Tifare Espanyol a Barcellona non è affatto un supplizio come si potrebbe credere paragonandone il palmares con i rivali cittadini del Barca. E’ una scelta di orgoglio e distinzione in cui la voglia di rivendicare l’appartenenza alla Spagna, intesa come nazione, è forte ma non porta certo a rinnegare le radici Catalane. E’ la consapevolezza di appartenere ad una comunità che non si contrappone agli avversari di sempre ma si diversifica. Significa possedere uno stadio, il “Cornellà-El Prat” (o RCDE Stadium) ed un modello di settore giovanile invidiato in Europa oltre che in tutta la Spagna.
Certo, i vertici toccati dal Barca restano un sogno, ma le quattro Coppe del Re, le due finali di Coppa UEFA e le 84 stagioni di PrimeraDivision disputate nella storia fanno dell’Espanyol uno dei principali club iberici. Questo nonostante la forbice a livello tecnico e soprattutto mediatico con i rivali blaugrana si sia allargata come non mai negli ultimi anni. Pochi anni fa il Barcellona di Guardiola è stato considerato da molti uno dei club più forti di tutti i tempi. Questo a torto o a ragione ma, comunque, si tratta di un livello sul quale il piccolo Espanyol non può neppure sognare di issarsi. Un divario che ha avuto anche le sue ripercussioni sui derby, con le vittorie dei biancazzurri sempre più rare e, per questo, ancor più gustose, come quella al Camp Nou (l’ultima ottenuta in casa del Barcellona, finora) contraddistinta da una doppietta di Ivan De la Pena.
In questo scenario anche “certi” pareggi possono valere come una vittoria. Come quello con il gol di Alvaro che ha impedito dal Barca di espugnare El Prat. O quello celebre nella stagione 2006/07 quando un gol di una delle bandiere dell’Espanyol, Raul Tamudo, costò al Barcellona di Rijkaard la Liga. Il famosissimo Tamudazo, col Real Madrid di Capello ed il Barca in lotta per il titolo e il Siviglia terzo incomodo ma alla fine leggermente staccatosi nelle ultimissime giornate. Il Madrid pur con qualche fatica pareggiò con il Saragozza grazie alle prodezze di Van Nistelrooy mentre al Camp Nou era in programma il derby. Il Barcellona si portò avanti anche grazie ad un contestatissimo gol di Messi (effettivamente realizzato con una mano) e sul 2-1 era più che mai in lotta per il titolo.
All’Espanyol l’irregolarità non andò giù: spianare la strada verso il titolo ai rivali di sempre è già un boccone amaro da digerire, farlo subendo un’ingiustizia, poi… E allora la storia finì col compiersi quasi allo scadere della partita: palla tagliata dalla destra, Tamudo elude il fuorigioco e con un delizioso tocco brucia il portiere in uscita. “Que locura!” commentarono i cronisti spagnoli visto che il pari dell’Espanyol arrivò contemporaneamente al pari di Van Nistelrooy a Saragozza, mantenendo inalterate le distanze tra Real e Barcellona a favore dei Blancos. E’ il gol che appunto passerà alla storia come il “Tamudazo”, che fece esplodere la gioia non solo dei tifosi Pericos ma anche dei madridisti che videro materializzarsi a un passo la vittoria nella Liga che soffiarono al Barca allora Campione d’Europa in carica. E in un solo gol venne dunque racchiuso tutto il gusto di tifare Espanyol: essere il topolino che terrorizza e a volte atterra l’elefante.
Oltre le gelide statistiche, le guerre vinte e le battaglie lasciate al nemico, i numeri di unica eleganza e straordinaria complessità, esistono calciatori per cui non esiste un’epoca, perché figli di qualsiasi tempo. Se volessimo spiegare cosa è stato per il calcio – e per ogni tifoso di questo sport – Marco Van Basten, non potremmo che partire dalla fine, dal 17 agosto 1995. Una data triste, in cui illusione e disincanto lasciarono il posto a una crudele consapevolezza, riassunta in poche parole dal titolo della Gazzetta dello Sport del giorno successivo: “Dove troveremo un altro come lui?”. Adriano Galliani disse che “il calcio aveva perso il suo Leonardo”, e perfino Diego Maradona, uno storicamente poco incline ad elargire facili complimenti, disse di “non aver mai visto un giocatore più elegante di Van Basten; una macchina perfetta che si è rotta, quando stava per diventare la migliore di tutte”. Costretto ad appendere gli scarpini al chiodo a soli 30 anni, questo cigno meraviglioso aveva cantato per l’ultima volta oramai tre anni prima, in una gelida notte di Champions League contro il Goteborg a San Siro. E sempre a San Siro, quel 17 agosto, non con la maglia rossonera, ma con un paio di jeans chiari e una camicia rosa nascosta sotto ad una giacca di renna, uno straziante e lento giro di campo ne annunciava la sconfitta più dolorosa. I vari tentativi di rimettere in sesto cartilagini deteriorate non avevano dato l’esito sperato; così, il suo pubblico adorante era costretto a salutare commosso il figlio prediletto. Una brusca e definitiva frenata sul più bello, dopo appena 10 di carriera, quasi la metà rispetto alla media di qualsiasi altro calciatore. Sufficienti, comunque, a fargli vincere tutto e forse anche di più. A riuscire in imprese che nessun altro aveva compiuto, biglietto utile a raggiungere di diritto l’olimpo dei semidèi. Dopo essere partiti dalla fine, possiamo riavvolgere il nastro del tempo e iniziare la sua storia. Una galleria di perle e diamanti da vedere e rivedere, capaci di mettere d’accordo tifosi e spettatori, giornalisti e semplici appassionati, così perfette da ubriacare di meraviglia il palato del più severo tra gli esteti.
