La cerimonia di consegna del Pallone d’Oro nasconde spesso storie nelle storie che sono anche più interessanti del riconoscimento principale. Che da otto anni ormai è cosa di Cristiano Ronaldo e Leo Messi, e per quanto si possa essere d’accordo tecnicamente, è chiaro che la suspance è quella di una cena con delitto con Freddy Krueger tra gli invitati.
Più interessante allora concentrarsi sul Pallone d’Oro femminile, un universo in espansione che solo in Italia trova resistenze culturali insormontabili. A monopolizzare l’attenzione però stavolta è stato il “Puskas Award“, il premio consegnato per il più bel gol della stagione. Nel nostro paese questo riconoscimento ha avuto un richiamo supplementare visto che era l’unico per il quale c’era un italiano il lizza: Alessandro Florenzi, per la rete siglata in Champions League contro il Barcellona. La storia più interessante è stata però quella relativa al vincitore: gli appassionati, quando hanno distrattamente ascoltato il nome di Wendell, avranno pensato: “Ah, quello del Bayer Leverkusen! Che gol avrà mai fatto?” e saranno passati avanti.
Negativo. Il Wendell autore del più bel gol della stagione era in realtà tale Wendell Lira, ventisette anni compiuti da una settimana. E gioca nella Serie D brasiliana. Esatto, è un po’ come se il premio per il gol più bello dell’anno fosse stato assegnato dalla FIFA a Gianni Fabiano del Venezia, per fare un esempio. Una mezza girata spettacolare per il carneade brasiliano, che lui stesso ha definito a metà tra una rovesciata e un colpo di kung fu.
La partita in cui tale prodezza è stata compiuta era Goianesia-Atletico Goianiense, al quarto livello del calcio brasiliano. Wendell Lira ci è arrivato da ex talento del Goias, squadra principale della zona, ma non è riuscito a tenere fede alle sue promesse di giovane attaccante come se ne vedono fiorire a centinaia in Brasile. Un paio di gravi infortuni l’avevano anche relegato a lavorare nella caffetteria della mamma, fino all’offerta della Goianesia, e al gol dell’11 marzo scorso nel derby contro l’Atletico che gli ha cambiato la vita.
Lui però non lo sapeva ancora, visto che nel frattempo era salito di un livello, nella C brasiliana alla Tombense di Minas Gerais, arrivando però ben presto alla rescissione del contratto. Il Puskas Award ora potrebbe rappresentare davvero la svolta definitiva di una carriera tormentata. Nella caffetteria della mamma non hanno trattenuto le lacrime, la famiglia Lira si è ritrovata catapultata ai vertici del calcio mondiale da un giorno all’altro. E Wendell potrà giocare in Serie B, visto che per lui è arrivata un’offerta del Vila Nova, club della regione di Goiania militante nel campionato cadetto brasiliano. Come in tutte le favole, tutto è bene quel che finisce bene.
7 febbraio 1970: un turno di FA Cup come ce ne sono stati tanti, e come tanti ce ne saranno in futuro. Il Manchester United sicuramente in quegli anni ha vissuto sfide e storie più emozionanti: dalle ceneri del disastro aereo di Monaco, Matt Busby ha saputo costruire una squadra da leggenda, la prima capace di portare la Coppa dei Campioni in Inghilterra, la seconda in assoluto in Gran Bretagna dopo il Celtic. Una partita col Northampton Town, in un Old Trafford massacrato dal fango a causa del maltempo tipico dei primi giorni di febbraio, non ha esattamente il massimo dell’appeal.
Tuttavia, c’è il pubblico delle grandi occasioni a seguire i Red Devils. Il fascino della FA Cup che in Inghilterra è sempre forte, certo, ma c’è anche un’altra motivazione a spingere i tifosi. George Best, a poco più di un anno dal riconoscimento più ambito per un calciatore a livello individuale, il Pallone d’Oro, torna in campo da titolare dopo uno stop disciplinare di sei settimane. Disciplinare, esatto, ma non dovuto al giudice sportivo: è stato il club a fermare il numero sette nordirlandese, come sanzione per le sue continue intemperanze dentro e fuori dal campo.
E’ soprattutto in allenamento che Best riesce a dare il peggio (o il meglio, dipende dai punti di vista) di sé: si presenta in pelliccia o non si presenta proprio, ha l’indolenza di un pensionato al bar, e qualcuno ha anche riferito ai manager come abbia pagato i giocatori delle giovanili per guardarlo in performance all’interno dello spogliatoio con signorine di che sportivo non avevano poi molto. Gli eccessi di Best sono leggendari, e chi conosce la sua storia sa bene come lo porteranno ad una chiusura della carriera incredibilmente precoce, soprattutto se commisurata al talento a disposizione. Ne è consapevole lo stesso “Georgie”, che tuttavia non ha preso bene la sanzione in questione. Anzi, l’ha presa malissimo, come se il Manchester United, in cui Bobby Charlton contava come un dirigente, lo volesse sfruttare come capro espiatorio in seguito al caso fisiologico dopo i tanti trofei conquistati alla fine degli anni sessanta.
