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Club Fabio Belli

Il West Ham degli anni ’60 e i gradini di Wembley

di Fabio Belli

Il calcio a Londra ha mille anime. Rivalità centenarie come quella tra Spurs e Gunners, vecchia e nuova aristocrazia come quella di Queens Park Rangers e Chelsea, realtà passate attraverso mille trasformazioni come il Crystal Palace. Ma ce ne sono altre più fortemente legate alla tradizione che, pur vantando una bacheca decisamente meno ricca di quella delle concorrenti, hanno accumulato un fascino destinato a non tramontare mai. Quella del West Ham è una storia legata a doppio filo agli anni d’oro del calcio inglese e al suo tempio per eccellenza: Wembley.

hammersIl West Ham non ha mai vinto il campionato: ha davvero lottato per il titolo in una sola occasione, nella stagione 1985/86. Fu l’apice del periodo, durato quindici anni, sotto la guida di John Lyall, con Tony Cottee in attacco ed Alan Devonshire a centrocampo a fare da leader in un gruppo partito dalla Seconda Divisione, ma ricco di talento. Alla fine, la vittoria sfumò nella tiratissima volata a tre con Liverpool ed Everton. Tuttavia, qualsiasi tifoso Hammers che si rispetti, identificherebbe l’epoca d’oro del club a cavallo degli anni sessanta, quando il West Ham era guidato da autentici campioni, e soprattutto formava la spina dorsale della Nazionale inglese più forte di sempre.

Era la squadra allenata da Ron Greenwood, maestro della panchina in grado di far sbocciare i talenti del sempre floridissimo settore giovanile degli Hammers. Non per niente uno dei soprannomi più noti del club è “The Academy“, per la sua capacità di portare alla ribalta giovani assi del football. Tra il 1958 ed il 1959, tra di essi emersero tre grandi protagonisti della finale vinta dall’Inghilterra contro la Germania Ovest nella finale del Mondiale giocato in casa nel 1966. Bobby Moore, il capitano, difensore capace di coniugare grinta ed eleganza; Martin Peters, implacabile incursore di centrocampo; ed il bomber Geoff Hurst, l’autore della storica tripletta di Wembley, e soprattutto del celeberrimo gol fantasma che spezzò l’equilibrio nei supplementari contro i tedeschi, in una delle finali rimaste nella storia del calcio.

Moore, Peters ed Hurst: un trio che per tre anni consecutivi fece la storia del West Ham e dell’Inghilterra, salendo per tre volte consecutive i gradini di Wembley per una premiazione. Nel 1964, quando la FA Cup finì per la prima volta tra le mani degli Hammers grazie al gol di Ronny Boyce a 5′ dalla fine del match, tiratissimo, contro il Preston North End. Nel 1965, quando nella finale di Coppa delle Coppe giocata a Londra, la doppietta di Alan Sealey regalò il primo alloro europeo al West Ham, nel 2-0 al Monaco 1860. In entrambi i casi, fu Bobby Moore ad alzare il trofeo, ma l’anno successivo per il capitano arrivò l’emozione più grande, visto che ricevette dalle mani della Regina Elisabetta la Coppa Rimet, quando fu lui con i suoi compagni Hammers, oltre a tutta l’Inghilterra, ad issarsi sul tetto del mondo. Oltre alla tripletta di Hurst che fece impazzire Wembley e tutto il Paese, infatti, fu Martin Peters a siglare l’altra marcatura nel 4-2 finale in favore dell’Inghilterra. Anni irripetibili, quando pensare West Ham significava dire mondo.

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Fabio Belli Football Mystery: la webserie

Football Mystery 3×01: l’ineffabile Bakhramov

di Fabio BELLI

Il terzo ciclo dei racconti di Football Mystery parte con quello che viene ricordato, probabilmente, come il gol fantasma più famoso della storia del calcio. Quello che decise il Mondiale del 1966, l’unico vinto dagli inventori del football, gli inglesi. Lo segnò il gioiello della West Ham Academy Geoffrey Hurst, ma la decisione che cambiò la storia di una Coppa del Mondo la prese un guardalinee azero: l’ineffabile Bakhramov.