Quando il predestinato si affaccia sul palcoscenico del professionismo è il 1981. Il movimento calcistico olandese ha visto passare la più bella nazionale che si ricordi, spintasi a raggiungere le finali del 1974 e 1978, ma non in grado di battere Germania Ovest ed Argentina nei due atti conclusivi del Mondiale. In parallelo, a sancire l’epilogo di quel ciclo irripetibile, anche la carriera del simbolo di quella squadra, Johan Cruijff, sta per imboccare il viale del tramonto. Il nome di Marco Van Basten figura per la prima volta in una partita del campionato dei Paesi Bassi il 3 aprile del 1982, in una gara contro il Nec Nijmegen. La maglia è ovviamente quella dell’Ajax e il futuro campione subentra al posto del vecchio numero 14. Gol all’esordio e, a fine stagione, primo titolo nazionale conquistato con la maglia dei lancieri. Ne arriva un altro l’anno successivo, quando i gol diventano 9 e le partite giocate 20, ma è nella stagione 1983/84 che il tulipano sboccia definitivamente, e il mondo intero si accorge che l’Olanda ha partorito un nuovo fuoriclasse. Un calciatore che possiede i colpi del numero 10 e la media realizzativa del numero 9, visto che è capace di segnare 28 volte in 26 partite ad appena 19 anni. Non più il modello Ajax in blocco a far parlare di sé, ma il singolo calciatore ad emergere rispetto ad un collettivo organizzato ad arte. Parallelamente arrivano le prime apparizioni con la casacca arancione, ma sono anni di apprendistato prima del Grande Evento, visto che gli eredi della compagine degli anni ’70 non riescono a qualificarsi per il mondiale in Messico del 1986. I titoli olandesi abituano a vincere il giovane campione, ma sono le ultime due stagioni all’Ajax che lo proiettano nella dimensione di una caratura internazionale. Il 1986 è l’anno della Scarpa d’oro, frutto di ben 37 reti in 26 presenze, e, nell’ultima stagione in biancorosso, arriva la conquista della Coppa delle Coppe. E’ sua la marcatura in finale ai danni della Lokomotive Lipsia, per una consacrazione europea giunta sotto la direzione tecnica proprio di Johan Cruijff. Il primo trofeo continentale di una lunga serie, che gli apre le porte al campionato più competitivo al mondo.
Una colonia olandese di nome Milanello
2 milioni di franchi svizzeri, quasi 2 miliardi di lire. Questa è la cifra imposta dai parametri UEFA che il Milan deve sborsare per assicurarsi le prestazioni del nuovo fuoriclasse, nell’estate 1987. Un affare per quello che sembra essere il più forte centravanti europeo in prospettiva, se non nell’immediato. Valutazione di gran lunga al ribasso, probabilmente, per la poca fiducia che altre società – più blasonate del Milan di allora – avevano riposto nelle sue condizioni fisiche, dopo l’infortunio ad una caviglia avvenuto durante una sfida contro il Groeningen. In effetti, già dopo la gara di Coppa Uefa persa in casa contro l’Espanyol – che poteva far morire sul nascere le ambizioni di rivoluzione tattica di Arrigo Sacchi -, Van Basten è costretto a fermarsi. E’ l’altra caviglia a costringerlo al riposo forzato e alla conseguente operazione, con sei mesi di inattività dai campi di gioco. I rossoneri sono impegnati in una rincorsa che sembra impossibile contro il Napoli di Maradona, lanciato a bomba verso il secondo scudetto consecutivo. Per chi ha memoria di quella stagione, una delle più avvincenti nella storia del calcio italiano, capace di vivere un decennio di primavera ininterrotta, ricorderà che sarà quasi esclusivamente il gemello olandese Ruud Gullit ad occupare le prime pagine dei giornali. Dopo la vittoria nello scontro diretto nella gara d’andata a San Siro – uno schiacciante 4-1 per l’undici di Sacchi – alcuni giornalisti sportivi iniziarono ad avanzare l’ipotesi che il 10 rossonero potesse essere addirittura più completo del rivale argentino. Van Basten era diventato oramai l’altro olandese. Il fuoriclasse solo nella potenzialità, ma non nella sostanza; teoria supportata da una marcia trionfale di Baresi e compagni, laureatisi Campioni d’Italia con soli 3 gol portati in dote dal centravanti di Utrecht. A 24 anni la carriera inizia ad essere di fronte a un bivio, con i detrattori pronti ad emettere il timbro della sentenza. Ma è nell’estate del 1988, a metà strada tra Milano e l’Olanda, che il cigno ritorna a cantare.
Germania 1988. L’Europa intera ai suoi piedi
O l’anonimato assoluto, per via di problemi fisici, o il proscenio conquistato da numero uno con gol ai limiti dell’impossibile. Così si è sviluppata, fino a questo punto, la carriera della punta fiamminga. “Il più raffinato ed elegante centravanti del calcio moderno, l’unico che sapesse danzare sulle punte di un fisico ciclopico”. Lo descrive così, su Repubblica, Emanuele Gamba, giornalista sportivo e noto tifoso granata. E’ questa frase, probabilmente, a evidenziare meglio di qualsiasi altra la diversità di Van Basten. Un calciatore che non sente il peso dei suoi 188 centimetri di altezza, ma che li mette a servizio di piedi con una tecnica fuori dal comune. Agli Europei in Germania non è la sua Olanda a partire con i favori del pronostico, tanto che la prima partita viene persa per 1-0 contro l’Unione Sovietica. Si pensa a una competizione di rodaggio, per gli oranje, in vista del Mondiale da disputare in Italia due anni dopo. C’è da dire, però, che la formula a sole 8 squadre, con le prime 2 di ogni girone qualificate direttamente per le semifinali, può dare adito a qualsiasi tipo di impresa. Infatti, con 4 punti conquistati in 3 partite, i ragazzi di Michels accedono alla semifinale contro i padroni di casa della Germania Ovest, favoriti di diritto alla vittoria finale. Una rivincita a distanza di 14 anni dalla finale mondiale del 1974. Questa volta, però, nell’undici arancione c’è più consapevolezza e meno inesperienza, più voglia di arrivare al risultato oggettivo e meno interesse nei riguardi della perfezione estetica. Dopo il vantaggio di Matthaus su calcio di rigore, c’è la risposta, sempre dal dischetto, da parte di Ronny Koeman. Poi, a due minuti dalla fine, il cigno timbra il sorpasso, con un gol più da attaccante di rapina che da Michelangelo del calcio. Manca solo il muro sovietico da demolire in finale prima della gloria, in una gara che verrà ricordata come quella del gesto tecnico proibito. Un gol, quello di Van Basten, che oltre a suggellare il 2-0 di una sfida mai in discussione, si inserisce di diritto nelle classifiche delle reti più belle di sempre per bellezza del gesto e coefficiente di difficoltà. L’Unione Sovietica si sarebbe dissolta, a livello politico, due anni e mezzo dopo, mentre quella parabola paradisiaca segnerà la fine della Nazionale con la scritta CCCP sulla maglia. Ma, in quel momento, non solo nessuno lo poteva immaginare, ma nessuno se ne sarebbe potuto o voluto accorgere, perché rapito da troppa meraviglia.
