a casa disputa un’ultima stagione prima di ritirarsi, a causa di un altro brutto infortunio. Marquinho, ora, allena il settore giovanile di calcio femminile della sua prima squadra: il São Paulo.

1 Fondata nel 2011 dalla fusione di Us Muranese (che aveva già preso il nome di Laguna di Venezia), Venezia Alvisiana e Serenissima Vigna. Il Laguna Venezia, dunque, ha messo insieme tutti i gruppi di tifosi e sostenitori ‘neroverdi’ che si erano schierati fin dal primo momento contro la fusione delle società di Mestre e Venezia che avrebbe portato il tricolore ‘arancio-nero-verde’ sulla maglia della squadra della laguna, da qui il termine Unione ripreso dal Venezia una volta retrocessa in Serie D. L’associazione che più rappresenta l’istanza neroverde e, per l’appunto, ‘Cuore Neroverde’. Stessa matrice ha la società Pro Venezia, militante in Promozione Veneta.

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Club Marco Piccinelli

Quando la storia del Venezia ripartì dalla Serie D e da Giovanni Volpato

di Marco Piccinelli

«Erano tempi difficili, c’era chi si dava alle Stimorol danesi e chi si drogava con le Dentigomma che si trovavano solo in farmacia», a parlare è Max Collini, voce degli OfflagaDiscoPax nella celebre canzone ‘Cinnamon’.

Traslando il concetto espresso nella canzone, si potrebbe dire che quelli che andava vivendo la squadra della città di Venezia nel 2009 «erano tempi difficili».

Il doppio fallimento, dei Poletti prima e di ‘mister Golban’ poi, avevano fatto sì che il destino della società lagunare non fosse uno tra i più rosei e nonostante l’insperata salvezza raggiunta da mister Serena, richiamato a seguito dell’esonero di Stefano Cuoghi, a nulla valse vincere i playout: fallimento, un altro, e scomparsa della SSC Venezia.

Non si parlerà tanto di società in questo post, giacché l’attuale FBC Unione Venezia sorge in fretta e furia nel momento in cui gli arancioneroverdi vengono iscritti in sovrannumero nel girone C della serie D: della precedente gestione si salvano solo Andrea Seno (Direttore Sportivo) e Paolo Favaretto, mister delle giovanili che prenderà le redini della prima squadra.

L’Unione Venezia, questo il nome assunto dai lagunari una volta ‘scesi’ in serie D, si presentava ancora scarna: né organico, né maglie.

La prima apparizione ufficiale degli undici di Favaretto viene fatta con delle maglie della Lotto completamente bianche e lo stemma della casa costruttrice al posto del logo raffigurante il Leone di San Marco: iniziano a piovere critiche da subito, anche perché se non c’è la squadra, come possono esserci ancora le maglie?

L’unica certezza extra rosa sembra essere il Penzo, il vecchio stadio costruito a Fondamenta Sant’Elena secondo solo al Ferraris di Genova per longevità, all’interno degli undici gli unici a restare dalla Lega Pro sono Massimo Lotti, Simone Rigoni e Mattia Collauto, indomito capitano.

A loro tre vengono affiancati dei ragazzi che avevano fatto parte delle giovanili del Venezia e altri atleti provenienti da squadre limitrofe; la prima apparizione in campionato dell’Unione Venezia vedeva la squadra così composta: Cavarzan; Bigoni, Nichele, Vianello, Cardin; Collauto, Segato, Di Prisco, Modolo; Ragusa, Corazza (‘quel’ Corazza che ora gioca col Novara in prestito dalla Sampdoria); nella panchina di mister Favaretto c’erano, poi, Lotti, Bivi, Rocchi, Rigoni, Volpato, Tessaro, Benedetti.

La prima partita è una Caporetto: 4 a 1 contro il Montebelluna di Enrico Cunico (tecnico che guiderà la squadra l’anno successivo) e non molte possibilità d’appello. Seconda partita, seconda sconfitta, stavolta per 3 a 2 contro il Domegliara, tuttavia segnano Volpato e Nichele, i due che assieme a Collaudo trascineranno la squadra ben oltre le secche del campionato che si stava prospettando ad inizio stagione.