Bene, Manchester United-Northampton è forse una delle pochissime testimonianze sul campo di ciò che Best avrebbe potuto fare spingendo sempre sull’acceleratore sul campo, e mai nella vita. Il “sette” si presenta tirato a lucido al cospetto di un avversario modesto, ma quanti mediocri terzini in fondo erano riusciti ad annullare il talento di Best se in giornata no, soprattutto se reduce da una sbronza o da una fuga romantica con qualche miss da copertina? Ecco, quel 7 febbraio del 1970, esattamente 45 anni fa, il Northampton ebbe un assaggio del Best atleta: nulla a che vedere neppure col Best genio, che piegò il Benfica in Coppa dei Campioni dribblando tutti ma rinunciando a sdraiarsi sulla linea di porta e spingere il pallone in rete di testa “per non far venire un infarto a Busby”, come da lui stesso narrato.
Il risultato finale dirà: Manchester United-Northampton Town 6-0. Marcatori: Best, Best, Best, Best, Best, Best. Esatto, il Best inedito è quello che segna sei reti lottando su tutti i palloni, sfruttando tutti gli spazi e rinunciando a servire le valanghe di assist che regalavano gloria ai compagni, poi pronti subito a scaricarlo di fronte alle sue debolezze. Un gol per ogni settimana di sospensione: un altro paio se li mangia per puro egoismo, per il gusto di far vedere che certe partite, volendo, avrebbe potuto giocarle anche da solo. E al sesto pallone in fondo al sacco, Best abbraccia il palo esausto, al culmine di una perfomance irripetibile per chiunque altro: a osservarlo, l’esultanza si riduce in uno sguardo pieno di malinconia che si trasforma in un ghigno beffardo. La conferma, nella sua mente, che sei gol su un campo di calcio non valevano la felicità, e che non c’era motivo di avere rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato. Sei gol in una partita non erano quello che Best cercava dalla vita, ed è stata questa consapevolezza a renderlo unico.
128. La “finalina” per il terzo posto dei Mondiali è una strana bestia: in nessuna altra competizione sportiva il ko in semifinale lascia tanto amaro in bocca, e infatti alla vigilia nessuno sembra voglia giocare quella che appare come un’inutile passerella. Poi invece, in campo la sfida si riaccende, e almeno quella medaglia di bronzo si vuol provare ad afferrarla. Solitamente, chi arriva più scarico perde: accadde in tempi recenti a Bulgaria, Corea del Sud e Portogallo, già paghe della semifinale, è successo anche stavolta al Brasile, ma per motivi opposti. Dopo la più grande umiliazione di sempre per la Selecao, è arrivato un nuovo disastro di fronte agli orange alleggeriti dalla tensione della semifinale, e di nuovo micidiali in contropiede. L’immagine del portiere Cillessen seduto in stile giardini pubblici col supporto del palo, è indice di quel poco che è riuscito a creare il Brasile nelle due partite decisive, quelle che dovevano portarlo sulla strada dell’Hexa.
129. Non è stato “Maracanazo”, ma un’umiliazione ben diversa, che paradossalmente ha solleticato l’orgoglio della torcida, che per il senso del dramma tipicamente sudamericano, digerirà sempre meglio una profonda umiliazione che una sconfitta stile 1950, quando le mani erano già sulla coppa. E così al Maracanà, nonostante i tedeschi avessero inflitto loro la peggior sconfitta della storia, non ci sono stati dubbi. Il “nemico” era e restava l’Argentina, come testimoniato dal tifoso che non ha avuto paura di scatenarsi in mezzo agli “hinchas” dell’albiceleste.
130. L’Olanda ha piazzato un primato, facendo giocare tutti e 23 i convocati, prima squadra a mettere in atto una soluzione simile ai Mondiali. La squadra di Van Gaal partiva a fari spenti, l’impressione è che forse il bersaglio grosso si poteva afferrare più questa volta che 4 anni fa, quando la Spagna dava una sensazione di superiorità generale difficile da smentire. Ma un secondo e un terzo posto tra 2010 e 2014 dimostrano come la scuola dei Paesi Bassi sia sempre all’avanguardia. Da 40 anni il sogno è però sempre uno, e continua a sfuggire come una saponetta bagnata. Vedremo se dove non sono arrivati Cruijff, Van Basten e Robben, riusciranno finalmente ad arrivare i giovani fenomeni del futuro.
