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Calciatori Fabio Belli

Parigi 1998, Ronaldo vs Nesta: quando eravamo Re

di Fabio BELLI

“Quando eravamo re” è uno splendido documentario che racconta l’epopea del mitico scontro per il titolo dei pesi massimi di pugilato che avvenne a Kinshasha, nell’allora Zaire, tra Muhammad Alì e George Foreman. E chi ebbe la fortuna di assistere a quell’incontro, il 30 ottobre del 1974, sicuramente sapeva di ammirare due giganti della boxe ma non credeva certo di andare incontro ad un declino inarrestabile e di stare toccando un picco massimo.

Lo stesso è avvenuto nel calcio: nel 1998 a Parigi la finale di Coppa UEFA tra Inter e Lazio sembrava solo l’ennesimo capitolo di un dominio incontrastato a livello internazionale del calcio italiano. Dopo il 1990 (Juventus-Fiorentina), il 1991 (Inter-Roma) e il 1995 (Juventus-Parma), per la quarta volta in nove anni la finale della competizione era tutta italiana. In un decennio avevano raggiunto la finalissima di Coppa UEFA anche il Napoli (1989), il Torino (1992), la Juventus (1993) e ancora l’Inter (1994, 1997). Solo nella stagione 1995-96 (Bayern Monaco-Bordeaux) non ci furono italiane in finale in quel decennio. E in Coppa dei Campioni (che proprio in quegli anni diventava Champions League) la tendenza era la stessa, senza dimenticare la Coppa delle Coppe che si chiuse nel 1999 proprio con un successo della Lazio.

RonaldoNesta1A pensarci oggi, con le italiane che non arrivano in finale di Coppa UEFA (ora divenuta Europa League) da vent’anni, non ci si può credere. Quella sera i flash di Parigi, inconsapevoli di trovarsi di fronte al picco massimo di cui sopra, immortalarono un duello tra due campioni straordinari. Una partita nella partita: quella che vide il Fenomeno, Luis Nazario da Lima detto Ronaldo, sovrastare il miglior difensore della sua generazione, non solo a livello italiano, bensì mondiale, Alessandro Nesta. Entrambi inconsapevoli del futuro: nei mesi successivi sia il brasiliano sia l’azzurro andarono incontro a terrificanti incidenti che forse (nel caso di Ronaldo siamo alla certezza) ne compromisero le potenzialità future, ma non sbarrarono la strada ad un futuro pieno di straordinari successi.

Una sfida strana perché in realtà Nesta aveva vinto un primo round. In campionato, con entrambe le squadre impegnate nella rincorsa scudetto alla Juventus, la Lazio sovrastò l’Inter con un perentorio tre a zero. Ronaldo fu annullato, Nesta un gigante. Le due squadre erano in momenti di forma diametralmente opposti rispetto a quella notte di Parigi, ma l’accorgimento di Eriksson fu quello di affidare il controllo diretto del Fenomeno a Paolo Negro, che da terzino destro in quella stagione si trasformò in centrale di formidabile efficacia. Nesta, con movimenti da quello che in un calcio antico e affascinante sarebbe stato definito un “libero”, chiuse tutte le vie di fuga alternative al brasiliano, che fu così disinnescato.

Gigi Simoni, tecnico di quell’Inter straordinaria anche se poco vincente, non si lasciò scappare, da vecchia volpe qual era, l’accorgimento. E chiese aiuto a Ivan Zamorano, bomber velenoso e capace di far saltare qualsiasi raddoppio di marcatura. Fu lui a scardinare la difesa laziale dopo pochissimi minuti. Con la Lazio subito costretta ad inseguire, Ronaldo fu libero di affrontare un faccia a faccia con Nesta dal quale risultò trionfatore, grazie agli spazi moltiplicatisi di fronte a sé. Il centrale romano non rinunciò a battersi come un leone, ma l’ultimo gol, quello del definitivo tre a zero, siglato dal Fenomeno fu il sigillo alla serata che ebbe un solo vincitore, così come nella boxe.

La notte di Parigi si tinse di nerazzurro: Nesta aspettò un anno per consolarsi e diventare il primo capitano laziale ad alzare un trofeo europeo (anzi, due nel giro di quattro mesi con Coppa delle Coppe e Supercoppa Europea messe in bacheca a stretto giro di tempo). Quella rimase l’esibizione più bella di un Ronaldo che nei successivi tre anni fu massacrato dai problemi fisici, fino alla resurrezione del 2002 e alla Coppa del Mondo alzata da protagonista col Brasile, da capocannoniere e con doppietta in finale contro la Germania. La storia con l’Inter invece era già finita poche settimane prima, nel paradossale pomeriggio del 5 maggio. Ma quella, è proprio il caso di dirlo, è un’altra storia, di quando la fotografia dei re cominciava già a sbiadirsi.