I FATTI

Il 30 luglio del 1966 a Wembley Inghilterra e Germania Ovest si giocano il titolo. Gli inglesi hanno la spinta del pubblico di casa, ma anche la responsabilità di non deludere una nazione intera. E i tedeschi hanno evitato la sconfitta all’89’ con un gol di Weber, che ha portato la partita ai supplementari. 2-2 al 90′, l’Inghilterra vede all’orizzonte il rischio di una beffa come quella che ha schiantato i brasiliani nel 1950. La storia la cambia una bordata di un superbo centravanti, Hurst, col pallone che sbatte sulla traversa e rimbalza sulla linea. Dentro o fuori? Da 53 anni non c’è una risposta certa a questa domanda, ed è qui che entra in gioco il nostro protagonista: Tofiq Bakhramov.

IL PERSONAGGIO

Quando il pallone va a sbattere sulla traversa e poi sulla linea, tenendo col fiato sospeso i 100.000 di Wembley e, contestualmente, tutta l’Inghilterra e la Germania, l’arbitro della finalissima non è nella posizione migliore per capire. Si tratta dello svizzero Dienst, che immediatamente va a interloquire con il guardalinee meglio posizionato. Si tratta di Bakhramov, azero di
nascita ma sovietico di rappresentanza ai Mondiali del 1966. Passano alcuni interminabili secondi, ne nasce un dialogo paradossale con Dienst che parla solo tedesco e un po’ d’inglese, l’azero oltre alla lingua madre mastica il russo. Ma quello del calcio è un linguaggio universale e Bakhramov, come dimostrerà nel seguito della sua carriera arrivando a diventare segretario della federazione dell’Azerbaigian, ha un talento naturale per la diplomazia e sa prendere la decisione giusta al momento giusto. E’ gol! E l’Inghilterra sarà campione.

LE ACCUSE

Le voci si sprecheranno. I tedeschi accusarono Bakhramov di aver deciso per vendicare l’Unione Sovietica eliminata in semifinale proprio dalla Germania Ovest anche a causa della discussa espulsione, da parte dell’arbitro italiano Concetto Lo Bello. Inoltre, seppur i replay dell’epoca non chiarissero la situazione, i tedeschi lamentavano il fatto che una nuvola di gesso si fosse alzata al momento del rimbalzo della sfera prova inequivocabile che aveva toccato, e quindi non varcato completamente, la linea. Di sicuro l’esperienza non mancava a Bakhramov che non era neanche guardalinee, ma già arbitro Nazionale del 1964. Quella decisione lo rese l’azero più influente nella storia del calcio, tanto che oggi lo stadio della capitale Baku è dedicato a lui. Ma il pallone era entrato o no?

LE CONCLUSIONI

Come detto, la certezza assoluta ancora non c’è, anche se si propende quasi all’unanimità per il no. Nel 1995 uno studio dell’università di Oxford, il più approfondito sulla questione, stabilì con l’aiuto dei computer e della tecnologia come il pallone non avesse varcato completamente la linea. Bakhramov spiegò sempre di aver visto il pallone toccare la rete e non la traversa e poi rimbalzare dentro e di non essersi dunque mai posto il problema se la sfera avesse superato o meno la fatidica linea. Una spiegazione da maestro di diplomazia, sicuramente furba, sicuramente coerente con un personaggio che con una sola decisione ebbe la freddezza di indirizzare un intero Mondiale di calcio, tanto da essere ricordato da tutti col soprannome di “ineffabile” a decenni di distanza.