Germania – Argentina 1-0 dts
131. Come avviene ormai da Francia 1998, dire “ha vinto la squadra migliore” è consuetudine della finale. Dopo un secondo e due terzi posti, la Germania conquista il quarto titolo Mondiale, raggiungendo l’Italia e dando finalmente un senso a dodici anni di straordinaria continuità nella competizione. I tedeschi arrivavano in Brasile tra le favoritissime, ma hanno giocato un Mondiale un po’ col freno a mano tirato. Due strepitose prestazioni, contro il Portogallo (favorita però da un arbitraggio oltremodo severo con i lusitani) e soprattutto Brasile, la Partita della Storia di questo Mondiale, e un’eccellente prova contro la Francia. Ma il balbettare già visto contro Ghana ed Algeria si è ripetuto al cospetto degli argentini, in tre diverse occasioni capaci di graziare Neuer a tu per tu. Ha vinto quella che nell’ultimo decennio si è imposta come una scuola capace di arrivare sempre tra le prime quattro tra Mondiali ed Europei, dal 2006 in poi. Mancava la vittoria, ed è arrivata. Facendo cadere anche l’ultimo tabù: mai un’europea aveva vinto nel continente americano.
132. A decidere la partita, Mario Gotze, classe ’92, talento della new wave tedesca quest’anno passato dal Borussia Dortmund al Bayern Monaco, un po’ discontinuo, ma l’unico forse in grado di spezzare l’equilibrio che gli argentini avevano imposto al match. Ha deciso la partita su un assist di Schurrle, anche lui subentrato dalla panchina: segno che chi ha le alternative e le fa valere, spesso mette le mani sul piatto.
133. Dopo una stagione opaca nella Lazio, in molti pensavano che Miroslav Klose sarebbe stato un’alternativa di lusso per la Germania del “falso nueve” Muller. Invece il centravanti di origini polacche si è imposto da titolare, con la sua presenza come riferimento in avanti capace di far girare tutta la squadra. E’ arrivato anche il record di gol nei Mondiali, una storia fantastica se ci si pensa. Nel 2002, l’ultima finale giocata e persa dalla Germania, Klose era in campo. Quella partita fu vinta dal Brasile con doppietta di Ronaldo, lanciato a sua volta verso il sorpasso a Gerd Muller. Nel 2014, Klose si prende il primato come marcatore di tutti i tempi del Mondiale segnando il gol del sorpasso in semifinale al Brasile sotto gli occhi di Ronaldo… e in finale, conquista anche la Coppa, chiudendo un cerchio lungo dodici anni.
134. Non ci siamo dimenticati naturalmente di uno dei leit-motiv di questa rassegna iridata. Messi vs Maradona, un cavallo di battaglia che è venuto spontaneo cavalcare dopo l’eccellente girone eliminatorio disputato dalla “pulga”. Mai il quattro volte Pallone d’Oro aveva avuto un tale approccio ai Mondiali, e si era pensato che la prospettiva di riportare l’Argentina sul tetto del mondo nella tana del Brasile fosse troppo ghiotta per non sfruttarla. E invece, dopo la giocata ammazza-Svizzera nei supplementari degli ottavi, l’asso del Barcellona si è eclissato, sprecando il match-ball col Belgio, facendosi imbrigliare dalla gabbia di Van Gaal in semifinale, ed infine senza prendere per mano la squadra nell’appuntamento decisivo, con tanto di clamorosa occasione fallita a tu per tu con Neuer. L’occasione irripetibile è perduta: in Russia Messi potrà provare di nuovo, con ogni probabilità, a diventare campione del Mondo, ma difficilmente le porte dell’Olimpo, quello vero, dove solo cinque-sei calciatori sono stati finora ammessi, si apriranno per lui.
