Mark Strukelj e quel quinto rigore mai battuto: ad undici metri di distanza dal diventare eroe per caso

di Fabio Belli

Giocare una finale di Coppa dei Campioni per un calciatore può rappresentare l’apogeo di una carriera. Difficilmente ci si può passare per caso. Ma scorrendo il tabellino della finale dell’edizione 1984, quella che vide la Roma mancare in casa, per un solo rigore, un vero appuntamento con la storia, agli occhi dei non informatissimi salta sempre un nome, per così dire, “strano”. Nella formazione giallorossa infatti, tra un Graziani, un Conti, un Pruzzo ed un Tancredi, in sostituzione di uno sfinito Toninho Cerezo in quella sera del 31 Maggio fa il suo ingresso in campo Mark Tullio Strukelj. Mark nasce nel 1962 a Dorking, in Inghilterra, da padre triestino e madre inglese, per poi tornare a Trieste all’età di 2 anni. Nella Triestina compie tutta la trafila nel settore giovanile, prima di essere notato a soli 21 anni da Nils Liedholm, che lo vuole come rinforzo per la sua Roma appena laureatasi Campione d’Italia, nell’estate del 1983. Centrocampista dinamico e dal discreto piede, da qualcuno indicato addirittura compe possibile erede di Falcao, quella romana può essere l’esperienza decisiva della sua carriera. E invece…

In campionato le cose inizialmente non vanno malaccio, Strukelj colleziona undici presenze, realizzando a Pisa quello che resterà il suo unico gol in Serie A. Ma contro il Torino riporta la lussazione del tendine peroniero sinistro. Un infortunio complicato, e la stagione finisce di fatto per lui prematuramente, ma con un’appendice destinata a restare nella storia. La Roma avanza in Coppa dei Campioni, arrivando a giocarsi la finalissima. Liedholm è chiaro con Strukelj: “Accelera sui tempi di recupero, il 31 Maggio all’Olimpico avrò bisogno anche di te.”

E lui risponde presente, forzando per la prima volta per recuperare da infortunio, un’abitudine che si rivelerà fatale per la sua carriera. Vuoi però per i trascorsi anglo-triestini, vuoi per un’innata freddezza di carattere, nonostante la cornice ribollente di tifo, Strukelj mantiene una calma che i più blasonati colleghi si lasciano sfuggire, cedendo alla tensione. Con conseguenze massacranti per i muscoli nei supplementari: Liedholm se ne accorge e lo getta nella mischia, ma negli ultimi 5′ non accade nulla. Serviranno i rigori per assegnare la Coppa, e con l’incoscienza dei 20 anni, Strukelj corre dal “Barone” e chiede di poter essere inserito tra in cinque tiratori. Lo svedese si accorge del ghiaccio negli occhi del centrocampista, e gli affida il rigore potenzialmente più delicato: il quinto.

Nella mente di Strukelj, inevitabilmente, passa la scena in cui, calciando l’ultimo penalty, riesce a portare la Roma in cima all’Europa: un brivido che svanisce come in un sogno, anche se la cronaca di quella sera è assolutamente reale. Prima di lui Conti e Graziani mancano il bersaglio, e quel quinto rigore non sarà mai calciato, e per diverso tempo nessuno saprà neanche che sarebbe stato lui a doverlo battere. Quella sera davanti agli occhi di Strukelj non passa solo il treno della Coppa dei Campioni: simbolicamente, la sua carriera non decollerà più.

Si trasferisce in comproprietà al Pisa, in B, ma la caviglia cede, portata allo stremo dalle infiltrazioni. Le conseguenze sono terribili: sette operazioni chirurgiche alla gamba infortunata, due anni di inattività prima di passare all’Arezzo all’alba dei trent’anni. E chiuderla lì. Arriva a diventare quasi dipendente dagli antidolorifici, ma riuscirà a reinventarsi una carriera da allenatore, che l’ha riportato ora in Serie A, da secondo di Attilio Tesser al Novara. Perchè se è vero che certi treni passano una volta sola, è anche vero che nella vita non è mai troppo tardi per ricominciare.