La nebbia di Belgrado nella nascita degli Invincibili
Agli albori di quelle che diventano pagine di Storia, il più delle volte, c’è sempre un punto di svolta senza il quale nulla sarebbe accaduto. Momenti in cui è il caso a farla da padrone, con le circostanze che si rivelano complici o nemiche dei personaggi in commedia. Se lo Scudetto del 1988 è stato il primo passo di una squadra che voleva scalare il mondo, il gradino successivo doveva essere, per forza di cose, la conquista dell’Europa che conta. Berlusconi e Galliani avevano costruito un gruppo troppo perfetto perché si potesse accontentare di vincere soltanto. I ragazzi di Sacchi dovevano per forza di cose aprire un ciclo, e farlo in un modo arrogante e inoppugnabile. La Coppa dei Campioni del 1988, però, non era la Champions League odierna con la formula a gironi. Allora bastava sbagliare una semplice partita per ritrovarsi estromessi già in autunno dall’obiettivo principale di stagione. Dopo un primo turno fin troppo agevole contro il Vitosha Sofia, che vide una quaterna di Van Basten nella gara di ritorno, i rossoneri dovettero spostarsi un’altra volta ad est della Cortina di ferro, per essere contrapposti alla Stella Rossa di Belgrado nel doppio confronto degli ottavi di finale. Il pareggio per 1-1 nell’andata di San Siro era un mezzo passo falso che non lasciava moltissime speranze per il ritorno, da giocare nell’inferno del Marakana. Le cose non si mettono bene per il Milan, visto che il primo tempo si chiude sull’1-0 per Savicevic e compagni, e, ad inizio ripresa, viene espulso Virdis per un fallo visto solo da un guardalinee. L’arbitro tedesco Pauli, però, a causa della nebbia fittissima che avvolge lo stadio jugoslavo, è costretto a sospendere il match e a rimandarlo al giorno successivo. Si ripartirà dallo 0-0 e dal primo minuto – allora le regole dicevano questo -, e, nonostante una direzione di gara non proprio favorevole, i rossoneri porteranno a casa la qualificazione ai calci di rigore grazie a un Giovanni Galli in stato di grazia. Da lì, una cavalcata trionfale fino alla finale di Barcellona, con uno stadio quasi totalmente rossonero, e un 4-0 ai danni della Steaua Bucarest, firmato dalle doppiette di Gullit e Van Basten. C’è il marchio indelebile del cigno in questa Coppa dei Campioni tornata a Milano dopo tanti anni, grazie alle 10 reti messe a segno nella massima competizione continentale per club che gli valgono il titolo di capocannoniere del torneo. L’anno dopo arriva il bis, nella finale di Vienna decisa dalla rete del terzo olandese, il centrocampista Frank Rijkaard, in una stagione macchiata solamente da un campionato perso al fotofinish, nell’assurda trasferta di Verona. Il Milan di Sacchi e degli olandesi, in ogni caso, a prescindere da uno Scudetto in più o in meno in bacheca, è diventato una squadra già leggendaria nel mondo. Capace di essere considerato uno spartiacque tra un ‘prima’ e un ‘dopo’, nella storia di un calcio, quello italiano, storicamente incline a un’impostazione tattica speculativa, più che di aggressività e pressing nella metà campo avversaria. In tutta questa serie di trionfi c’è la meraviglia di Van Basten. Un campione in continua evoluzione, che, anno dopo anno, migliora come il più pregiato dei vini d’annata. Come tutti i cicli, però, anche quello sacchiano giunge a conclusione. Forse per incapacità, da parte di giocatori troppo perfetti, di reggere allenamenti troppo maniacali per più anni consecutivi. Così, nella buia e controversa notte di Marsiglia, in cui Galliani ‘ritira’ la squadra dal campo a causa di un black-out momentaneo, c’è la definitiva crisi di rigetto. La società rossonera, a causa di questa decisione, viene squalificata per un anno dalle Coppe europee. Van Basten e il Diavolo, ancora una volta, si ritrovano a ripartire da zero.
L’arrivo di Capello e le ultime due stagioni da numero uno
Uno dei tanti luoghi comuni che gli addetti ai lavori utilizzano per identificare le caratteristiche di alcuni atleti è etichettarli come “il prototipo del calciatore moderno”. Una semplificazione dialettica spesso poco pertinente, visto che i fuoriclasse lo sono a prescindere dal periodo storico di riferimento. Nel caso di Van Basten, però, questo giudizio di forma assume i connotati della sostanza. Non necessariamente classico numero 9 da area di rigore, ma giocatore totale in omaggio alle proprie radici fiamminghe. Nell’estate del 1991, quando l’olandese è all’apice della maturità calcistica con i suoi 27 anni, Silvio Berlusconi sceglie Fabio Capello per riprovare a scalare il mondo. Giornalisti e addetti ai lavori, quasi all’unanimità, ritengono non più rianimabile una squadra che ha vinto per due volte consecutive Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale, il massimo per un club. La squadra appare arrivata alla fine di un ciclo con la naturalezza dello scorrere del tempo. Invece è proprio il fatto di trovare un tecnico non esasperato dal pressing e dalla difesa altissima, ma soltanto abilissimo gestore di spogliatoio, che consente di vivere una seconda giovinezza a calciatori ritenuti dai più sul viale del tramonto. Lo stesso Van Basten, in una recente intervista rilasciata proprio a Capello, ha dichiarato che fu importantissimo per il gruppo avere finalmente un allenatore che fosse stato calciatore, e che potesse così capire, a differenza di Sacchi, le esigenze dei singoli. Così, nemmeno a dirlo, il campionato 1991/92 vide il Milan conquistare lo Scudetto, e Van Basten mettere a segno 25 reti in 31 partite giocate, che gli valsero il titolo di capocannoniere per la seconda volta in Italia, dopo le 19 marcature nella stagione 1989/90. Sembrava il preludio ad una nuova ascesa, grazie a una società in grado di comprare giocatori per il solo gusto di sottrarli alle rivali. Lo fu per il Milan, in effetti, ma non per Van Basten. Durante il 1992/93, dopo il terzo Pallone d’Oro assegnatogli, a seguito dei due consecutivi del 1988 e del 1989, la caviglia comincia a dare nuovi segnali allarmanti, tanto da indurre il calciatore a sottoporsi ad una nuova operazione di pulizia. Due o al massimo tre mesi i tempi di recupero prospettati da parte dell’equipe medica di St. Moritz, dove il campione – in disaccordo con il Milan – decide di operarsi. Purtroppo le cose non vanno per il verso giusto, e, a giugno del 1993, si sottopone al quarto ed ultimo intervento, per tentare l’ennesima riabilitazione. Non sa che la finale di Coppa dei Campioni giocata contro l’Olympique Marsiglia, disputata in condizioni precarie e persa per il gol di Boli, è stata la sua ultima apparizione non solo con la maglia del Milan, ma da calciatore professionista in senso assoluto. La stessa squadra, quella francese, ironia del destino, che due anni prima aveva interrotto il dominio europeo del Milan di Sacchi. Nel medesimo stadio – quello di Monaco di Baviera -, peraltro, dove soltanto 5 anni prima Van Basten aveva portato al trionfo la Nazionale Olandese all’Europeo di Germania. Se per i ragazzi di Capello questa finale persa rappresenta soltanto un incidente di percorso, visto che dodici mesi dopo ci sarà l’epico 4-0 contro il Barcellona di Cruijff nella finale di Atene, per il calcio in generale si tratta di un punto di non ritorno. Per trasmettere alle nuove generazioni cosa abbia significato questa fine improvvisa e dolorosa, è sufficiente citare una frase di Carmelo Bene: “Il lutto per il ritiro di Van Basten non si è mai estinto e mai si estinguerà”. Non possiamo sapere se avrebbe potuto salire l’ultimo gradino che conduce alla perfezione e trascinare la Nazionale Olandese alla conquista del Mondiale che le manca; o se avrebbe incontrato, invece, un fisiologico declino sopraggiunto con l’avanzare dell’età. Quel che è certa è l’eredità di bellezza lasciata, a distanza di più di 20 anni da quel 17 agosto. Restano impresse in modo indelebile le immagini di giocate immortali, oltre al rammarico di essersi persi chissà quanta meraviglia rimasta ancora inespressa. E rimane anche, probabilmente, la consapevolezza che “uno come lui” ancora non lo abbiamo trovato.