135. All’Argentina lo “scherzetto” di festeggiare al Maracanà non è riuscito davvero d’un soffio. Le occasioni mancate da Higuain, Messi e soprattutto Palacio agiteranno a lungo i sogni dei tifosi dell’albiceleste. Che si erano presentati dall’inizio dei Mondiali con questo irriverente coro verso i rivali di sempre: «Brasil, decime qué se siente; tener en casa a tu papá. Te juro que aunque pasen los años; nunca nos vamos a olvidar… Que el Diego te gambeteó, que Canni te vacunó; que estás llorando desde Italia hasta hoy. A Messi lo vas a ver, la Copa nos va a traer; Maradona es más grande que Pelé» (traduzione “Brasile, dimmi cosa senti ad avere in casa tuo papà / Ti giuro che anche se passano gli anni, non ci dimenticheremo mai / Che Diego ti ha dribblato, che Canni (Caniggia, ndr) ti ha infilzato, che stai piangendo da Italia ’90 / Ora vedrai Messi, la Coppa ci porterà, Maradona è più grande di Pelè“). Un tormentone che i giornali argentini hanno utilizzato anche dopo l’1-7 in semifinale: ovvio che dopo il gol di Gotze, sia arrivata la vendetta…
136. A proposito di tifo, cosa avrà mai fatto l’Argentina a Rihanna? In semifinale avevamo segnalato come la popstar si fosse schierata in favore degli olandesi, con un esperimento di photoshop riuscito solo in parte. I colori della bella cantante sono cambiati per la finale: presente al Maracanà, Rihanna ha tifato in maniera sfrenata per la Germania, con tanto di festeggiamenti finali con i giocatori. Difficile capire il perché, sono le stranezze della febbre-Mondiale.
137. Alla fine comunque, ha vinto questo signore qua. Grazie a tutti voi che avete seguito il “Contromondiale” di Storie Fuorigioco! Appuntamento in Russia, dai che tra 1419 giorni ci risiamo!
57. I Diavoli Rossi stanno vincendo e rispettando il pronostico della vigilia, ma a modo loro. Quello tra Belgio e Olanda è uno dei derby più antichi d’Europa, ma le filosofie di gioco della due Nazionali sono sempre state (soprattutto dagli anni ’70 in poi) molto differenti. Cinico, pratico ed essenziale il Belgio, spesso travolgente, esaltante e un po’ sciupona l’Olanda. Il carico di talenti con cui la squadra di Wilmots si è presentata in Brasile quest’anno, non ha cambiato questa tendenza. Ciò che è diverso, e ne avevamo già parlato, è il carico di entusiasmo con cui i tifosi in patria stanno seguendo Fellaini e compagni. Gli ottavi sono conquistati, ma il sogno è emulare gli eroi di Messico ’86, quarti.
Corea del Sud – Algeria 2-4
58. Ci agganciamo perfettamente all’argomento “migliori prestazioni” e all’argomento “derby”. Nel primo caso, l’Algeria che si giocherà la qualificazione contro la Russia, se non avesse mostrato lacune in difesa piuttosto importanti, potrebbe pensare di superare la squadra del 1982, che stupì il mondo battendo la Germania Ovest poi finalista, per poi ritrovarsi esclusa a causa di un atteggiamento abbastanza “permissivo” degli austriaci nei confronti degli stessi tedeschi nell’ultimo match del girone. Nel secondo caso, la Corea del Sud ha attirato il tifo contrario dei cugini del Nord: ha fatto il giro del mondo la foto di Kim Jong Un con tanto di sciarpa dell’Algeria. Quella fra i dittatori e il calcio è una storia che dura da molti anni, e visto che la Corea del Nord non si è qualificata, Kim Jong Un si è lasciato andare ad una botta di “Schadenfreude”.
Stati Uniti – Portogallo 2-2
59. Una delle più belle partite di un Mondiale fin qui prodigo di spettacolo. Il “Team USA” di Klinsmann è andato ad un passo da una clamorosa qualificazione anticipata agli ottavi. Il gol di Varela di un Portogallo sovrastato nel secondo tempo ha rovinato tutto, ma complice anche il fuso orario finalmente favorevole (non succedeva dal Mondiale giocato in casa) il seguito verso Dempsey (ancora in gol!) e compagni sta raggiungendo livelli da record. Le star del cinema e delle serie televisive americane si accodano ad un sostegno fin qui riservato solo agli assi del football e del basket. Jim Parsons, alias Sheldon Cooper di Big Bang Theory, ha manifestato tutto il suo tifo per gli Stati Uniti ai Mondiali, e la CBS ha dedicato uno speciale a come le sue stelle stanno seguendo Brasile 2014.
60. Messi vs. Ronaldo 2-0. Il campo dice impietosamente questo, con l’Argentina già agli ottavi ed il Portogallo a rischio di una clamorosa eliminazione al primo turno. Questo nonostante il Pallone d’Oro contro gli USA abbia regalato magie che contro la Germania non si erano viste. L’assist finale per Varela, straordinario, ma soprattutto il numero nel primo tempo, forse la giocata individuale più bella del Mondiale fino a questo momento, escludendo i gol che meritano sempre un discorso a parte, e che CR7 finora non ha ancora trovato in Sudamerica.