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Allenatori Club Fabio Belli

La leggenda di Sir Alex Ferguson iniziò da Aberdeen

di Fabio BELLI

Sir Alex Ferguson si è congedato da Old Trafford nel 2013 facendo calare il sipario su una autentica leggenda per il Manchester United e il calcio inglese e internazionale in generale. L’ultima Premier League vinta è stato il tredicesimo titolo della Premier League portato a casa dall’allenatore e manager scozzese,che ha chiuso una carriera per certi versi impareggiabile, soprattutto considerando la longevità del suo mandato sulla panchina dei Red Devils.

Soccer - UEFA Cup Winners Cup - Final - Aberdeen v Real Madrid - Nya Ullevi Stadium, Goteborg, SwedenPrima di approdare in terra mancuniana però, e parliamo ormai del lontano 1986, Ferguson si era abbondantemente fatto le ossa in patria, arrivando anche a guidare la Scozia nei Mondiali messicani. In un campionato però da sempre dominato da Rangers e Celtic, le squadre di Glasgow eternamente ai vertici del football scozzese, gli anni ’80 fecero registrare gli ultimi successi di squadre al di fuori dell’Old Firm. Il Dundee United e soprattutto l’Aberdeen, che sotto la guida di Ferguson aprì un ciclo in Scozia e in Europa, straordinariamente vincente per un club di così piccole dimensioni.

Negli ultimi anni Aberdeen ha vissuto un periodo di rinascita culturale importante: terza città della Scozia per estensione e popolazione dopo la capitale Edimburgo e Glasgow, ha una media di iscritti all’università di gran lunga superiore a quella nazionale ed è animata da diverse iniziative culturali e, rarità per le frastagliate coste scozzesi, anche da una spiaggia punto di ritrovo per molti giovani. Ma quando il manager alle prime armi Ferguson vi approda, nel 1979, lo scenario è quello un po’ ruvido e grigio della provincia della Scozia che trova nel calcio occasioni di riscatto sociale. Opportunità abbastanza rare a dire il vero visto che fino ad allora in bacheca per l’Aberdeen c’erano solo due Coppe di Scozia ed il titolo del 1955.

Ferguson da calciatore aveva giocato nell’Aberdeen e conosceva bene l’ambiente e, soprattutto, sapeva perfettamente una cosa: per battere i colossi di Glasgow bisognava giocare d’anticipo, assicurandosi i migliori giocatori scozzesi prima che le loro quotazioni salissero alle stelle. E le scelte di Ferguson dimostrano la lungimiranza che lo contraddistinguerà anche nella quasi trentennale esperienza allo United. In porta, Jim Leighton che difenderà i pali della nazionale scozzese fin oltre i quarant’anni. In difesa, il roccioso Willie Miller, un mito dell’Aberdeen, 558 presenze in vent’anni in biancorosso. A centrocampo Alex McLeish davanti alla difesa e Gordon Strachan a fare gioco. Non è un caso che, con Ferguson come mentore, i quattro diventeranno tutti allenatori. Di sicuro c’è che nel 1980 l’Aberdeen vince, sotto la guida di Fergie, il suo secondo titolo scozzese al primo colpo ma il meglio, è proprio il caso di dirlo, deve ancora venire.

Grazie a Ferguson infatti, il nome di Aberdeen inizia a girare per l’Europa. Soprattutto, tra l’82 e l’84, la squadra delle Highlands vincerà tre Coppe nazionali di fila che spalancheranno le porte della Coppa delle Coppe. Nel 1983, l’anno più esaltante della storia dell’Aberdeen, la squadra ha trovato un equilibrio perfetto e fila dritta verso la finalissima di Goteborg contro il Real Madrid di Santillana, Stielike e Camacho. Partita a pronostico chiuso, tanto che i tifosi delle merengues in buona parte snobbano la trasferta scozzese, con lo stadio Ullevi per tre quarti riempito dai colori biancorossi. L’Aberdeen scende in campo con questa formazione: Leighton, Rougvie, McLeish, Miller, McMaster, Cooper, Strachan, Simpson, Weir, McGhee, Black. Una filastrocca che ogni tifoso di Aberdeen sa ancora ripetere a memoria.

Eh sì, perché dopo sette minuti Eric Black fa esplodere la festa scozzese portando subito in vantaggio i suoi. Il Real capisce che non si tratterà di una passeggiata e, pur trovando al quarto d’ora il pari grazie ad un rigore di Juanito, soffre la grinta e la concretezza scozzese, esaltata dalle rapide trame di gioco disegnate da Ferguson. Ma l’eroe della partita non fa parte dell’undici iniziale dell’Aberdeen. Si va ai supplementari e poco prima del fischio finale Ferguson getta nella mischia John Hewitt al posto di Black. Nel secondo overtime sarà lui a realizzare una rete che è ancora incastonata nella storia del calcio scozzese. Il potente Real Madrid è battuto, l’esultanza sugli spalti è sfrenata, l’Aberdeen dal freddo e grigio Nord della Scozia è catapultato nel caldo cuore d’Europa. Una potenza continentale, confermata dalla successiva vittoria nella Supercoppa Europea, contro l’Amburgo battuto 2-0 nel match di ritorno a Pittodrie, che permetterà di raggiungere il tetto d’Europa ai biancorossi. L’impresa più incredibile di Ferguson, pronto poi a scrivere la leggenda del Manchester United.