La prima vittoria arriva alla quarta giornata: 5 a 3 contro la Virtus Ve Comp Verona, doppietta di Modolo e un gol a testa per Corazza, Tessaro e Collauto.

Sarebbe bello poter continuare a scrivere delle avventure (e disavventure) dei lagunari nella stagione di ritorno alla D dopo una buona manciata di anni, anche perché il lettore abituale di questo blog potrebbe benissimo cliccare sulla ‘X rossa’ della finestra per chiudere tutto e dedicarsi a qualcos’altro di più produttivo.

Tuttavia, quella stagione viene ripresa per i capelli da tutto il gruppo, ormai decisamente affiatato e pronto per qualsiasi sfida gli si fosse parata davanti: Collauto, alla soglia dei 37, gioca la quasi totalità delle partite e non sente affatto il peso del confronto con i giovani virgulti – obbligatori in rosa – che tentano di frapporsi fra lui e l’obiettivo scelto; arrivato all’età di 39 anni giocherà ancora col Venezia prima di abbandonare definitivamente a causa di un infortunio ai legamenti crociati.

Prima di abbandonare, tuttavia, giocherà ancora qualche partita così fasciato (vd. foto), ‘e lo chiamano dilettantismo’: 218 presenze in arancioneroverde all’attivo tra il 2004 e il 2012, vivendo solo i momenti che – di solito –  nel calcio sono detti i peggiori perché si abbandona una categoria per abbracciarne involontariamente una inferiore.

L’anno successivo il Venezia fu costretta a disputare, nuovamente, il campionato di serie D per aver perso il secondo turno dei playoff contro l’Union Quinto in cui militava il fratello di Filippo Vianello (pilastro difensivo del Venezia di quella stagione).

«Dopo una buona stagione come quella appena conclusa, non nascondo che mi sono arrivate tante proposte, ma finora ho sempre risposto picche perchè considero il Venezia prioritario rispetto a qualsiasi altra società. Una piazza del genere, un club come quello arancioneroverde meritano la prima scelta», aveva dichiarato il centrocampista Nicola Segato alla stampa mentre imperversavano le trattative per il passaggio di società tra Pizzigati e Rigoni.

La vittoria ai playoff sarebbe stato chiedere troppo ad una squadra che,nel corso della stagione, aveva dato tutto e anche di più ma a Venezia vige la pessima abitudine di lasciare liberi i giocatori a fine stagione: tutti svincolati, o ritornati alla loro squadra d’appartenenza, eccezion fatta per Nichele, Vianello e Collauto.

Anche lui, Volpato, è costretto a lasciare, il centravanti del primo Unione Venezia, il numero 9 che – in una sola stagione e a più di 30 anni – s’era andato a prendere un posto nei cuori delle tifoserie lagunari, coi suoi quindici gol stagionali, così come lo farà l’attaccante che sostituirà lui di Camposampiero: Emil Zubin.

Abbandonato coattamente il Venezia, Volpato approderà al San Paolo Padova riuscendo pure a sconfiggere per 2 reti ad 1 la sua ex squadra l’anno successivo, financo firmando uno dei due gol. Interpellato a fine partita da network lagunari, tergiversando un po’ sulla domanda ‘com’è fare gol all’Unione Venezia’, alla fine riesce a dire quel che aveva in mente di dire al principio dell’intervista, non senza un po’ di risentimento: «A Venezia sarei rimasto, e magari sarei stato l’unico ad accettare le condizioni che chiedeva la società stessa» poi inspira ed espira, tira indietro il busto come a dire ‘è andata così’ e trova il coraggio di pronunciare «Devo giocare con chi mi ha dato fiducia ad agosto, non con chi non mi ha dato fiducia».

E l’intervista finisce così, con una presente (ed inevitabile) amarezza.