Australia – Spagna 0-3
61. Nella formula dei Mondiali, arrivare alla terza della partita del girone con una sfida tra due squadre già eliminate è un evento raro ma possibile. Il fatto che in questa malinconica passerella siano coinvolti i Campioni del Mondo è decisamente più inusuale: la Spagna ha salvato la faccia, ma il biglietto di ritorno era già in tasca per Casillas e compagni. Analizzare il declino di una squadra che ha fatto epoca è ancora più difficile che individuarne le ragioni del successo. Sicuramente Casillas negli ultimi sei anni aveva salvato delle partite, piuttosto che comprometterle; sicuramente l’ascesa di Piqué si è arrestata, e la mancanza di un leader come Puyol in difesa è tangibile. Sicuramente un giocatore come Xavi, non per niente pronto alla partenza verso lande arabe, non nascerà di nuovo facilmente, e il fatto che la squadra che ha vinto tutto senza centravanti, si sia inceppata all’arrivo di Diego Costa, sicuramente non è un caso. Ma è sicura anche la gratitudine di un paese che ha visto le Furie Rosse superare un complesso secolare proprio grazie a questi eroi al crepuscolo. L’ironia, che in questi casi ci sta, è arrivata prevalentemente dall’estero…
Olanda – Cile 2-0
62. Arjen Robben è sempre stato uno strano tipo di calciatore: i mezzi per diventare il più forte li ha sempre avuti. Il magnetismo glamour di Ronaldo e la continuità di Messi no, né la cattiveria di un Ibrahimovic. Complici anche gli infortuni che raramente lo hanno lasciato in pace. Quando è stato bene, sia al Bayern Monaco che in Nazionale, ha dimostrato però di poter cambiare da solo il volto delle partite. Qualcuno gli ha sempre rimproverato un pizzico di egoismo, e di imprecisione sotto porta: conto il Cile, da assist-man, ha dimostrato che un’Olanda arrivata in sordina in Brasile, può sognare la vendetta, quando in Sudafrica proprio Robben vide il sogno di un’intera Nazione infrangersi di fronte a Casillas.
Camerun – Brasile 1-4
63. E se tra i due litiganti fosse il terzo a godere? Nella grande attesa Mondiale della sfida a distanza tra Messi e Ronaldo, nessuno ha forse considerato che Neymar può contare su una spinta popolare senza precedenti. Il mondo si emoziona nel sentire tutto lo stadio, prima delle partite della Selecao, cantare la seconda strofa dell’inno senza l’accompagnamento musicale. E Neymar è finora protagonista di una squadra non del tutto convincente, ma capace di mandare già quattro volte in gol l’asso del Barcellona, che sembra particolarmente forgiato dall’anno, duro, trascorso in Europa. Dagli ottavi e dal Cile, il gioco si farà duro: vedremo se Neymar sarà già in grado di giocare: l’occasione di un Mondiale da vincere da eroe, in casa, di sicuro non capiterà più.
64. Nel cuore di tifosi ed appassionati, il Camerun del 1990 resta la squadra africana più bella ed amata mai passata in un Campionato del Mondo. Roger Milla, Thomas N’Kono, e la cavalcata fino agli spettacolari quarti di finale perduti contro l’Inghilterra. Per questo, quanto messo in mostra dai “Leoni Indomabili” in Brasile è stato un qualcosa di malinconico. Dalla stucchevole lite sui premi, ironica per una squadra incapace di raccogliere anche solo un punto del girone, a Samuel Eto’o chiuso in una gabbia dorata, infortunato e incapace di lasciare un vero segno in un Mondiale. Della squadra di 24 anni fa capace di contagiare con allegria ed entusiasmo chiunque la guardasse, nemmeno l’ombra.
Croazia – Messico 1-3
65. Comunque vada a finire, questo è stato l’anno delle forte personalità in panchina, i “caudillos” capaci di portare outsider alla vittoria. Diego Simeone all’Atletico Madrid ne è l’esempio più lampante, ma anche il “Piojo” Hector Herrera, corpulento e sanguigno CT del Messico, non si sta rivelando da meno. Le sue sfrenate esultanze stanno diventando letteralmente di culto, e chissà se l’organizzazione trovata non possa portare il “Tri” (che ancora deve subire un solo gol) dove non è mai ancora arrivato finora.
Durante la lunga rassegna Mondiale con i racconti delle finali, abbiamo già parlato degli incroci del destino che spesso, davvero per un soffio, non hanno provocato sorprese epocali. Il binario della Coppa del Mondo è sempre sembrato predefinito, come guidato dalla mano invisibile della storia. Se il tiro di Hurst nel ’66 è finito dentro, e quello di Rensenbrink nel ’78fuori, dopo aver colpito un legno a portiere battuto, non sembra un casualità. La Francia nel ’98 prima della finale sarebbe potuta uscire di scena, per un nulla, nei tre turni precedenti ad eliminazione diretta. Eppure alla fine tutto è andato così come si pensava dovesse andare. Nel 2006 invece, la finale ha scritto un copione completamente diverso da quello che gli Dei del calcio sembravano aver preparato.
