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Club Fabio Belli

Il West Ham degli anni ’60 e i gradini di Wembley

di Fabio Belli

Il calcio a Londra ha mille anime. Rivalità centenarie come quella tra Spurs e Gunners, vecchia e nuova aristocrazia come quella di Queens Park Rangers e Chelsea, realtà passate attraverso mille trasformazioni come il Crystal Palace. Ma ce ne sono altre più fortemente legate alla tradizione che, pur vantando una bacheca decisamente meno ricca di quella delle concorrenti, hanno accumulato un fascino destinato a non tramontare mai. Quella del West Ham è una storia legata a doppio filo agli anni d’oro del calcio inglese e al suo tempio per eccellenza: Wembley.

hammersIl West Ham non ha mai vinto il campionato: ha davvero lottato per il titolo in una sola occasione, nella stagione 1985/86. Fu l’apice del periodo, durato quindici anni, sotto la guida di John Lyall, con Tony Cottee in attacco ed Alan Devonshire a centrocampo a fare da leader in un gruppo partito dalla Seconda Divisione, ma ricco di talento. Alla fine, la vittoria sfumò nella tiratissima volata a tre con Liverpool ed Everton. Tuttavia, qualsiasi tifoso Hammers che si rispetti, identificherebbe l’epoca d’oro del club a cavallo degli anni sessanta, quando il West Ham era guidato da autentici campioni, e soprattutto formava la spina dorsale della Nazionale inglese più forte di sempre.

Era la squadra allenata da Ron Greenwood, maestro della panchina in grado di far sbocciare i talenti del sempre floridissimo settore giovanile degli Hammers. Non per niente uno dei soprannomi più noti del club è “The Academy“, per la sua capacità di portare alla ribalta giovani assi del football. Tra il 1958 ed il 1959, tra di essi emersero tre grandi protagonisti della finale vinta dall’Inghilterra contro la Germania Ovest nella finale del Mondiale giocato in casa nel 1966. Bobby Moore, il capitano, difensore capace di coniugare grinta ed eleganza; Martin Peters, implacabile incursore di centrocampo; ed il bomber Geoff Hurst, l’autore della storica tripletta di Wembley, e soprattutto del celeberrimo gol fantasma che spezzò l’equilibrio nei supplementari contro i tedeschi, in una delle finali rimaste nella storia del calcio.

Moore, Peters ed Hurst: un trio che per tre anni consecutivi fece la storia del West Ham e dell’Inghilterra, salendo per tre volte consecutive i gradini di Wembley per una premiazione. Nel 1964, quando la FA Cup finì per la prima volta tra le mani degli Hammers grazie al gol di Ronny Boyce a 5′ dalla fine del match, tiratissimo, contro il Preston North End. Nel 1965, quando nella finale di Coppa delle Coppe giocata a Londra, la doppietta di Alan Sealey regalò il primo alloro europeo al West Ham, nel 2-0 al Monaco 1860. In entrambi i casi, fu Bobby Moore ad alzare il trofeo, ma l’anno successivo per il capitano arrivò l’emozione più grande, visto che ricevette dalle mani della Regina Elisabetta la Coppa Rimet, quando fu lui con i suoi compagni Hammers, oltre a tutta l’Inghilterra, ad issarsi sul tetto del mondo. Oltre alla tripletta di Hurst che fece impazzire Wembley e tutto il Paese, infatti, fu Martin Peters a siglare l’altra marcatura nel 4-2 finale in favore dell’Inghilterra. Anni irripetibili, quando pensare West Ham significava dire mondo.

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Fabio Belli Football Mystery: la webserie

Football Mystery 3×01: l’ineffabile Bakhramov

di Fabio BELLI

Il terzo ciclo dei racconti di Football Mystery parte con quello che viene ricordato, probabilmente, come il gol fantasma più famoso della storia del calcio. Quello che decise il Mondiale del 1966, l’unico vinto dagli inventori del football, gli inglesi. Lo segnò il gioiello della West Ham Academy Geoffrey Hurst, ma la decisione che cambiò la storia di una Coppa del Mondo la prese un guardalinee azero: l’ineffabile Bakhramov.