C’è chi dice che una sconfitta rimanga impressa nel corso del tempo più di una vittoria. L’ebbrezza del successo contiene il brivido del momento, mentre il lutto sportivo di una disfatta fatica ad esser metabolizzato dal fluire degli anni. Alcune volte non ne bastano più di 30 per abituarsi al ricordo di una fine mai accettata. Una calda notte di Coppe e di Campioni di fine maggio, che avrebbe potuto proiettare la Roma sul tetto più alto d’Europa, è rimasta come l’emblema di quello che poteva essere e non è mai stato. Culmine di un percorso intrapreso anni prima, e coronato con la classica conclusione di un ciclo. Invece, visto che il corso della Storia non si modifica come lo scorrere di un fiume, neanche per una volta Davide ha potuto sentirsi Golia, nonostante l’appoggio di un pubblico amico, pronto a liberare un urlo rimasto strozzato in gola. Il 30 maggio del 1984, per i romanisti di ogni generazione, non è e mai sarà una data come le altre. E’ qualcosa di tragico e maledetto, che racchiude in una partita l’essenza di sofferenza e disillusione intrise in una maglia. La nemesi del fato, dopo che sempre contro una squadra britannica c’era stato un mese prima il regalo degli déi, con la rimonta riuscita in semifinale ai danni del Dundee United, a seguito di un 2-0 della gara d’andata che non lasciava presagire nulla di buono. Invece, visto che sempre il destino s’era divertito a designare la Città Eterna come sede dell’atto conclusivo di quella Coppa dei Campioni – il termine Champions League era ancora impensabile per un calcio troppo romantico -, tutto sembrava scritto per un finale differente.
Però c’era di mezzo un’altra squadra dalle magliette rosse, il Liverpool di Joe Fagan, già 3 volte Campione d’Europa, e che 7 anni prima aveva alzato la sua prima Coppa dalle grandi orecchie proprio all’Olimpico contro il Borussia Monchengladbach. Se il calcio fosse un racconto narrato invece che la cruda realtà degli eventi, qualsiasi sceneggiatore avrebbe concesso ai ragazzi di Liedholm il tributo dei gradini della gloria. Una Roma mai più vista, quella del 1983/84, secondo alcuni più forte di quella laureatasi Campione d’Italia l’anno prima. Con un Vierchowod in meno, ma un Cerezo in più, a formare con Conti, Falcao e Ancelotti un centrocampo di livello europeo. Questo sport, però, oltre a non essere un racconto narrato, è talvolta soggetto alle emozioni degli interpreti. Uomini non abituati a gestire certe tensioni, con una città spesso troppo calorosa e fagocitatrice nel trasmettere l’effetto contrario di troppo amore concesso. I più anziani ricorderanno che quel 30 maggio, allo stadio, c’erano già molte bandiere con la scritta ‘Roma Campione d’Europa’ impressa sulla stoffa giallorossa, con un tetro silenzio sul pullman dei calciatori per la troppa tensione, nel tragitto dall’hotel allo Stadio. Una tensione mai scaricata sul campo, che ha partorito una partita bloccata, come quasi tutte le finali. 120’ di assoluta parità, con bomber Pruzzo che aveva annullato il vantaggio iniziale di Neal, viziato, tra l’altro, da un evidente fallo su Franco Tancredi. Poi la scelta di calciare i rigori sotto la Sud, il primo errore degli inglesi e la bomba di Agostino Di Bartolomei, scelto dal Barone come primo rigorista in corsa al posto di Graziani, che voleva far entrare in porta con tutta la palla un portiere che faceva i versi della scimmia con estrema naturalezza. Roma avanti per la prima volta, e i nastrini giallorossi che iniziavano ad esser preparati sotto la Monte Mario attorno al trofeo. Poi, però, gli errori di due Campioni del Mondo, con due calci di rigore calciati alle stelle, e la pietra tombale su un sogno inseguito per anni.