L’edizione tedesca, stavolta in una Germania unita, come non era accaduto nel ’74, sembrava essere diventata la passerella d’addio perfetta per un grande campione della storia del calcio: Zinedine Zidane. Che dopo il trionfo del ’98, aveva preannunciato il suo ritiro alla fine del suo terzo ed ultimo Mondiale. Giocato divinamente, non appena i ritmi si erano alzati. Partita super contro la Spagna negli ottavi, addirittura leggendaria nei quarti contro il Brasile, fuori dalla finale dopo sedici anni, perfetta contro il Portogallo, per la seconda volta nella sua storia tra le semifinaliste. Mai nell’ultimo quadriennio Zizou aveva giocato così: dopo la Champions League conquistata con il Real Madrid nel 2002, la sua carriera aveva preso un lento declino, ma nell’ultimo grande appuntamento si era ridestato dal suo sonno. E aveva svegliato tutta una squadra impigrita, che fino alla partita contro il Togo aveva rischiato di nuovo l’eliminazione al primoturno, come nel 2002.
Dall’altra parte, un’Italia che a sua volta sembrava seguire lo spartito del 1970 e del 1994: partenza in sordina (stavolta era stato il ciclone “Calciopoli“, costato addirittura la retrocessione in B alla Juventus, a sconvolgere la vigilia azzurra), e poi crescendo culminato con una grande impresa in semifinale. La vittoria in casa dei tedeschi a Dortmund: Germania che proprio dal 1970 sconta un complesso quarantennale verso gli azzurri, nel quale i gol di Grosso e Del Piero alla fine dei tempi supplementari ricoprono un ruolo di primo piano. L’Italia in realtà porta ai Mondiali una generazione che, dopo aver mancato clamorosamente i Mondiali di quattro anni prima, ha l’ultimaoccasione per lasciare un segno tangibile nella storia del calcio. I Buffon, Nesta, Cannavaro, Totti, Del Piero, Filippo Inzaghi, Toni, di cui per anni si è detto meraviglie, senza che ne conseguisse un trionfo tangibile per la Nazionale. Il materiale per vincere c’è, ma come spesso avviene per i colori azzurri, tra il dire e il fare le variabili sono molte.
Nesta infatti si infortuna per l’ennesima volta in Nazionale; Totti è reduce da un grave incidente che per un soffio non gliel’ha proprio fatto saltare il Mondiale. Del Piero e Inzaghi parono dalle retrovie, e Toni, dopo anni passati a segnare a valanga con Palermo e Fiorentina, nontrova il gol, un po’ alla Paolo Rossi. E la doppietta contro l’Ucraina resterà un pezzo unico. Attorno ad un FabioCannavaro da leggenda, che a fine stagione sarà anche insignito del Pallone d’Oro, emergono però dei protagonistiinattesi. Fabio Grosso, che con una discesa pazzesca rimedia il rigore-risolutore contro l’Australia negli ottavi, e segna il gol che fa crollare le certezze tedesche e zittisce gli 80.000 del Westfalenstadion di Dortmund. E Marco Materazzi, che di Nesta prende il posto contro la Repubblica Ceca, e che giocherà un Mondiale al di sopra di ogni previsione.
Complice anche la stanchezza per i supplementari contro i tedeschi, la finale è più a tinte “bleus” che azzurre. Zidane mette subito la sua firma trasformando alla “Panenka” un rigore che per poco non finisce però al di qua della linea. Nel primo tempo però l’Italia reagisce dimostrandosi squadra vera. Prima Marco Materazzi sale altissimo, e di testa pareggia. Quindi Toni timbra la traversa. La squadra di Domenech accorcia le distanze tra i reparti, e le secondo tempo, dopo la fiammata di un gol annullato a Toni, c’è un crescendo francese che culmina in una parata che ha dell’incredibile di Buffon su un’inzuccata formidabile di Zidane.
Sembra davvero tutto scritto: dopo la grande festa in semifinale, l’Italia sembra andare incontro verso l’ennesima delusione, soprattutto perché all’orizzonte ci sono quei rigori che hanno visto gli azzurri sempre sconfitti negli ultimi 26 anni, fatta eccezione per l’Europeo del 2000. E’ invece un colpo di testa di Zidane a cambiare la storia: ma non quello sventato miracolosamente da Buffon, ma quello rifilato a Materazzi, sempre lui, per un’offesa che porta improvvisamente la finale dei Mondiali in uno scenario di partitella tra ragazzini di 10 anni in periferia. Accade anche questo, e il re del calcio di quella fase storica del Football, esce di scena come non avrebbe fatto forse nemmeno con gli amichetti in Algeria nella prima infanzia.