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Calciatori Fabio Belli

Gordon Banks e la parata su Pelé: la più bella di sempre

di Fabio BELLI

Il periodo alla fine degli anni ’60 è stato sicuramente il più florido di successi per la nazionale inglese. Dopo le storiche umiliazioni degli anni ’50, col mondiale brasiliano e le sconfitte contro la leggendaria Ungheria che fecero scendere definitivamente gli inventori del football dal loro piedistallo, la Football Association si era messa al lavoro per eliminare quell’alone grigio che aveva resto il calcio d’oltremanica quantomeno antiquato. L’arrivo di Alf Ramsey alla guida della selezione dei Tre Leoni cambiò la storia e la vittoria nel Mondiale disputato in casa nel 1966 riportò gli inglesi al livello delle grandi potenze calcistiche. Di quella nazionale ricchissima di talenti, da Charlton a Moore, da Hurst a Peters, l’Inghilterra conserva anzi un ricordo che sfocia nel rimpianto visto che, al di là dell’exploit iridato, quella formidabile generazione non venne sfruttata per mietere ulteriori successi.

Agli Europei del ’68 in Italia, risoltisi con un ulteriore trionfo di chi ospitava la manifestazione, arrivò solo un terzo posto che, attualmente, è ancora il miglior risultato in assoluto per gli inglesi nella rassegna continentale. Ma il rammarico maggiore si concentra sulla successiva partecipazione in un Campionato del Mondo destinato a restare nella leggenda, quello del 1970 in Messico. L’Inghilterra subì la vendetta da parte dei tedeschi, battuti in finale quattro anni prima, che si imposero nei quarti di finale rimontando da 0-2 a 3-2. Fu il match che segnò il passo d’addio di Ramsey in un “Mundial” comunque costellato di episodi destinati a rimanere a lungo nella memoria dei britannici. Su tutti quella che viene ancora considerata la più incredibile parata di tutti i tempi.Venne effettuata da Gordon Banks su Pelé nel match vinto di misura dal Brasile contro gli inglesi nella fase eliminatoria.

Il numero uno di Sheffield resta assieme a Peter Shilton il più grande estremo difensore inglese di sempre. Curioso che entrambi abbiano speso gli anni migliori della loro carriera al Leicester City e che, ai tempi del Mondiale 1970, Banks giocasse già nello Stoke City dove si era trasferito proprio perché la dirigenza del Leicester aveva deciso di lanciare Shilton come titolare. Banks era comunque sulla cresta dell’onda anche dopo aver lasciato Leicester e si era presentato in Messico con le credenziali di miglior portiere del pianeta assieme al russo Jascin. I Campioni del Mondo in carica vennero sorteggiati nel girone eliminatorio contro il fortissimo Brasile di Pelé che raccoglierà la loro eredità, imponendosi come detto nello scontro diretto, anche se poi inglesi e brasiliani approderanno a braccetto ai quarti di finale.

Di quella partita, disputata il 7 Giugno del 1970 a Guadalajara, i tifosi inglesi ricorderanno però per sempre la prodezza di Banks su un colpo di testa a botta sicura di O Rey. Jairzinho, che segnerà poi il gol partita, si liberò sulla destra pennellando un cross irresistibile per quello che allora era unanimemente considerato il più forte giocatore del mondo. Pelé schiacciò di testa con potenza da posizione ravvicinata e praticamente a colpo sicuro, con Banks lanciato in un tuffo “coast to coast”, costretto com’era stato dall’azione di Jairzinho a coprire sul primo palo. Il gol sembrava inevitabile, ma lo slancio di Banks ebbe del soprannaturale: nonostante la palla avesse rimbalzato praticamente sotto il suo naso, con la mano di richiamo riuscì a deviare il pallone sopra la traversa. Lo stesso Pelé, mentre il Brasile si apprestava a battere il conseguente calcio d’angolo, si avvicinò a Banks con l’indice puntato dicendo, come testimoniato dal portiere: “Non è possibile quello che hai fatto”. Di sicuro si trattò di un gesto atletico forse irripetibile, incastonato tra gli episodi che hanno immortalato nella storia quella magica estate messicana.