I FATTI

Il 30 luglio del 1966 a Wembley Inghilterra e Germania Ovest si giocano il titolo. Gli inglesi hanno la spinta del pubblico di casa, ma anche la responsabilità di non deludere una nazione intera. E i tedeschi hanno evitato la sconfitta all’89’ con un gol di Weber, che ha portato la partita ai supplementari. 2-2 al 90′, l’Inghilterra vede all’orizzonte il rischio di una beffa come quella che ha schiantato i brasiliani nel 1950. La storia la cambia una bordata di un superbo centravanti, Hurst, col pallone che sbatte sulla traversa e rimbalza sulla linea. Dentro o fuori? Da 53 anni non c’è una risposta certa a questa domanda, ed è qui che entra in gioco il nostro protagonista: Tofiq Bakhramov.

IL PERSONAGGIO

Quando il pallone va a sbattere sulla traversa e poi sulla linea, tenendo col fiato sospeso i 100.000 di Wembley e, contestualmente, tutta l’Inghilterra e la Germania, l’arbitro della finalissima non è nella posizione migliore per capire. Si tratta dello svizzero Dienst, che immediatamente va a interloquire con il guardalinee meglio posizionato. Si tratta di Bakhramov, azero di
nascita ma sovietico di rappresentanza ai Mondiali del 1966. Passano alcuni interminabili secondi, ne nasce un dialogo paradossale con Dienst che parla solo tedesco e un po’ d’inglese, l’azero oltre alla lingua madre mastica il russo. Ma quello del calcio è un linguaggio universale e Bakhramov, come dimostrerà nel seguito della sua carriera arrivando a diventare segretario della federazione dell’Azerbaigian, ha un talento naturale per la diplomazia e sa prendere la decisione giusta al momento giusto. E’ gol! E l’Inghilterra sarà campione.

LE ACCUSE

Le voci si sprecheranno. I tedeschi accusarono Bakhramov di aver deciso per vendicare l’Unione Sovietica eliminata in semifinale proprio dalla Germania Ovest anche a causa della discussa espulsione, da parte dell’arbitro italiano Concetto Lo Bello. Inoltre, seppur i replay dell’epoca non chiarissero la situazione, i tedeschi lamentavano il fatto che una nuvola di gesso si fosse alzata al momento del rimbalzo della sfera prova inequivocabile che aveva toccato, e quindi non varcato completamente, la linea. Di sicuro l’esperienza non mancava a Bakhramov che non era neanche guardalinee, ma già arbitro Nazionale del 1964. Quella decisione lo rese l’azero più influente nella storia del calcio, tanto che oggi lo stadio della capitale Baku è dedicato a lui. Ma il pallone era entrato o no?

LE CONCLUSIONI

Come detto, la certezza assoluta ancora non c’è, anche se si propende quasi all’unanimità per il no. Nel 1995 uno studio dell’università di Oxford, il più approfondito sulla questione, stabilì con l’aiuto dei computer e della tecnologia come il pallone non avesse varcato completamente la linea. Bakhramov spiegò sempre di aver visto il pallone toccare la rete e non la traversa e poi rimbalzare dentro e di non essersi dunque mai posto il problema se la sfera avesse superato o meno la fatidica linea. Una spiegazione da maestro di diplomazia, sicuramente furba, sicuramente coerente con un personaggio che con una sola decisione ebbe la freddezza di indirizzare un intero Mondiale di calcio, tanto da essere ricordato da tutti col soprannome di “ineffabile” a decenni di distanza.

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Calciatori Fabio Belli

Liam Brady: il “calciatore intelligente”

di Fabio BELLI

Il concetto di “calciatore intelligente” è stato sviscerato negli anni spesso in un’unica direzione: ovvero, il giocatore a volte impegnato fuori dal campo, capace di esprimere concetti fuori dal coro, genio e sregolatezza che spesso si riflettevano però sul campo con prestazioni non sempre all’altezza della situazione. Per calciatore intelligente, però, si può anche intendere un termine squisitamente tecnico. Ovvero, il classico faro capace di guidare e leggere il gioco con quell’anticipo indispensabile per prendere in controtempo gli avversari. Tra i più intelligenti di sempre, in questo senso, l’irlandese Liam Brady può ritagliarsi un posto di tutto rispetto.