Che poi, quando Volpato era stato acquistato dall’Unione Venezia, ed essendo uscito il cognome per qualche indiscrezione di stampa, sui social network si stava scatenando il toto-nomi confondendo il centravanti di Camposanpiero con il più famoso Rej Volpato o con l’incisore omonimo veneziano settecentesco.

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Calciatori Marco Piccinelli

Re Giorgio Corona e gli altri decani del calcio professionistico

di Marco Piccinelli

(tratto dalla Gazzetta del Lazio di venerdì 6 febbraio 2015)

In Lega Pro, nel girone della Lupa Roma, sono presenti i giallorossi del Messina, annaspando tra playout e salvezza.
La stagione non è certo facile e il girone unico non aiuta le squadre che si sono lasciate da poco alle spalle l’ultimo scoglio del dilettantismo italiano: la Lupa Roma, dopo un avvio costellato di vittorie e pareggi contro squadre ben più blasonate, si trova ora a metà della classifica seguita a un poco confortante +2 dal Messina.
Perché dovrebbe interessare una squadra siciliana al lettore di un periodico che è rintracciabile nelle edicole di Roma e del Lazio e che, non a caso, si chiama ‘La Gazzetta del Lazio’?
Perché in realtà parlare del Messina è un pretesto per scrivere di uno dei simboli della rinascita della squadra, dopo essere piombata dalla massima serie alla Serie D: si tratta di Giorgio Corona.
Attaccante, soprannominato ‘Re Giorgio’, non si è fatto molto benvolere – a dirla tutta – dal pubblico romano: nella sua lunga carriera, ancora in corso, ha vestito la maglia della Juve Stabia e il gol del 2 a 0 contro l’Atletico Roma – precisamente all’88’ – ha bruciato per non poco tempo sulla pelle dei tifosi capitolini, sebbene di lì a poco la compagine bianco blu sarebbe fallita e avrebbe cessato di esistere.
Tuttavia, Giorgio Corona ha una notevole carriera alle spalle, anche se qualcuno potrebbe obiettare che non ha mai vestito la maglia della Nazionale, né si è mai distinto per un così alto numero di reti in serie A (solo sette e con la maglia del Catania).

E’ vero: non ha mai alzato Coppe del Mondo né analoghi trofei per club ma i suoi gol sono più importanti sono quelli segnati negli ultimi anni con la maglia del Messina e, dunque, non in Serie A.
Dopo essere tornato al Taranto, concluso il periodo di prestito alla Juve Stabia, decide di rescindere il contratto coi pugliesi e di andare a giocare nella squadra peloritana.
 Corona torna a militare nel Messina nel periodo peggiore e dopo dodici anni che non indossava quella divisa: i giallorossi sono stati appena scaraventati in Serie D con quattro punti di penalizzazione, ma a ‘Re Giorgio’ non importa molto e, anzi, si carica la squadra sulle spalle traghettandola fino ai playoff.
 Nella stagione 2011/2012 il Messina verrà fermato alle fasi eliminatorie dei playoff e alla squadra siciliana sarebbe successivamente toccata un’altra stagione in serie D, così come stava analogamente succedendo al Venezia, fermata dal 3 a 2 contro il Sandonà Jesolo nella seconda stagione in D nel girone C degli arancioneroverdi. 
L’attaccante, nella stagione di ritorno al Messina e alla serie D, disputerà 34 presenze e collezionando 16 centri.

L’anno dopo sarà quello dello scontro con ‘l’altro Messina’ (il ‘Città di Messina’) tra le cui fila militava anche quel Saraniti che ora veste la casacca della Viterbese Castrense: nella stagione 2012/2013 le presenze saranno 33 e i gol 17. L’anno è quello buono e il Messina compie il grande balzo approdando, nuovamente, al professionismo. Facilmente si sarebbe potuto pensare come le strade di Re Giorgio e quelle del Messina fossero destinate a separarsi. Neanche per sogno: a 39 anni gioca per altre 34 partite e mette a segno 11 gol.
Finita? Nient’affatto: nella stagione attuale, a quarant’anni, l’attaccante palermitano ha fatto gol per 7 volte in venti presenze. E il campionato non è ancora terminato.