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#Contromondiali Fabio Belli

#Contromondiale 11: #Italia, #Morso, #Rimorso, #Suarez, #Dimissioni, #Grecia, #Samaras, #Mondragon, #Selfie

di Fabio Belli

Italia – Uruguay 0-1

Le nuove frontiere del cibo italiano
Le nuove frontiere del cibo italiano

66. Abbiamo già parlato di quanto i deja vu siano frequenti nei Mondiali. L’Italia si ritrova coinvolta in un’eliminazione tra grandi controversie arbitrali, come già avvenuto nel 1962 e nel 2002, quando un arbitro chiamato Moreno, così come in questo caso, scatenò l’ira dei tifosi azzurri. Il Moreno attuale è messicano e soprannominato Dracula, con il centravanti della squadra avversaria, Suarez, famoso per avere il “vizietto” di mordere gli avversari. Possibile che ci ricaschi con Dracula al fischietto? E soprattutto che Dracula non se ne accorga? Ovviamente sì: e il morso di Suarez a Chiellini rischia di diventare (anzi, forse già lo è) un cult alla pari della testata di Zidane a Materazzi nel 2006. In quel caso Horacio Elizondo non fece finta di non vedere, stavolta Dracula-Moreno sì: e questo è costato a lui le prossime partite del Mondiale, a Suarez una probabile, lunga squalifica, e all’Italia l’eliminazione. In una sorta di circolo inesauribile della storia mondiale azzurra.

Le eliminazioni dell'Italia ai Mondiali nel 1954 e nel 2014, trattate con enfasi differente dalla stampa
Le eliminazioni dell’Italia ai Mondiali nel 1954 e nel 2014, trattate con enfasi differente dalla stampa

 

67. Insomma, ce ne sarà di chi parlare a lungo, ma l’aspetto tecnico del match contro l’Uruguay non è scivolato in secondo piano. Anche e soprattutto perché l’espulsione (ingiustificabile errore, va detto) di Marchisio ha accelerato una deriva del match che, dopo un primo tempo di buon contenimento, aveva portato l’Italia ad arretrare paurosamente il baricentro dopo l’espulsione del nervoso, instabile ma probabilmente indispensabile (sì, qui andiamo controcorrente) Balotelli. Una scelta difensiva implosa quando qualcosa è andato storto, e non è un caso che invece di gridare all’ingiustizia (come avvenne nel 2002), i media italiani si siano scatenati contro il non-gioco espresso dagli azzurri dopo due anni di preparazione ed una finale europea. A parte qualche sprazzo contro l’Inghilterra peggiore dagli anni ’70, contro Costa Rica ed Uruguay i tiri in porta si sono contati sulle dita di una mano. A sessant’anni di distanza, si può comunque ammirare come sia cambiato il modo di reagire da parte dei giornali italiani ad un’eliminazione dell’Italia ai Mondiali.

"Prandelli, stai sereno".
“Prandelli, stai sereno”.

68. E parte la solita sequela del tutti contro tutti: Prandelli attacca la stampa, Abete se la prende col sistema, Marchisio con Suarez, Verratti con l’arbitro e tutti, ma proprio tutti, con Balotelli. Da Bearzot a Vicini a Sacchi, da Zoff a Trapattoni a Lippi, il rito delle dimissioni in Italia fa sempre scalpore, forse perché inusuale. Di sicuro ci troviamo ad un punto che ha riportato il calcio italiano indietro di circa 50 anni: dopo lo scandalo di Cile ’62, arrivò il diluvio Corea del Nord a svegliare un football azzurro addormentato (ma che allora già dominava con le milanesi a livello internazionale di club). Due eliminazioni al primo turno che tornano clamorosamente d’attualità, ora che dopo un’edizione del 2010 giocata colpevolmente (e lo si capisce ora) con la pancia piena e senza stimoli, si torna di nuovo a casa. Via Prandelli, via Abete, la Nazionale ha bisogno però di protagonisti veri anche in campo: perché il sistema-calcio italiano sarà in crisi profonda e non si può negare, ma paesi come la Costa Rica e lo stesso Uruguay, non si può dire che raggiungano risultati superiori ai nostri con investimenti finanziari maggiori e politiche più lungimiranti. Lavorare bene, alla lunga, paga più che lavorare tanto, al di là dei luoghi comuni.