La storia cambia in quelmomento, per un colpo di testa che non va a segno, ed un altro che colpisce un bersaglio illecito, il petto di Materazzi, in Mondovisione. Guai a stuzzicare il destino: senza il suo leader in campo, la spinta della Francia si spegne. Si va ai rigori, dove accade qualcosa di mai visto: gli azzurri ne segnano cinque su cinque (ovviamente tirano anche Materazzi e Grosso, gli uomini del destino), la Francia sbaglia con Trezeguet e gli Champs Élysées gremiti durante la partita si svuotano in un lampo. Un trauma, anche per il presidente della FIFA Blatter che preferisce restare a consolare Zidane nello spogliatoio, invece di premiare gli azzurri. Segno che il copione scritto era un altro: ma per fortuna delle milioni di persone che affollano le piazze italiane per tutta la notte, in un revival speciale ed inatteso di Spagna ’82, il calcio ogni tanto ama anche improvvisare.
Una carriera può consumarsi più veloce di una fuga sulla fascia: ma nel calcio minuti e centimetri sono tutto, e non c’è bisogno di scomodare il discorso di Al Pacino in “Ogni Maledetta Domenica”. David Odonkor, ghanese di nazionalità tedesca, ha vissuto la sua vita nel mondo del calcio all’insegna della velocità estrema, ed ha vissuto le due facce della medaglia della rapidità.
Troppo veloce per gli avversari, troppo veloce nel consumare la sua esperienza nel mondo del pallone: Odonkor si è ritrovato a giocare una semifinale del campionato del mondo e pochi mesi dopo tra i dilettanti, cercando di recuperare una corsa che non era più quella dei tempi belli. Maledizione dei giocatori che fanno della rapidità il loro cavallo di battaglia, destinati ad un declino precoce una volta perso lo scatto dei vent’anni, che permetteva di rubare le frazioni di secondo decisive agli avversari.
Ma ritrovarsi in un campetto di periferia dopo aver avuto addosso gli occhi di una nazione intera, anzi due, anzi di buona parte del mondo conosciuto che il pallone lo segue con passione, è dura. E’ accaduto in quel luglio del 2006, nella tiepida estate tedesca nel quale gli azzurri restituirono lo sgarbo del Mondiale vinto in casa altrui. Dopo il 1990, arriva il momento dell’epopea dei Grosso, dei Materazzi, dei Pirlo e dei Cannavaro. Di Buffon che para tutto. E quando Fabio Grosso infila quel pallone alle spalle di Jens Lehmann a meno di due minuti dalla fine dei tempi supplementari, il Westfalenstadion di Dortmund e la Germania intera si sente venir meno.
Lo spirito indomito tedesco nel calcio è proverbiale, ma stavolta sembra davvero troppo tardi. L’Italia sfoggia una difesa imbattibile, con Fabio Cannavaro futuro Pallone d’Oro. Ma per una frazione di secondo, gli azzurri tornano a tremare, e i sogni tedeschi di rimaterializzano sulla fascia destra. Odonkor sfrutta la prestanza atletica, e si esibisce in un’accelerazione incredibile. E’ un attimo, simbolo della rapidità con cui si consuma una carriera intera. Poi proprio Cannavaro sbroglierà la situazione, e darà via al leggendario contropiede del 2-0 che spalancherà per l’Italia le porte della finale di Berlino.
“Too fast to live is the stupidest saying i’ve heard in my life”, recita una canzone. Vaglielo a dire ad Odonkor, ad una carriera fatta di attimi abbaglianti vissuti sempre troppo velocemente. Al Betis Siviglia, che da Denilson in poi sembra un palazzo dei sogniinfranti, i problemi muscolari lo mettono definitivamente ko, dopo che tra Borussia Dortmund e Mondiali, a 22 anni sembrava in grado di iniziarefinalmente la sua carriera, una volta per tutte. Si ritrova tra i dilettanti, poi prova a ripartire dall’Aachen, serie C tedesca. Ma i guai fisici non gli danno tregua, oltre ai muscoli troppo sollecitati dagli scatti, lo tradiscono anche entrambe le ginocchia. E a 29 anni arriva il ritiro, dopo essere finito a giocare in Ucraina, nell’Hoverla. Da una fine ingloriosa e troppo veloce almeno nasce un nuovo inizio, la carriera da allenatore: da vivere stavolta con la maggiore calma possibile.