Come ogni evento storico che si rispetti, Roma-Liverpool manterrà sempre intatti dei misteri mai svelati, alcuni anche tragici. L’ultima partita dei principali simboli di quella Roma (Liedholm e Di Bartolomei), il rifiuto di tirare un rigore decisivo da parte di Falcao, e il fatto che mai più si ripeterà un’occasione simile fanno di Roma-Liverpool qualcosa di altro rispetto a una semplice occasione persa. Per alcuni questa partita non è stata mai giocata, altri non hanno più voluto rivederla, altri ancora non ne vogliono parlare e la ricordano come la rottura di rapporti consolidati (Di Bartolomei-Falcao). Negli anni sempre più aneddoti e versioni divergenti sono serpeggiate riguardo a quanto successo quella notte, e in quello spogliatoio. Di certo si è rotto qualcosa nella ‘magia’ di quel gruppo, che s’è sfaldato a poco a poco, e nulla è più tornato come prima. La Coppa Italia conquistata pochi giorni dopo contro il Verona ha rappresentato la magra consolazione di una squadra chiamata ‘Rometta’ negli anni ’70 con Anzalone, e arrivata a due calci di rigore dall’essere Regina d’Europa. C’è un documentario di quegli anni in cui un giornalista della RAI domanda a un ragazzo del Commando Ultrà perché la Roma fosse considerata “magica” dai tifosi della Curva Sud. Allora il ragazzo, che avrà avuto sì e no 18 anni, rispose: “Penso che se una squadra è in grado di vincere a Milano, e poi rischia di perdere in casa contro l’Ascoli la domenica successiva può essere considerata soltanto magica”. Poi è venuta la Roma di Eriksson, l’altra bellissima rimonta del 1986 sfumata per una sconfitta contro un Lecce già retrocesso, la finale UEFA persa nel 1991 contro l’Inter sempre all’Olimpico, fino allo Scudetto del 2001 di Batistuta e Capello. In ogni caso, qualcosa di irripetibile come Roma-Liverpool non c’è più stato. Ma, probabilmente, quella partita non s’è mai realmente giocata, e i sogni restano magici e affascinanti solo se conservati all’interno di un cassetto.
79. E’ forse meno appariscente degli altri, ma Thomas Müller come protagonista dei Mondiali calza alla perfezione. Archetipo del falso nueve, calciatore dalle grandi doti di duttilità, stella del Bayern Monaco, è già arrivato in giovane età a quote nove reti in nove partite disputate nella competizione iridata, segno che se tutto andrà come deve andare, il record Ronaldo-Klose forse non durerà a lungo. La Germania in Brasile vuole coronare un percorso che dal 2006 ad oggi, tra Mondiali ed Europei, l’ha sempre vista tra le prime quattro: terza nel 2006, seconda nel 2008, terza nel 2010, in semifinale nel 2012. E’ il simbolo di una generazione tedesca che dopo la doppia eurofiguraccia 2000-2004 (che fu comunque intervallata, tanto per gradire, da una finale Mondiale), vuole riassaporare cosa significhi vincere: perché avrà ragione Gary Lineker che tanto nel calcio “alla fine vincono i tedeschi”, ma è anche vero che è da Oliver Bierhoff e dal 1996 che una coppa non viene alzata da mani teutoniche.
80. A Barack Obama il calcio piace: gli Stati Uniti contro il Belgio affronteranno negli ottavi di finale un esame di maturità importante, ma questa Nazionale yankee è stata forse la più seguita della storia, anche di quella che nel 2002, piazzandosi tra le prime otto per la prima volta nell’era moderna, insegnò che si poteva sognare anche col soccer. Quando nel 2009 gli USA persero la finale di Confederations Cup contro il Brasile, rimontati da 2-0 a 3-2, Obama si scatenò con un derby a distanza col presidente brasiliano Lula, con tanto di scambio di maglie finale. Alla squadra di Klinsmann manca forse l’uomo in grado di fare la differenza, ma l’appoggio dei piani alti è senz’altro un’iniezione di popolarità supplementare ed utilissima per la Nazionale.
81. Abbiamo già parlato di volti noti del cinema e della televisione che hanno manifestato il loro appoggio alla Nazionale USA. Will Ferrell, “pizzicato” ad arringare i tifosi in un bar, si aggiunge ad una lista già molto lunga. Già, ma passata l’iniziale curiosità, che in un bar del Kentucky o in una steakhouse nell’Iowa può assomigliare a quella di un italiano per il curling in tempo di Olimpiadi, come si approcciano gli americani al soccer? L’analisi dei flussi della rete aiuta a capire meglio il tutto. Da una parte, Google ha registrato che durante il match contro il Ghana, la domanda più cercata sul celebre motore di ricerca è stata “How long is a soccer game?”, indicativa di un certo disorientamento. Su Twitter però, al momento del gol di Muller, i tweet con la parola “Nazi” o “Nazis” hanno avuto un’impennata vertiginosa. Segno evidente che il tipico campanilismo del tifo calcistico si sta affermando anche nella sua versione a stelle e strisce.
Portogallo – Ghana 2-1
82. Il Mondiale ha perso il Pallone d’Oro: verdetto prevedibile dopo la mancata vittoria portoghese contro gli Stati Uniti, ma difficile da digerire per una Nazionale storicamente ricchissima di talenti, ma che non riesce a risolvere il problema del centravanti dall’alba dei tempi, annoverando tra i miti di ogni epoca onesti ma modesti bomber come Nuno Gomes e Pauleta. La presenza di Helder Postiga è stata in questo senso indicativa. Cristiano Ronaldo è arrivato in Brasile con la pancia piena del suddetto Pallone d’Oro e della “Decima” conquistata con il Real Madrid. Le sue ultime due prestazioni, dopo quella incolore contro la Germania, sono state in crescendo, ma un uomo solo non fa la squadra. A meno che non si tratti di Messi, e questa probabilmente è la grande preoccupazione di CR7 da qui alla fine di Brasile 2014.
83. Il Mondiale ha detto che al calcio africano manca la necessaria maturità. Il caso del Ghana è stato eclatante. La furibonda lite tra Muntari e Kevin Prince Boateng, entrambi esclusi alla vigilia della decisiva partita contro i lusitani, e dei premi pretesi, consegnati e distribuiti in contanti, è la prova lampante di una polveriera presente in una squadra che contro Stati Uniti e Germania aveva dimostrato di essere competitiva nei piedi, ma non con la testa.
Corea del Sud – Belgio 0-1
84. L’esplosione della Fellaini-mania sugli spalti dimostra come il pubblico creda nel grande exploit dei Diavoli Rossi. Che mai avevano chiuso il girone eliminatorio ai Mondiali a punteggio pieno, e che anche contro i coreani sono rimasti fedeli alla cosiddetta zona-Belgio, con tutti i gol fin qui realizzati negli ultimi venti minuti.
Algeria – Russia 1-1
85. La storia dell’ex URSS ai Mondiali è affascinante, ricca di soprusi arbitrali (1962, 1970, 1986) e di grandi occasioni mancate (1966, 1982). Dallo scioglimento dell’impero sovietico, però, il fascino ha lasciato spazio all’approssimazione, e la sola scuola russa non è parsa in grado, nonostante l’abbondanza di mezzi economici (Fabio Capello si è presentato in Brasile come CT più pagato dei Mondiali) di mostrare qualcosa di significativo sul campo, l’unico luogo dove la storia si possa tramandare nel calcio. Il CT italiano ha recriminato molto per questa nuova eliminazione, ma restano impresse nella mente più le papere del portiere Akinfeev, ed una incapacità cronica nel fare gioco, che si è ripercossa nei due soli punti conquistati, al di là degli sprazzi dimostrati contro il Belgio.