Aria distinta, forse anche leggermente snob, per tutta la seconda metà degli anni ’70 Brady è stato l’orgoglio dei tifosi dell’Arsenal, proprio per quella qualità superiore, le capacità di tiro e di regia del suo vellutato piede sinistro, che spiccavano in una squadra che, fino all’avvento di Arsene Wenger, era additata come sparagnina ed operaia (il “boring Arsenal nei cori di dileggio dei tifosi avversari). Brady era l’esempio che anche i Gunners potevano avere tra le loro fila un centrocampista raffinato, di dimensione europea, anche se la sua epopea a Londra Nord si esaurì con una FA Cup vinta nel 1979 e la grande delusione della finale di Coppa delle Coppe perduta l’anno successivo contro il Valencia.

Partito capellone, Brady vide la sua fronte perdere progressivamente la chioma nel corso della carriera da calciatore. “Gioca troppo a testa alta e prende troppa aria“, ridacchiavano bonariamente sulle tribune di Highbury i tifosi, in realtà omaggiando la sua grande eleganza palla al piede. Risero meno quando, alla riapertura delle frontiere nel campionato italiano, tra gli stranieri d’importazione il nome di Brady spiccò nella rosa della Juventus che puntò su di lui per garantirsi una solida e raffinata regia a centrocampo, dopo aver perso gli ultimi due assalti allo scudetto. Dopo 235 presenze e 43 gol in sette stagioni nella massima serie inglese, Brady lasciò l’Arsenal fra le lacrime di commozione dei tifosi.

L’ambientamento a Torino fu parecchio complicato, il suo stile per la rocciosa squadra allora allenata da Giovanni Trapattoni era forse troppo compassato per gli aspri ritmi della Serie A. A rimetterlo in riga ci pensò Beppe Furino, il “quattropolmoni” dei bianconeri che non aveva la classe del sinistro di Brady ma che, correndo a centrocampo anche per lui, non aveva problemi riguardo troppi palloni persi e scarso impegno. La musica cambiò già nella seconda metà del campionato 1980/81, conquistato dalla Juventus dopo una lunga sfida a distanza con Roma e Napoli. Il duello più emozionante fu quello dell’anno successivo contro la Fiorentina di Picchio De Sisti in panchina e Giancarlo Antognoni in campo. Le due squadre arrivarono a pari punti all’ultima giornata, in vetta alla classifica: ma mente i viola pareggiarono a Cagliari, la Juventus espugnò il “Ceravolo” di Catanzaro grazie ad un rigore trasformato da Brady con una proverbiale freddezza che i tifosi bianconeri ancora ricordano.

Vinto il secondo scudetto di fila, l’avvocato Agnelli lo sacrificò sull’altare dell’arrivo a Torino di Michel Platini. Brady non fece una piega, passando a dettare i tempi del gioco, sempre a testa alta, a Genova sponda Samp. In Italia si trovò bene, l’Inter lo pagò tre miliardi e mezzo per affidargli le chiavi del centrocampo ma arrivò solo a sfiorare per due anni consecutivi la finale di Coppa UEFA. Quindi, complice qualche acciacco, un passaggio all’Ascoli, allora provinciale di lusso. Nel 1987 decise di tornare in Inghilterra per chiudere la carriera e qualche tifoso dell’Arsenal sperò in un suo ritorno ma la sua scelta cadde sul West Ham: troppo intelligente, Brady, per non capire che le minestre riscaldate difficilmente riescono saporite.

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Club Fabio Belli

Blackburn Rovers, ovvero: Tim Sherwood meglio di Zidane

di Fabio Belli

In molti ritengono che le radici del calcio moderno, così come quelle del calcio antico, abbiano origine in Inghilterra. Di sicuro il football d’oltremanica, all’inizio degli anni novanta, è stato il primo che ha saputo riformarsi e trasformarsi in una vera e propria macchina da soldi: parliamo di ricavi, e non i miliardi investiti dai tanti che hanno usato il pallone come vetrina o, perché no, anche come sfizio personale. E non è un caso che a vincere nell’ultimo anno della vecchia Football League sia stato il Leeds United: il passaggio di Eric Cantona dallo Yorkshire agli odiati rivali del Manchester United, e con esso anche lo scettro di squadra padrona d’Inghilterra, ha rappresentato un vero e proprio cambio di epoca.