Costa Rica – Inghilterra 0-0

I giornali inglesi i più severi nei confronti di Suarez
I giornali inglesi i più severi nei confronti di Suarez

69. Partita che aveva poco da dire: i “Ticos” hanno dimostrato una volta di più di meritare la qualificazione e il primo posto, gestendo il pari che serviva loro per chiudere in testa. Inghilterra senza stimoli, tanto che i giornali inglesi hanno preferito concentrarsi sul caso-Suarez, stella della Premier League. E in barba agli interessi del Liverpool, la stampa britannica c’è andata giù pesante, con titoli del tipo “squalificate questo mostro”. Con due morsi e una squalifica per razzismo già alle spalle, Suarez (che si era affidato anche a uno psicologo per evitare di cadere di nuovo in questo tipo di comportamenti) potrebbe andare incontro ad una squalifica a tempo che coinvolgerebbe anche i Reds.

Giappone – Colombia 1-4

Faryd (nelle figurine italianizzato in "Fabio") Camilo Mondragòn, recordman dei Mondiali a 43 anni, ai tempi di USA '94
Faryd Camilo Mondragòn, recordman dei Mondiali a 43 anni, ai tempi di USA ’94

70. Se non ci fosse Suarez, la storia del giorno sarebbe sicuramente la sua: Faryd Mondragòn, classe ’71, a fine partita si è piazzato tra i pali della Colombia ed è diventato il giocatore più anziano della storia dei Mondiali. A 43 anni, c’era già ad USA ’94, ed è allla sua terza Coppa del Mondo solo perché la Colombia era assente dalla rassegna dal ’98. Un momento emozionante, in parte rovinato dalla FIFA che non ha permesso al numero uno il giro di campo finale in compagnia dei figlioletti.

Grecia – Costa D’Avorio 2-1

71. Il collegamento tra Grecia ed Epica è sin troppo facile, ma da dieci anni a questa parte la Nazionale ellenica, a fronte di risorse decisamente limitate, sta riuscendo ad ottenere risultati incredibili. E soprattutto a sovvertire situazioni sulla carta irrimediabili. L’impresa di Euro 2004 è agli atti e nella storia, ma anche due anni fa negli Europei in Polonia e in Ucraina, si guadagnarono un quarto di finale contro la Germania quando l’eliminazione sembrava inevitabile. Stesso copione stavolta: dopo il rovescio iniziale contro la Colombia e lo scialbo pari contro i giapponesi, chi si aspettava la coppia Samaris-Samaras (a proposito: con il messicano Ochoa è il secondo svincolato decisivo a Brasile 2014, dov’è l’errore?) agli ottavi? E contro la Costa Rica, poi: comunque vada, tra le prime otto del Mondiale ci sarà una prima volta assoluta ed inaspettata.

Rimasugli di Croazia – Messico 1-3

72. Non ce ne vogliano Bradley Cooper, Ellen DeGeneres e le stelle degli Oscar, ma a nostro avviso il “selfie” dell’anno è questo. Que viva Mexico, Que viva Héctor Herrera!

Hector Herrera re dei "selfie"
Héctor Herrera re dei “selfie”
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Fabio Belli Le Finali Mondiali

2006: Italia-Francia 6-4 dcr. Il colpo di testa che cambiò un copione già scritto

di Fabio Belli

Durante la lunga rassegna Mondiale con i racconti delle finali, abbiamo già parlato degli incroci del destino che spesso, davvero per un soffio, non hanno provocato sorprese epocali. Il binario della Coppa del Mondo è sempre sembrato predefinito, come guidato dalla mano invisibile della storia. Se il tiro di Hurst nel ’66 è finito dentro, e quello di Rensenbrink nel ’78 fuori, dopo aver colpito un legno a portiere battuto, non sembra un casualità. La Francia nel ’98 prima della finale sarebbe potuta uscire di scena, per un nulla, nei tre turni precedenti ad eliminazione diretta. Eppure alla fine tutto è andato così come si pensava dovesse andare. Nel 2006 invece, la finale ha scritto un copione completamente diverso da quello che gli Dei del calcio sembravano aver preparato.