86. La storia dell’Algeria invece si ritrova di fronte alla possibilità di un nodo gordiano, a 32 anni di distanza. Alla soddisfazione per la prima qualificazione tra le prime sedici del mondo nella storia, si aggiunge la formidabile possibilità di vendetta, quando nel 1982 la squadra di Madjer, dopo aver battuto la Germania Ovest, si ritrovò fuori a causa di una clamorosa “pastetta” tra i tedeschi e gli austriaci, che giocarono una partita col freno a mano tirato per approdare a braccetto alla seconda fase. Fantasiosa e veloce in attacco, forse un po’ approssimativa nelle chiusure difensive, la squadra algerina sogna la più clamorosa delle vendette: anche se sarà dura, contro una delle favorite del Mondiale, ma la vendetta, fredda così come deve essere, non è mai stata un piatto facile da cucinare.
28. Non è una novità che le squadre più attese ai Mondiali spesso vadano incontro a difficoltà imprevista. Per il Belgio l’incubo è durato settanta minuti, complici anche le scelte del tecnico Wilmots che forse ha rinunciato a un po’ troppo talento, tenendo inizialmente in panchina i risolutori del match, Fellaini e Mertens. Un bel sospiro di sollievi per i sostenitori dei “Red Devils”: raramente in patria un Mondiale è stato così sentito dai belgi, che erano assenti dal meglio del calcio nel pianeta dal 2002. Caroselli da Bruxelles ad Anversa a Liegi, con tanto di bandiera brasiliana rivista alla belga. E così il primo ostacolo è stato superato: ma per lasciare davvero il segno in Brasile, servirà qualcosa (e un pizzico di coraggio) in più.
Brasile – Messico 0-0
29. La storia della sesta giornata dei Mondiali è sicuramente quella di Guillermo “Memo” Ochoa, al quale è stato dedicato un titolo giornalistico più che eloquente: “Un disoccupato ferma il Brasile”. Ochoa, classe ’85, è stato considerato per anni una promessa assoluta del calcio mondiale. All’estrema spettacolarità dei suoi interventi non sono però sempre corrisposte prestazioni con la giusta continuità. E’ al suo terzo mondiale, ma nel 2006 e nel 2010 non ha ottenuto il posto da titolare, nonostante si sia messo in evidenza nella Coppa America del 2007. Troppi alti e bassi che lo hanno portato ad arrivare a Brasile 2014 senza una squadra, da svincolato. Herrera gli ha dato fiducia, e contro la Selecao ha stupito il mondo intero, con un intervento alla “Gordon Banks” su Neymar ed altre tre prodezze al limite del miracolo. Le donne sono la sua altra grande passione oltre ai voli tra i pali: ma il Mondiale potrebbe regalargli a questo punto il salto più atteso alle soglie dei trent’anni: quello nel calcio europeo.
30. Parlando del Brasile, dopo le polemiche per l’arbitraggio di Nishimura contro la Croazia, il pari senza reti con i messicani ha alimentato ulteriormente i dubbi attorno alla squadra di Felipe Scolari. L’impressione è che alla Selecao manchi un vero finalizzatore, ma anche un “genio” offensivo di centrocampo, dove le mezze ali di grande talento abbondano, ed anche gli esterni, ma manca il Kakà della situazione, per intenderci. Considerando che Scolari sembra avere scarsa considerazione di Hernanes, che pure non corrisponde pienamente alle caratteristiche sopra citate, il problema non sembra di immediata, facile risoluzione.
31. I pareggi: sconosciuti fino ad Iran-Nigeria, ora sembrano materia di maggiore attualità. E se Brasile-Messico, nonostante la mancanza di gol, ha regalato diverse emozioni, la Russia di Fabio Capello non ha affatto convinto. E dopo un inizio spumeggiante, qualcuno ha iniziato ad addormentarsi di fronte alle prime partite “tattiche”.
Russia – Corea del Sud 1-1
32. Il sesto giorno “Mondiale” è stato anche quello dei portieri, nel bene e nel male. E se Ochoa si è guadagnato la copertina di eroe del momento, il russo Akinfeev ha mandato di traverso l’esordio a Fabio Capello. Kerzhakov ha tolto le castagne dal fuoco contro una Corea confusionaria tanto quanto i russi, ma in qualità di organizzatori nel 2018, le aspettative erano ben altre su una squadra che sembra semplicemente priva della qualità necessaria. Peggio degli svarioni nel secondo tempo, c’è stato il nulla assoluto del primo: chi a Mosca è rimasto alzato tutta la notte (il match in Russia iniziava alle 4 del mattino) di certo non ringrazia…
Il Rose Bowl di Pasadena è un catino bollente quando Franco Baresi sta per calciare il primo rigore della serie italiana. E’ già un momento storico di per sé, visto che mai la finale del Mondiale si è decisa ai calci di rigore in sessantaquattro anni di storia. Difficile che chi legga non conosca già l’epilogo di quella roulette russa dal dischetto. Ma in molti, troppi partono dal rigore fallito dal giocatore simbolo di quel Mondiale e di quella stagione della storia del calcio, Roberto Baggio, che fu solo il sigillo in una storia già compromessa dai precedenti errori di Massaro, e proprio del “Kaiser Franz” milanista. Il rigore di Baresi rappresenta invece il momento in cui tutto ancora poteva accadere, e in cui poteva portarsi a compimento una rivoluzione iniziata sei anni prima, e sulla scia della quale il calcio italiano era tornato a dominare la scena mondiale a livello di club.
I centri nevralgici della rivoluzione sono due, ed è in parte un caso, e in parte no, che i blocchi della Nazionale italiana ai Mondiali statunitensi del 1994 provenissero proprio da quelle due squadre: Parma e Milan. Ovvero, la squadra che lanciò l’allora CT della Nazionale, e quella che lo consacrò di fronte al mondo intero. Stiamo parlando ovviamente di Arrigo Sacchi, che con un nuovo modo di interpretare la zona fece innamorare Silvio Berlusconi, che gli mise in mano una delle più strabiliantisquadre di tutti i tempi. Tornato in cima all’Europa e al mondo, il Milan continuerà a vincere con Fabio Capello, mentre Sacchi proverà ad applicare i crismi della sua rivoluzione alla Nazionale. Un’impresa ardita, condita da un numero di giocatori convocati e di esperimenti senza precedenti, tanto che la squadra arrivò al giugno del 1994, alla prima partita persa contro l’Irlanda, senza avere ancora una fisionomia precisa.