A quelli a cui il calcio moderno non piace, viene facile individuare questo momento come quello della morte dei tempi più romantici e avventurosi del football. Eppure, anche nel rigidissimo scacchiere della Premier League, dal 1993 ad oggi vinta da sole quattro squadre, due di Londra (Arsenal e Chelsea) e due di Manchester (United e City), c’è stata l’eccezione che conferma la regola. E di eccezione si può parlare a tutti gli effetti, visto che negli ultimi 25 anni i titoli nazionali dei campionati di primo livello, quando non sono finiti tra le mani di grandi canoniche, hanno premiato club che avevano effettuato investimenti enormi sulla loro crescita. Lazio e Roma in Italia, ma anche Deportivo La Coruna e Valencia in Spagna, oppure il Wolfsburg in Germania, sono squadre arrivate al titolo allestendo formazioni con fior di campioni, e potendo contare su una potenza economica non indifferente.

Agli occhi di oggi appare incredibile quindi che nel 1995 il titolo sia stato festeggiato dal Blackburn Rovers: espressione di una cittadina di appena centomila abitanti nel cuore del Lancashire, e club passato alla storia per aver posto le basi della nascita del “sistema”, proponendo un 2-3-5 chiamato fantasiosamente “Piramide di Cambridge”. Piccolo particolare, era il 1893: anni ruggenti del calcio inglese, nei quali il Blackburn aggiunse a cinque FA Cup conquistate prima dell’avvento del ventesimo secolo, anche due titoli d’Inghilterra datati 1911 e… 1914. Ritrovare ottantun anni dopo ai vertici del calcio i Rovers non era certo nei piani degli ideatori della ricchissima Premier League, ma quella del 1995 fu una squadra che fece della normalità un lusso.

Nel 1992 il Blackburn si era classificato sesto in seconda divisione: la promozione nella neonata Premier arrivò grazie ad una vittoria da outsider assoluta nei play off. Ma quella squadra era pronta ad esplodere: dal Chelsea arrivò in prestito un diavolo della fascia, feroce progressista e mente geniale, Graeme Le Saux. In attacco, il club aveva speso cinque milioni di sterline per affiancare ad Alan Shearer il quotatissimo Tim Sutton del Norwich City, e alle loro spalle c’era il fantasioso Tim Sherwood, nel quale Kenny Dalglish in panchina riponeva una fiducia cieca. Tanto che per puntare su di lui, il club evitò la stagione successiva al titolo di versare quattro milioni di sterline nelle casse del Bordeaux per un certo… Zinedine Zidane. Roba che probabilmente avrebbero spedito nel Lancashire dalla Francia anche una cassa di vini omaggio per chiudere l’affare.

Tornando alla stagione del titolo, dietro alle imprese del Blackburn c’era il magnate dell’acciaio Jack Walker, tutt’altro che un Berlusconi per l’epoca, soprattutto rispetto alle grandi che spendevano e spandevano, Manchester United in testa. Ferguson diede una bella ripassata a Dalglish sia all’andata che al ritorno, ma contro le cosiddette piccole il Blackburn non perdeva un colpo né in casa né in trasferta. Era la normalità al potere: Alan Shearer segnava come nessun altro in Europa (chiuse il campionato con 34 reti!), e nelle interviste indicava salsicce e fagioli come suo piatto preferito. Era una squadra che non faceva sognare nessuno, tranne i suoi tifosi e i migliaia di simpatizzanti che in Europa ne seguivano l’impassibile scalata.