Cosa si prova quando al termine di una salita impossibile, sfinente, infinita, il corridore o il ciclista sentono ridursi la resistenza dei pedali, vedono la discesa e capiscono di avercela fatta? E’ un cerchio che si chiude, un destino che si compie, una vittoria che si registra negli annali di una vita. In quel torrido pomeriggio di luglio del 1982, Paolo Rossi non sa ancora di essere diventato “Pablito“. Tutta la Nazionale azzurra è ancora inferocita dalle critiche subite, dopo una prima fase disastrosa: quando però, dopo aver domato la Polonia grazie ad una sua doppietta, Rossi alza gli occhi al cielo, e vede il tabellone luminoso del Camp Nou di Barcellona che lo proclama “El Hombre del Partido“, capisce che il coronamento di una carriera è arrivato prima ancora della finalissima contro la Germania Ovest. Che pure sarà sbloccata da un suo gol, giusto viatico per l’ormai inevitabile trionfo.
“El Hombre del Partido” Pablito lo è già diventato dopo la pazzesca tripletta a quello che ancora da moltissimi amanti del calcio viene considerato il più forte Brasile di tutti i tempi, senza nulla togliere alle altre cinque squadre che resero i verdeoro pentacampioni. Ma Zico, Falcao, Socrates, Eder, Cerezo, Junior, solo per citare i più celebri, facevano spavento. Eppure si inchinarono di fronte a quello scricciolo che sapeva sempre prima dove sarebbe andato a finire il pallone, e che prima di quel match, nel quale ai brasiliani pure sarebbe bastato un pari per raggiungere la semifinale, non aveva praticamente toccato palla.
Quello che Zico e compagni non sapevano è che Rossi la sua leggenda l’aveva già costruita passando indenne ad un un numero impressionante di disavventure. Non tutti sanno che uno dei migliori opportunisti d’area di ogni tempo del calcio italiano, a diciassette anni era in realtà un prospetto dalla tecnica finissima, pronto a raccogliere alla fine degli anni settanta l’eredità della tradizione delle grandi ali destre italiane, tramandata in quegli anni da Franco Causio e Claudio Sala. Una tecnica sopraffina ed una velocità palla al piede impressionanti, spezzatesi però nel settore giovanile della Juventus a causa di tre operazioni al menisco.
Rossi finisce al Vicenza, in molti sono pronti a scommettere che la sua carriera nondecollerà più, ma la svolta arriva dall’intuizione di Giovan Battista Fabbri, l’artefice di quello che sarà conosciuto come il Real Vicenza. Gibì si trova una gatta da pelare quando Sandro Vitali, centravanti biancorosso nel 1977, lascia basiti tutti scappando di notte dal ritiro di Rovereto, ormai a fine carriera e allergico alla disciplina della preparazione estiva. Fabbri sposta Rossi a centro area, a raccogliere tutti i palloni che può, ed il Vicenza domina il campionato di Serie B, con 21 gol di Rossi che si ripete nella stagione 1977/78, capocannoniere in un massimo campionato che vedrà il club veneto ottenere, con il secondo posto finale, il suo miglior piazzamento di sempre.
Per Rossi si spalancano le porte del Mundial argentino del 1978, ma non quelle del ritorno alla Juventus, che sembrava ormai prossimo. Alle buste, il presidente del Vicenza Farina lo riscatta per 2 miliardi, 612 milioni e 510 mila lire, una cifra record per l’epoca che lascia tutti sbalorditi, e che non serve ai biancorossi per evitare la retrocessione dopo il campionato dei miracoli. Rossi passa al Perugia, quindi resta invischiato nello scandalo del calcioscommesse. Assieme a quelli di Giordano e Manfredonia, il suo è il nome più noto, sfumano gli Europei in Italia del 1980, in molti tornano a parlare di carriera finita.
Ma i progetti del destino a volte sono imperscrutabili. Scontata la squalifica, Rossi passa davvero alla Juventus, ma sembra l’ombra di sé stesso. Come Fabbri dopo gli infortuni di gioventù, è un allenatore a credere in lui e nella sua precaria condizione fisica. Enzo Bearzot lo porta comunque in Spagna, insiste su Rossi titolare anche dopo le prime prestazioni sconcertanti, e poi finalmente i gol: 3 al Brasile, 2 alla Polonia, 1 alla Germania, e mani sul Mondiale, 44 anni dopo l’ultimo trionfo azzurro. Ma Rossi, divenuto “Pablito” a furor di popolo, e a Natale del 1982 Pallone d’Oro per acclamazione, questo lo sapeva già a Barcellona, quando la scritta lampeggiante del Camp Nou aveva segnato la fine delle eterne montagne russe della sua carriera.