Quando Franco Baresi si trova a battere quel rigore, la rivoluzione sta per essere compiuta nel modo più strano. Niente calcio champagne, fatta eccezione per una mezz’ora in semifinale contro la Bulgaria, ma partite eroiche per resistenza ed applicazione, o decise da prodezze straordinarie dei singoli. Contro Norvegia, Nigeria e Spagna si è vinto così, ma contro i bulgari la sorte ha chiesto il conto al CT. Lite con Beppe Signori, il più formidabile cannoniere di quegli anni del calcio italiano con la maglia della Lazio, stanco di giocare da tornante sinistro e di castrare le sue velleità offensive. Il gran rifiuto del bomber di Alzano Lombardo priverà Sacchi di una freccia micidiale, ma la testardaggine nel CT nel non schierare da punta pure il primo cannoniere capace di sfondare il muro dei 25 gol in campionato dopo 32 anni, non fu da meno. Squalifica per Billy Costacurta, anima difensiva del suo Milan proprio con Baresi, il che portò ad un recupero ad ogni costo di quest’ultimo, perché almeno uno dei due doveva assolutamente giocare. Ed infine, infortunio per Roberto Baggio, che sarà un fantasma al Rose Bowl, contro un Brasile che avrebbe temuto mortalmente la sua fantasia.
Di fronte a Pasadena c’è infatti la più pragmaticaSelecao di tutti i tempi. Anche più di quella che Sebastiao Lazaroni aveva schierato con una difesa a cinque che fece inorridire i puristi della “Zaga“: il Brasile difende a quattro, e gli dei del calcio punirono al Delle Alpi di Torino il tecnico con la memorabile giocata Maradona-Caniggia che decise il match. Stavolta, la presenza di un terminale offensivo come Romario è una garanzia. In più lo stato di grazia di Bebeto, suo partner perfetto in campo, Dunga a centrocampo e Branco, che con una punizione delle sue ha steso l’Olanda nei quarti di finale, rendono la squadra di Parreira poco spettacolare, ma quadrata e maledettamente efficace.
E torniamo quindi alla palla sul dischetto di Baresi. Sacchi quel momento non voleva giocarselocosì, col suo capitano guerriero ferito, reduce da un’operazione al menisco e da un recupero con pochi precedenti di velocità. Sognava di incantare il mondo con l’applicazione su scala Nazionale del suo calcio totale, quello che fece quasi piangere dal nervoso il Real Madrid della “Quinta del Buitre“, umiliato in Coppa dei Campioni dall’applicazione maniacale della tattica del fuorigioco. Quella partita invece, giocata con un caldo infernale, fu se possibile ancor più brutta della finale di quattro anni prima, in cui però non c’era l’attenuante della temperatura. I flash da insolazione parlano di pochi palloni sprecati da entrambi gli attacchi, e di un bacio di Gianluca Pagliuca ad un palo che gli evitò la papera del secolo.
E finalmente ed inesorabilmente si arriva a Franco Baresi, che manda alle stelle i sognisuoi, del suo allenatore rivoluzionario e quelli di un’Italia intera, che con quella squadra aveva imparato a soffrire e a raddrizzare situazioni impossibili. Sbaglieranno come detto anche Massaro e quello che l’Italia abituata a soffrire aveva imparato a chiamare Divin Codino, e che Bruno Pizzul chiamava solo “Roberto“, come uno di famiglia, per distinguerlo dall’altro Baggio, Dino, che ci aveva salvato contro la Norvegia. Ma Sacchi, all’errore di Franco, già aveva capito tutto: non per niente a fine partita, tra i brasiliani festanti per la conquista del “tetra“, furono loro ad abbracciarsi e a piangere calde lacrime di rimpianto. Di lì in poi la rivoluzione sacchiana imboccò la discesa, la grande illusione non tornò mai più.
Di talenti inespressi, per sfortuna, scelleratezza o quant’altro, la storia del calcio è piena. Alcuni però sono ricordati più di altri, magari anche per aver lasciato un segno forte anche fuori dal rettangolo di gioco. Gli ‘altri’ invece escono di scena così come erano entrati, in punta di piedi, e ogni tanto nella mente degli appassionati riaffiora un flash, che fa rendere conto di quanto sia sottile il confine tra gli altari e la polvere.
Paulo Futre ne è un esempio lampante: ai Mondiali messicani del 1986 arriva con le credenziali di miglior talento portoghese degli ultimi venti anni. Non per niente, la Nazionale lusitana si ripresenta alla rassegna iridata esattamente a venti anni di distanza dal terzo posto ottenuto in Inghilterra dalla generazione di fenomeni che aveva in Eusebio la sua punta di diamante. La scuola portoghese sta di nuovo crescendo all’epoca, come dimostrato dalla semifinale raggiunta agli Europei del 1984. L’avventura in Messico finirà male, con una clamorosa eliminazione al primo turno per una squadra che, pur ricca di talenti, come spesso accade al Portogallo pecca in concretezza.
Futre ha però qualcosa in più: tipico numero dieci d’attacco, segna e fa segnare con la maglia del Porto. A soli ventuno anni si laurea Campione d’Europa, nella leggendaria finale del “tacco di Allah”, titolare al fianco di Madjer e Juary nella sfida vinta contro il Bayern Monaco. Futre non segna, ma le sue magie lo svelano all’Europa intera. L’Atletico Madrid se lo accaparra, in Spagna resterà per sei stagioni, più del previsto, perché un talento come il suo pareva destinato ai palcoscenici massimi, sin da subito. Il tallone d’Achille di Futre è un fisico che non garantisce una piena autonomia. Si infortuna spesso, e alle sublimi doti da rifinitore, non riesce ad abbinare medie realizzative convincenti.
Nel frattempo, la Nazionale del Portogallo vive una nuova involuzione che lo porta a mancare gli appuntamenti del Mondiale del 1990 e degli Europei del 1988 e del 1992. Ogni anni si parla di un suo possibile passaggio alle big della Liga come Barca e Real, ma non se ne fa mai nulla. Nel 1993 allora Futre si risolve di accettare le sirene italiane. La Reggiana neopromossa in Serie A lo presenta come il regalo per i tifosi del “Mirabello“. Sembra un grande passo indietro, ma negli anni Novanta il calcio italiano è imbattibile per qualità, visibilità e ovviamente anche per i salari. La Reggiana può essere l’occasione giusta per attirare l’attenzione delle grandi italiane, abituate a dominare nelle competizioni continentali, di quel periodo.