All’ultima giornata, i Rovers avevano 2 punti di vantaggio sullo United, e dovevano giocare ad Anfield contro il Liverpool. Lo United andava sul campo del West Ham con la certezza di vincere il titolo in caso di arrivo a pari punti, per la migliore differenza reti. Gli Hammers passarono in vantaggio mentre Shearer buttava nel sacco il suo ultimo pallone della stagione. Un lieto fine annunciato? Macché: il Manchester United prese a dominare contro un West Ham senza più obiettivi in campionato, e pareggiò facilmente, bombardando letteralmente il portiere avversario Miklosko, mentre Barnes e Redknapp (al 93′) ribaltano la situazione a Liverpool. I tifosi del Blackburn impallidiscono, mentre la tv inglese negli ultimi 30 secondi tiene la telecamera fissa su Kenny Dalglish, che appare quasi rassegnato a ricevere la notizia più temuta: grazie a Miklosko la beffa però non arriverà mai, e dopo aver assaggiato cos’era un vero thriller, i super-normali festeggiarono un titolo atteso 81 anni. Incredibile ma vero: e con Zidane la storia probabilmente sarebbe continuata, ma in fondo in un angolo del Lancashire sanno bene che non sono loro ad essersi persi Zizou, ma il resto del mondo a non aver ammirato da vicino Tim Sherwood al massimo della sua forma.

 

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

1966: Inghilterra-Germania Ovest 4-2 dts. Alf Ramsey, un tempo per lavorare, un tempo per riposare.

di Fabio Belli

“Signori, non ho molto da dirvi, se non anticiparvi che l’Inghilterra vincerà la prossima Coppa del Mondo. E adesso lasciatemi lavorare”. I giornalisti presenti alla conferenza stampa di presentazione in cui Alf Ramsey, allora ovviamente non ancora “sir”, si svelava come nuovo CT dell’Inghilterra, capirono da quella ventina di parole che nulla sarebbe stato più come prima. Legata alle sue tradizioni già centenarie nel football, l’Inghilterra sembrava però inchiodata al suo passato: i britannici continuavano a ripetersi di essere i più forti, e gli altri vincevano. La storia doveva cambiare, e chi come Ramsey poteva capirlo, visto che era in campo il giorno dell’umiliazione per eccellenza del calcio inglese, quando la Nazionale di Sua Maestà venne battuta nei Mondiali brasiliani del 1950 dai dilettanti statunitensi?

L'Inghilterra sfata un tabù centenario e sale sul tetto del mondo
L’Inghilterra sfata un tabù centenario e sale sul tetto del mondo

Il viaggio iniziò il giorno di quella conferenza stampa nel 1963, e terminò idealmente quel 30 luglio del 1966 a Wembley. Per presentarsi sotto gli occhi della Regina a giocare nella finale dei Mondiali in casa, Ramsey aveva messo in soffitta il WM del suo storico predecessore, Michael Winterbottom, e un rigido protocollo che vedeva i calciatori della Nazionale scelti dalla Football Association. Decisioni che scatenarono non poche polemiche nell’ultraconservatore ambiente inglese, ma ciò che contava era il risultato finale. L’Inghilterra era lì, e di fronte aveva l’avversario forse più stimolante possibile, quella Germania Ovest che evocava nei sudditi d’Albione slanci patriottici mica da ridere.

Sir Alf Ramsey
Sir Alf Ramsey

C’è da dire che la cifra tecnica del Mondiale fu nettamente superiore a quella della rassegna cilena di quattro anni prima. La Corea del Nord dimostrò a tutti (e a salatissime spese dell’Italia, com’è noto) che c’era un “terzo mondo” calcistico pronto ad affacciarsi sulla scena. Il Portogallo mise in scena un ideale passaggio di consegne, seppur temporaneo, tra Pelé (di nuovo massacrato dagli infortuni) ed un Brasile costretto a lasciare il torneo al primo turno, ed Eusebio, il fenomenale talento del Benfica. L’Urss fece sfoggio di un calcio atletico ammirevole e del solito, formidabile Lev Jašin. Ma fu opinione comune che a giocarsi il titolo arrivarono le squadre migliori. I padroni di casa sfruttarono il fattore campo soprattutto nei quarti di finale contro l’Argentina, mandata a casa da un gol di Geoffrey Hurst e da un clima intimidatorio, che si chiuse col memorabile epiteto di “Animals!” lanciato da Ramsey alla delegazione albiceleste. L’ossatura della squadra era composta dai talenti dell’”Academy” del West Ham Hurts, Moore e Peters, e dagli assi del Manchester United, Bobby Charlton e l’indemoniato mediano Nobby Stiles. La Germania Ovest giocava già un calcio rapido e moderno, guidata da un giovane centrale di centrocampo che andava a comporre una affascinantissima sfida delle sfide con Bobby Charlton nella finale: Franz Beckenbauer.