Questa storia può, senza dubbio, far tornare alla mente qualche altro calciatore che ha appeso gli scarpini al chiodo solo una volta arrivato agli ‘–anta’: Hubner, Vierchowod, Zoff, Oliveira sono solo alcuni esempi.
Dino Zoff, arrivato ai quarant’anni, indossava ancora la maglia della Nazionale mentre Vierchowod contribuiva alle due salvezze del Piacenza tra il 1997 e il 1999; dall’altra parte Hubner, dopo aver militato in Brescia e Piacenza, torna in C1 nel Mantova di Poggi per poi concludere la carriera a 44 anni a Cavenago d’Adda (Prima Categoria bresciana).
C’è, poi, Luis Airton Barroso Oliveira, il brasiliano naturalizzato belga che, dopo aver vestito le maglie di Cagliari e Fiorentina in Serie A, gioca con il Foggia, con il Catania e infine con Venezia e Lucchese.
Lulù, così come lo chiamavano i tifosi della Fiorentina, torna per due anni in Sardegna con la neo promossa Nuorese e finisce la carriera vestendo i colori del Muravera di cui, ora, è allenatore.

Un percorso analogo, infine, l’ha intrapreso Marco Ballotta, il quale è volutamente posto alla fine di questo scritto, perché la sua carriera, a poco più di cinquant’anni, è ancora ‘in fieri’ e fa da contraltare a quella di ‘Re Giorgio’: dopo aver abbandonato la Lazio nel 2008 (43 anni, età in cui stabilisce il primato di calciatore più anziano ad aver mai disputato una partita di Champions League) disputerà un intero campionato come centravanti al Calcara Samoggia centrando 24 reti in 37 presenze. Ma non è tutto, anzi, è solo l’inizio: dopo aver rescisso il contratto con i biancocelesti è iniziata, se è consentito a chi scrive, la seconda vita di Ballotta in cui non c’è soltanto la difesa dei pali della propria squadra, ma anche la messa a segno di gol, posizionandosi in ruoli che lo vedono nella trequarti di campo.
Nel 2011, dopo due stagioni con il Calcara Samoggia, approda al San Cesario, dividendosi fra porta e attacco, così come tornerà a fare tra 2012 e 2014 – nuovamente – al Calcara. Sembra finita e Ballotta decide di assumersi l’incarico da dirigente del settore giovanile della neopromossa Castelvetro (Eccellenza Emiliana) ma vuole tornare fra i pali e ora è il primo portiere, a cinquant’anni e dieci mesi, della compagine modenese.

 

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Andrea Rapino Calciatori

Lucas Correa: per un giorno, l’ultimo erede di Maradona in Nazionale

di Andrea Rapino

Quello che oggi è un qualsiasi buon giocatore di serie C con i capelli rasati a zero, e per i tifosi della Lazio resta uno dei più anonimi numeri 5 della storia del club, per l’Argentina ha rischiato di diventare un numero 10 storico: il caso ha infatti voluto che Lucas Alberto Correa Belmonte, nel 2012-2013 centrocampista del Bassano Virtus (Seconda Divisione), stesse giocando un Mondiale Under 17 con il numero di Maradona, proprio nei giorni in cui la federazione argentina chiese alla Fifa di non assegnarla più a nessun giocatore in nessuna competizione.