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Club Fabio Belli

La Lazio sul tetto d’Europa: quando lo United si inchinò alla new wave del calcio italiano

di Fabio Belli

E’ successo in una notte di fine agosto. In un certo senso è stato un viaggio lungo cento anni, anche se mancavano ancora circa quattro mesi per festeggiare quel prestigioso compleanno. Neanche quindici anni prima, quegli stessi tifosi avevano imboccato l’autostrada in direzione opposta, verso Napoli, per scacciare un incubo chiamato Serie C/1 che, quasi sicuramente, avrebbe significato fallimento. Ora il viaggio verso Nord significava invece sfida ai Campioni d’Europa, dopo che per la prima volta, vinta la finale di una coppa europea, era stata la bandiera della Lazio a sventolare mentre gli altoparlanti a Birmingham sparavano a tutto volume “We Are The Champions” dei Queen.

uid_126126ad777.580.0Una scena familiare per tanti padri e bambini davanti alla tv, che guardando le finali del passato chiedevano ai genitori: “Un giorno ci saremo anche noi?”. Quel sogno era diventato realtà nell’ultima Coppa delle Coppe mai disputata, uno sprazzo finale di un calcio romantico che non c’è più. Il viaggio verso Montecarlo era invece la proiezione verso un futuro che in Italia aveva visto salire alla gloria europea squadre storicamente fuori dalla nobiltà del calcio continentale. Il Parma delle due Coppe UEFA, della Coppa delle Coppe e della Supercoppa. La Sampdoria che a sua volta aveva trionfato in Coppa Coppe a cavallo di tre finali perse, compresa una Champions League che sarebbe entrata nella storia. Il Napoli di Maradona che aprì questo ciclo con la Coppa UEFA del 1989, la Fiorentina finalista nel 1990 e le semifinali europee conquistate da Atalanta, Vicenza, Bologna. Altri tempi, tempi stellari per il calcio italiano, e quel Manchester United-Lazio chiuse un ciclo per certi versi irripetibile.

I Red Devils venivano da una delle più folli, romanzesche vittorie della storia del calcio. Sotto 0-1 a partita finita nella finalissima di Champions, ribaltarono nel recupero il risultato contro un Bayern Monaco che già si sentiva campione, a oltre venti anni di distanza dalle imprese della squadra di Franz Beckenbauer. Sir Alex Ferguson aveva portato a compimento un cammino iniziato nell’estate del 1986, eguagliando finalmente il mito di Matt Busby e George Best. E quella sera a Montecarlo, la Lazio si trovò di fronte al gigante Jaap Stam in difesa, i fratelli Gary e Phil Neville, David Beckham, Roy Keane e Paul Scholes (una linea mediana entrata di diritto nella storia del calcio), e ancora la potenza di Andy Cole e l’eroe di Champions, Teddy Sheringham. C’erano tutti gli invincibili, solo Ryan Giggs rimase in panchina.

Ma dall’altra parte gli avversari, guidati in panchina da Sven Goran Eriksson, si chiamavano Alessandro Nesta, Pavel Nedved, Sinisa Mihajlovic, Juan Sebastian Veron, Dejan Stankovic, Roberto Mancini e Marcelo Salas. Sergio Cragnotti aveva allestito una squadra che portava sempre l’aquila sul petto, ma non era più la Lazio del passato. Approssimativa, arruffona, fatta di macchiette e personaggi improbabili, per quanto entrati nei cuori dei tifosi. Era una grande d’Europa, pronta ad affrontare a testa alta i più grandi del momento. E qualcosa accadde, quando il cileno Salas trovò il gol, subentrato a Simone Inzaghi messo ko dall’irruenza di Stam, quando Pippo Pancaro annullò la fantasia di Beckham, quando Marchegiani volò per sventare il pareggio, quando Roberto Mancini poté godersi la più prestigiosa passerella della sua carriera: in parte un risarcimento di quello che sette anni prima gli era sfuggito a Wembley, in maglia blucerchiata.

E così per quella sera, anche i Campioni d’Europa si dovettero inchinare alla Lazio, che si ritrovò sul trono dopo una rincorsa lunga un secolo. In quella stagione, della quale la Supercoppa Europea fu il primo atto ufficiale per i biancocelesti, arrivò uno scudetto più sudato, sentito e vissuto dai tifosi di una finale secca, per quanto suggestiva contro lo United re del continente. Ma quella resta la serata di maggior prestigio e notorietà internazionale della storia della Lazio e di tutta la new wave del calcio italiano, che visse un decennio in cui, se ti chiamavi Vicenza, Atalanta o Bologna, potevi sognare concretamente, prima o poi, di alzare un trofeo al cielo. E se ti chiamavi Parma, Lazio o Samp ne potevi quasi avere la certezza.