Con queste premesse, lo spettacolo non poteva certo latitare. Di solito bravi a rimontare, i tedeschi occidentali colpiscono per primi con Helmut Haller, ma subiscono quasi subito il pareggio del solito Hurst. I capovolgimenti di fronte sono tanti, ma i due protagonisti più attesi, Charlton e Beckenbauer, sentono l’affanno della tensione. Quando Peters a meno di un quarto d’ora dalla fine firma il sorpasso, Wembley è in delirio. Ma, è una banalità dirlo nel calcio, guai a dare per morti i tedeschi: allo scadere un tiro-cross di Siggi Held prende una traiettoria folle, con Gordon Banks in porta sbilanciato dai tanti “lisci” in area di rigore: l’ultimo che può arrivare sul pallone, allungandosi, è Weber, e ce la fa: 2-2 e supplementari dopo trentadue anni in una finale dei Mondiali.

E’ qui che Alf Ramsey mette il suo valore aggiunto: la sua rudezza e la sua imperturbabilità sono fondamentali in un momento in cui alla sua squadra potrebbe crollare il mondo addosso. “Li avevamo battuti, vuol dire che possiamo batterli ancora. Adesso”. Sono le parole che servono: le squadre sono stanche alla stessa maniera, ma l’Inghilterra riparte da uno 0-0 ideale che gli fa sfruttare la spinta forsennata di Wembley. Un “bomba” di Hurst, fenomenale nello stoppare, girarsi e tirare, si stampa sulla traversa, e sbatte sulla linea di porta: è gol? A quasi 50 anni di distanza se ne discute ancora. Le immagini tramandate non sono chiare, l’impressione è del gol, ma da un’altra angolatura il dubbio rimane. Il guardalinee Bakhramov, investito di una responsabilità enorme, professa sicurezza. E’ gol, e la storia non può più cambiare, anzi arriva il sigillo sempre di Hurst, che firma la sua tripletta. Il proverbiale aplomb inglese lascia spazio ad una festa che verrà tramandata di generazione in generazione, nei racconti di chi c’era, mentre la Regina consegna la Coppa Rimet nelle mani di Bobby Moore.

Il giorno dopo, di passaggio alla BBC Ramsey incrocia due giornalisti. Non sono due qualunque, ma gli unici che lo hanno difeso con editoriali di fuoco, quando il resto del paese gridava al sacrilegio per la profanazione del metodo-Winterbottom. “Alf… ce l’abbiamo fatta!” dissero avanzando a braccia spalancate verso il tecnico, che nel rispondere fu ancora più stringato che nel giorno della sua prima conferenza stampa: “E’ il mio giorno libero, non ho niente da dirvi”. In pratica, da “lasciatemi lavorare”, a “lasciatemi riposare”: ogni cosa a suo tempo, e caratteraccio a parte, per gli inglesi l’importante fu che Ramsey capì che era arrivato il momento di diventare campioni nei fatti, e non solo a parole.

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Club Fabio Belli

Monaco 1860: inseguendo la storia, scappando dal passato

di Fabio Belli

– “Papà, quando è stata l’ultima volta in cui il Monaco 1860 ha vinto il derby?”
– “Non so figliolo, dovresti chiedere al nonno!”
Umorismo tedesco. Magari non il massimo della commedia, ma le barzellette e gli sfottò sul calcio esistono a tutte le latitudini, e questa freddura a Monaco di Baviera è circolata per molti anni tra i tifosi del Bayern, per infierire sui cugini meno vincenti, con i quali va in scena l’acceso derby locale. Per la precisione, il digiuno per i “leoni della Baviera” è durato dal 12 novembre del 1977 al 27 novembre del 1999, esattamente ventidue anni interrotti dalla bordata di Thomas Riedl all’Olympiastadion di Monaco. Una vittoria che coincise con l’ultima età dell’oro nel club, quando il quarto posto nella stagione 1999/00 in Bundesliga, raggiunto grazie ai lampi di classe di un ispirato Thomas Hassler a fine carriera, valse la prima e finora unica qualificazione nella moderna Champions League.