Cannavaro alza la Coppa nella notte di Berlino
Cannavaro alza la Coppa nella notte di Berlino

L’edizione tedesca, stavolta in una Germania unita, come non era accaduto nel ’74, sembrava essere diventata la passerella d’addio perfetta per un grande campione della storia del calcio: Zinedine Zidane. Che dopo il trionfo del ’98, aveva preannunciato il suo ritiro alla fine del suo terzo ed ultimo Mondiale. Giocato divinamente, non appena i ritmi si erano alzati. Partita super contro la Spagna negli ottavi, addirittura leggendaria nei quarti contro il Brasile, fuori dalla finale dopo sedici anni, perfetta contro il Portogallo, per la seconda volta nella sua storia tra le semifinaliste. Mai nell’ultimo quadriennio Zizou aveva giocato così: dopo la Champions League conquistata con il Real Madrid nel 2002, la sua carriera aveva preso un lento declino, ma nell’ultimo grande appuntamento si era ridestato dal suo sonno. E aveva svegliato tutta una squadra impigrita, che fino alla partita contro il Togo aveva rischiato di nuovo l’eliminazione al primo turno, come nel 2002.

Dall’altra parte, un’Italia che a sua volta sembrava seguire lo spartito del 1970 e del 1994: partenza in sordina (stavolta era stato il ciclone “Calciopoli“, costato addirittura la retrocessione in B alla Juventus, a sconvolgere la vigilia azzurra), e poi crescendo culminato con una grande impresa in semifinale. La vittoria in casa dei tedeschi a Dortmund: Germania che proprio dal 1970 sconta un complesso quarantennale verso gli azzurri, nel quale i gol di Grosso e Del Piero alla fine dei tempi supplementari ricoprono un ruolo di primo piano. L’Italia in realtà porta ai Mondiali una generazione che, dopo aver mancato clamorosamente i Mondiali di quattro anni prima, ha l’ultima occasione per lasciare un segno tangibile nella storia del calcio. I Buffon, Nesta, CannavaroTotti, Del Piero, Filippo Inzaghi, Toni, di cui per anni si è detto meraviglie, senza che ne conseguisse un trionfo tangibile per la Nazionale. Il materiale per vincere c’è, ma come spesso avviene per i colori azzurri, tra il dire e il fare le variabili sono molte.

Nesta infatti si infortuna per l’ennesima volta in Nazionale; Totti è reduce da un grave incidente che per un soffio non gliel’ha proprio fatto saltare il Mondiale. Del Piero e Inzaghi parono dalle retrovie, e Toni, dopo anni passati a segnare a valanga con Palermo e Fiorentina, non trova il gol, un po’ alla Paolo Rossi. E la doppietta contro l’Ucraina resterà un pezzo unico. Attorno ad un Fabio Cannavaro da leggenda, che a fine stagione sarà anche insignito del Pallone d’Oro, emergono però dei protagonisti inattesi. Fabio Grosso, che con una discesa pazzesca rimedia il rigore-risolutore contro l’Australia negli ottavi, e segna il gol che fa crollare le certezze tedesche e zittisce gli 80.000 del Westfalenstadion di Dortmund. E Marco Materazzi, che di Nesta prende il posto contro la Repubblica Ceca, e che giocherà un Mondiale al di sopra di ogni previsione.

Complice anche la stanchezza per i supplementari contro i tedeschi, la finale è più a tintebleus” che azzurre. Zidane mette subito la sua firma trasformando alla “Panenka” un rigore che per poco non finisce però al di qua della linea. Nel primo tempo però l’Italia reagisce dimostrandosi squadra vera. Prima Marco Materazzi sale altissimo, e di testa pareggia. Quindi Toni timbra la traversa. La squadra di Domenech accorcia le distanze tra i reparti, e le secondo tempo, dopo la fiammata di un gol annullato a Toni, c’è un crescendo francese che culmina in una parata che ha dell’incredibile di Buffon su un’inzuccata formidabile di Zidane.