L’esordio è folgorante: Futre va subito a segno e dispensa magie nella sfida contro la Cremonese. Ma il destino ha piani crudeli, da subito, per la sua avventura italiana. A pochi minuti dalla fine del match, uno scontro con il difensore grigiorosso Pedroni gli costa la rottura del tendine rotuleo. E’ l’inizio di un calvario che lo vedrà restare fermo quasi due anni. Nel campionato 1993/94 quella resterà la sua unica presenza in Serie A, ne aggiungerà dodici l’anno successivo, senza evitare una malinconica retrocessione per gli emiliani.
In quelle stagioni il Milan di Berlusconi fa collezione di talenti, e tra Baggio e Savicevic, anche Futre viene aggiunto alla sbalorditiva parata che la squadra rossonera fa sfilare a San Siro. Ma il ginocchio ormai è andato: ironia della sorte, in maglia rossonera in campionato Futre scenderà in campo solo una volta, proprio contro la Cremonese, la squadra che ha segnato lo spartiacque della sua carriera. E’ la partita dello scudetto 1995/96, il quarto in cinque anni per il Milan di Fabio Capello. Futre concluderà la carriera appena due anni dopo in Giappone, a soli trentadue anni, e con sole 43 presenze negli ultimi 5 campionati da professionista. Resterà così uno dei più grandi talenti inespressi del football mondiale di tutti i tempi.
Uno dei luoghi comuni che gravitano attorno al calcio, è ripetersi quanto la televisione abbia ucciso quella visione romantica del football di una volta. Le partite raccontate dalla radio gracchiante, giocate solo immaginate ma per questo pervase ancor di più da un alone mitico, il bianco e nero, l’attesa della domenica sera per qualche fugace minuto di immagini. Ora, tra telecamere ad alta definizione e piazzate praticamente dappertutto, spogliatoi compresi, la fruizione casalinga del calcio è un’esperienza a 360 gradi, che ha perso però il fascino d’un tempo, finendo per giunta in alcuni casi (l’Italia ne è uno degli esempi più lampanti) per svuotare gli stadi.
Ma ogni medaglia ha sempre due facce, ed oltre alla comodità dell’HD e del calcio 24 ore su 24, la tv ha anche regalato una percezione più reale di quanto accade sul campo; soprattutto, ha evitato equivoci del passato destinati addirittura ad entrare nella leggenda. Ne sanno qualcosa i tifosi della Roma, che nella primavera del 1970 subirono una singolare beffa a scoppio ritardato. Lo scenario è quello europeo: la squadra giallorossa di allora non è trascendentale, e paga soprattutto la mancanza di un vero bomber, con lo spagnolo Peirò che chiuderà il campionato da centravanti titolare con sole cinque marcature all’attivo. In Italia le delusioni saranno molte, e la squadra allora allenata da Helenio Herrera chiuderà mestamente decima, dopo diverse stagioni anche alle spalle degli eterni rivali della Lazio.
In Europa però la Roma suona un’altra musica: disputando la Coppa delle Coppe grazie al successo nella Coppa Italia del 1969, i giallorossi arrivano in semifinale eliminando in serie i nordirlandesi dell’Ards, gli olandesi del PSV Eindhoven ed i turchi del Goztepe. Il sorteggio tra le prime quattro sembra sorridere alla formazione del “mago” Herrera. Due delle grandi favorite per la vittoria finale, il Manchester City e lo Schalke 04, si scontrano fra di loro. Alla Roma toccano in sorte i polacchi del Gornik Zabrze, temibili ma meno quotati di tedeschi ed inglesi. All’andata all'”Olimpico“, però, il primo aprile del 1970, i giallorossi non riescono a passare: si chiude sull’uno a uno (Banas sorprende Ginulfi nel primo tempo, la Roma risponde nella ripresa con Salvori), ed il match di quindici giorni dopo in Polonia, a Katowice, assume contorni insidiosi. La Roma, con davanti la prospettiva della possibile prima finale europea della propria storia, sfodera però una prestazione di carattere, imponendo il pari al Gornik ai supplementari, grazie ad una rete siglata ad un minuto dalla fine da Scaratti. Si chiude sul 2-2, e all’epoca i calci di rigore non sono previsti.
E’ necessaria la ripetizione, una settimana dopo, sul campo neutro di Strasburgo. Ed è lì che la nostra storia assume contorni incredibili, soprattutto per chi è rimasto a Roma per seguire la partita trasmessa dalla RAI. Il match si risolve infatti con un nuovo pareggio: al gol polacco di Lubanski risponde Fabio Capello su calcio di rigore, si va di nuovo ai supplementari ma il risultato non cambia ancora. Non è prevista però un’ulteriore ripetizione, ma il lancio della monetina, consuetudine a quei tempi, seppur crudele, per decidere chi deve andare avanti in una manifestazione calcistica. L’Italia raggiunse così la finale degli Europei del 1968 eliminando l’URSS in semifinale, e proprio la Roma negli ottavi di quella edizione di Coppa delle Coppe si sbarazzò grazie al sorteggio del PSV Eindhoven.
I capitani si avvicinano al centro del campo, l’arbitrolancia la moneta, e la raccoglie. Sono attimi di tensione, in particolar modo per chi da Roma segue la diretta tv e vede arrivare dalla Francia immagini sfocate e poco chiare del sorteggio. Ma ad esultare, dopo che l’arbitro mostra la fatidica monetina, sono le maglie scure nel bianco e nero televisivo, ovvero quelle della Roma. Nei salotti della Capitale l’esultanza è sfrenata e dura per decine di secondi. Poi, piano piano, la voce del cronista che aveva lui stesso annunciato la festa delle maglie giallorosse, riporta tutti alla realtà: la moneta ha detto Gornik, saranno i polacchi ad affrontare il Manchester City in finale. Com’è possibile? Semplicemente, prima del sorteggio molti giocatori si erano scambiati la maglia: i calciatori con la divisa della Roma esultanti erano dunque in realtà quelli del Gornik. Una beffa atroce, e ancor di più lo è stata per i tifosi che, alla vista dei festeggiamenti giallorossi, hanno spento immediatamente il televisore per riversarsi in strada, a festeggiare il raggiungimento della finale. In un’epoca senza riscontri possibili con internet, televideo ed altri mezzi, fu il giornale del mattino a comunicare loro che la Roma, in verità, aveva perso…