Schermata 2013-09-11 alle 01.05.48Un’avventura che terminò già nel turno preliminare al cospetto degli inglesi del Leeds United, ma nessuno come i tifosi del Monaco 1860 sa quanto sia importante esserci, prima ancora che vincere. Un retaggio figlio non degli insegnamenti decoubertiniani, bensì di una storia tormentata, fatta di cadute, resurrezioni e sofferenze più o meno costanti all’ombra dei cugini del Bayern, capaci di dominare la scena nazionale e molto spesso anche quella internazionale. E dire che prima della Seconda Guerra Mondiale, il Monaco 1860 era squadra di primo livello, soprattutto vicina al cuore e ai pensieri dei gerarchi nazisti. Una commistione che creerà nell’immediato dopoguerra non pochi imbarazzi al club, e che lo porterà di fatto ad eliminare i riferimenti al periodo anteguerra nelle sue biografie.

Il Bayern iniziò ad erodere consensi a quella che era considerata la squadra degli abitanti del cuore di Monaco. Ma negli anni sessanta, quasi contemporaneamente alla nascita della Bundesliga, il Monaco 1860 visse il suo periodo più felice sotto la guida del tecnico austriaco Max Merkel. Nel 1964 il club vinse la Coppa di Germania, nel 1965 perse la finale di Coppa delle Coppe contro gli inglesi del West Ham, mentre nel 1966 conquistò il suo primo e finora unico Meisterschale, il titolo di campione di Germania. Con l’avventura in Coppa dei Campioni conclusasi al cospetto del Real Madrid, il Monaco 1860 vede però spegnersi la sua stella in favore di quella dei rivali cittadini, che negli anni settanta diverranno dominatori del calcio mondiale.

E il peggio doveva ancora venire, visto che dopo il derby vinto nel 1977, il Monaco 1860 è costretto a ripartire addirittura dai campionati regionali: Il fallimento, un’ombra che viene spazzata via dall’avvento di Karl Heinz Wildmoser, ambiziosissimo presidente che riporterà la più antica squadra di Monaco in Bundesliga, e al tramonto degli anni novanta a rompere l’ultraventennale digiuno nei derby, e a respirare aria di Champions League a trentatré anni dal titolo.

Ma la storia del Monaco 1860 ha qualcosa di strano, diverso da tutti gli altri club. E ciò che per tutti all’alba del duemila è fonte di enormi guadagni, per i leoni di Baviera diventa la causa della rovina. Ovvero, la costruzione dello stadio di proprietà, l’Allianz Arena, che per i cugini del Bayern, con i loro centocinquantamila soci, è un investimento verso il futuro, mentre per il piccolo Monaco 1860 è un salto finanziario nel buio. E Wildmoser, nel frattempo affiancato dal figlio, si ritrova sommerso dai debiti. Nel 2004 il club prova addirittura a tornare a giocare nel catino dello storico Grundwalder Stadion, per la gioia dei tifosi, ma il passo indietro complica addirittura le cose. L’Allianz Arena non può essere abbandonata, ma i debiti ed i costi di gestione rischiano di schiacciare il club. Il secondo fallimento della storia viene evitato da un imprenditore giordano, Hasan Abdullah Ismaik, che entra a Monaco subito col piede di guerra perché la legge tedesca gli vieta di possedere, in quanto socio estero, il 51% del club. Ed i leoni del Monaco 1860, ormai da anni in Zweite Bundesliga, attendono di tornare a ruggire: il club ha perso tante battaglie in oltre 150 anni di storia (fondato come società podistica, iniziò l’attività calcistica nel 1899), ma la speranza mai.