Per Correa, in quel momento protagonista di un discreto Mondiale a Trinidad e Tobago, fu un lampo di celebrità: fu bersagliato dalla domanda di rito su cosa si provasse nell’essere l’ultimodiez” nella storia del fútbol argentino, come racconta il portale sudamericano En una baldosa. Alla fine la Fifa però rigettò la proposta della federazione albiceleste, e quel torneo ai Caraibi il giovane Lucas lo ricorderà per una gol al Burkina Faso nel girone eliminatorio e per aver giocato in squadra con Carlos Tévez e Maxi López.

correaDopo l’esperienza iridata, Correa tornò nel club dove era cresciuto, il Rosario Central, quello che ha lanciato il capocannoniere del Mondiale del ‘78 Kempes e lo storico portiere del Boca Roberto Abbondanzieri. La celebrità gli fruttò anche un presunto interessamento del Barcellona, ma dopo una manciata di apparizioni nella massima serie argentina, attraversò l’Oceano per ritrovarsi nella settima serie italiana: nel 2004-2005 è la stella del Penne, club abruzzese con discreta tradizione a livello regionale; insieme a una nutrita pattuglia di italoargentini, Correa trascina la squadra al ritorno in serie D dopo dieci anni.

L’allora ventenne Lucas si guadagna così le attenzioni delle società abruzzesi di serie C, e nel 2005-2006 passa in C1: lo prende il Lanciano allenato da Francesco Monaco, storico capitano della Lucchese che esordisce tra i professionisti in panchina. Correa inizialmente paga lo scotto del salto di categoria, ma contribuisce alla salvezza di una formazione combattiva e infarcita di giovani di belle speranze (tra questi Salvatore Bocchetti, oggi allo Spartak Mosca).

Il 2006-2007 potrebbe essere l’anno del grande salto. Correa come allenatore ha ritrovato Andrea Camplone, ex terzino del Pescara di Galeone che lo aveva lanciato a Penne, che ne esalta le doti tecniche nel suo 4-3-3. Insomma, si è adattato alla categoria ed è diventato un top player della C1. Per questo su Lucas mettono gli occhi il Cagliari, il Chievo e la Lazio. Pare che alla fine Claudio Lotito abbia concordato direttamente l’acquisto con Paolo Di Stanislao, romano d’origini abruzzesi che aveva da poco rilevato il Lanciano (e presto lo avrebbe portato al fallimento). Nonostante entri in lista con la maglia numero 5, il biancoceleste però Correa lo vede poco o nulla: a parte ritiri estivi e qualche amichevole, per giocare deve riscendere in club della fascia medio alta della terza serie nazionale: Lucchese, Gallipoli, Pro Patria, Taranto e Ravenna. Quando nel 2011 affronta l’ultimo ritiro con la Lazio, ha racimolato solo un play off (perso col Padova) a Busto Arsizio, dove 12 gol con la squadra allenata da Franco Lerda restano il suo record stagionale.

Nel 2011 gioca in B col Varese, che tra l’altro arriva gli spareggi per la A, ma è il canto del cigno: dopo l’esordio tra i cadetti riscende in Lega pro, prima con l’Avellino e poi con il Bassano Virtus, dove retrocede e gioca anche in Seconda Divisione, e l’anno scorso comunque mette a segno una decina di reti. Così, dopo una dozzina di anni di serie C ad alti livelli, per l’ultimo aspirante pibe de oro l’unico campionato vinto in Italia resta quello di Eccellenza abruzzese.

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Allenatori Enrico D'Amelio

Franco Scoglio, un Professore in panchina

di Enrico D’Amelio

Uomo di mare, Professore e profeta del suo triste destino. Questo e tanto altro nella vita di Franco Scoglio, un po’ genio, un po’ pazzo, con una laurea in pedagogia messa nel cassetto per coltivare una passione ancor più grande e di una vita: quella della panchina. Nato a Lipari nel 1941, ha vissuto due carriere parallele da allenatore, fatte di innamoramenti, delusioni cocenti e ritorni di fiamma, nelle due città che più ha amato: Messina e Genova. 30 anni di carriera conditi da ben 8 esoneri e una dimissione, ma anche da imprese ai limiti dell’impossibile arrivate sui campi terrosi del profondo sud. Gentiluomo, Ronzulli, Papaleo, Rosaclerio, Geria, Polizzo, Babuscia, Arigò, Scignano, Sorace, Chiappetta era l’undici iniziale con cui condusse la Gioiese, nel lontano 1981/82, alla vittoria del campionato Interregionale, con un dominio del torneo dalla prima all’ultima giornata, che valse un ritorno in Serie C che mancava alla società calabrese dal 1948.

Non memorabili le prime due esperienze alla guida del Messina, con un sesto posto in C/1 e un esonero in C/2 nel corso degli anni ‘70. Al terzo tentativo, però, il Professore riuscì a scrivere la storia. L’anno era il 1984, la società giallorossa era stata appena rilevata da Salvatore Massimino e in rosa c’erano giocatori del calibro di Schillaci, Napoli e Catalano. Il primo anno arrivò il terzo posto, a soli 3 punti dalle vincitrici Catanzaro e Palermo. L’anno dopo, invece, nessuno poté fermare il cammino del Messina: trionfo con 45 punti e accesso al campionato di Serie B 1986/87. Altri due anni alla guida dei siciliani, per poi, dopo 17 anni vissuti tra Calabria e Sicilia, approdare in un’altra città di mare, questa volta lontano da casa: Genova.

Mai come allora, però, Franco Scoglio una casa la trovò davvero. “Morirò parlando del Genoa”, disse in un’intervista rilasciata negli anni ’90, a testimoniare quanto fosse indissolubile il suo legame con la città che l’aveva adottato. Mai, come a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, la Genova calcistica poté assurgere al ruolo di ‘Superba’, con i rossoblu condotti in A nel 1989 dal Professore e la Sampdoria a primeggiare in Italia e in Europa. Due anni indimenticabili sulla panchina della società più antica d’Italia, per poi tornare 3 anni dopo, nel 1993, con il tempo che sembrava essersi interrotto e un vero e sfortunato capitano, Gianluca Signorini, pronto a ricongiungersi col suo mentore. Lo stesso capitano che assieme ai suoi compagni aveva scritto forse la pagina più bella di storia del Genoa, andando ad espugnare Anfield nel 1992 in una gara di Coppa UEFA. Triste la fine del secondo passaggio in Liguria, con la retrocessione in Serie B nel 1995, dopo uno spareggio perso ai rigori contro il Padova. Poi, nel 2001, dopo un’esperienza di tre anni alla guida della nazionale tunisina, il ritorno. Tante le aspettative riposte in lui dalla sua gente, ma, questa volta, l’incantesimo sembra essersi rotto. Il Professore è oramai stanco e si congeda da Marassi dopo soli 4 mesi, regalando però ai suoi tifosi l’emozione più grande: battere la Sampdoria per 1-0 nel derby d’andata, con una commovente corsa sotto la Gradinata Nord a fine gara che sa di commiato. Quella notte, dopo anni di bocconi amari, la Genova rossoblu riesce a sentirsi padrona di una città che negli ultimi anni era stata troppo colorata di blucerchiato.

Lui, 4 anni dopo, morì d’infarto come aveva profetizzato, mentre litigava per il suo Genoa con il presidente Preziosi in diretta televisiva. Così aveva predetto e così è stato il suo destino. In panchina e nella vita, sempre il Genoa a scandire i titoli di coda di un uomo speciale, e, proprio per questo, geniale. Che ha avuto il merito, in trent’anni di carriera, di non fa capire a nessuno se si divertisse a prendere tutti in giro, dissacrando un mondo che si prende troppo sul serio, o che credesse davvero ad alcune frasi paradossali che amava ripetere: “Il Presidente non esiste, la società non esiste e la squadra non esiste: esistono solo tifoseria e tecnico”. Una volta in trent’anni, nella sua ultima ribalta, s’è avverato anche questo. Con i giocatori della Sampdoria che abbandonavano il campo con mestizia e con il popolo rossoblu intero a rendere omaggio al suo Profeta. Anche per questo, grazie, e buon viaggio, Professore.

“Sono un diverso perché non frequento il gregge; il sistema ti porta all’alienazione”.