La testata di Zidane a Materazzi
La testata di Zidane a Materazzi

Sembra davvero tutto scritto: dopo la grande festa in semifinale, l’Italia sembra andare incontro verso l’ennesima delusione, soprattutto perché all’orizzonte ci sono quei rigori che hanno visto gli azzurri sempre sconfitti negli ultimi 26 anni, fatta eccezione per l’Europeo del 2000. E’ invece un colpo di testa di Zidane a cambiare la storia: ma non quello sventato miracolosamente da Buffon, ma quello rifilato a Materazzi, sempre lui, per un’offesa che porta improvvisamente la finale dei Mondiali in uno scenario di partitella tra ragazzini di 10 anni in periferia. Accade anche questo, e il re del calcio di quella fase storica del Football, esce di scena come non avrebbe fatto forse nemmeno con gli amichetti in Algeria nella prima infanzia.

La storia cambia in quel momento, per un colpo di testa che non va a segno, ed un altro che colpisce un bersaglio illecito, il petto di Materazzi, in Mondovisione. Guai a stuzzicare il destino: senza il suo leader in campo, la spinta della Francia si spegne. Si va ai rigori, dove accade qualcosa di mai visto: gli azzurri ne segnano cinque su cinque (ovviamente tirano anche Materazzi e Grosso, gli uomini del destino), la Francia sbaglia con Trezeguet e gli Champs Élysées gremiti durante la partita si svuotano in un lampo. Un trauma, anche per il presidente della FIFA Blatter che preferisce restare a consolare Zidane nello spogliatoio, invece di premiare gli azzurri. Segno che il copione scritto era un altro: ma per fortuna delle milioni di persone che affollano le piazze italiane per tutta la notte, in un revival speciale ed inatteso di Spagna ’82, il calcio ogni tanto ama anche improvvisare.

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

1998: Francia-Brasile 3-0. Le “sliding doors” di Ronaldo e Zinedine Zidane

di Fabio Belli

A sedici anni di distanza da quello che è stato l’ultimo Mondiale vinto da chi giocava in casa, si può dire che quello della Francia nel 1998 è stato davvero il delitto perfetto. E’ vero, il Brasile ha ottime chance per riprovarci nell’edizione ormai prossima, e la globalizzazione del calcio negli ultimi 28 anni ha portato il Mondiale in nazioni (Messico, Stati Uniti, Corea del Sud, Giappone, Sudafrica) senza squadre in grado di capitalizzare il fattore campo. Ma restando ai tempi moderni, tedeschi e italiani possono guardare con invidia a quanto costruito attorno ai “bleus” dai francesi in quell’estate di fine anni novanta.

L'Equipe de France per la prima volta Campione del Mondo
L’Equipe de France per la prima volta Campione del Mondo

E’ stato il delitto perfetto perché prima di loro c’erano riusciti anche inglesi ed argentini, ma facendo leva molto di più sul fattore ambientale. L’albiceleste del ’78 andò ai limiti del regolamento ed oltre, se ricordiamo la “marmelada peruana“, senza scomodare le pressioni del regime di Videla. L’Equipe de France ’98 si avvalse di una macchina organizzativa d’efficienza al pari solo di quella teutonica di Monaco ’74, quando tutto andò come doveva andare senza scomodare arbitri o strane manovre, fatta eccezione per una robusta inzuppata nel campo nella partita che di fatto valeva come una semifinale, contro la Polonia. La Francia fu impeccabile: squadra sempre protetta dal tifo incessante dello stadio nuovo di zecca, lo “Stade de France” di Saint Denis, buon sorteggio sfruttato al meglio col primo posto nel girone, nessuna nevrotica deviazione da Parigi, alla stregua dell’Italia nel ’90.

Certo, sportivamente parlando, un paio di sbandate ci furono. Innanzitutto Zinedine Zidane, chiamato ad arrivare dove neppure Le Roi Michel Platini era riuscito ad arrampicarsi, che si fa cacciare per un fallo di reazione contro l’Arabia Saudita, non esattamente una partita in grado di produrre chissà quali pressioni. Quindi, le sofferenze negli ottavi contro il Paraguay del monumento Chilavert, vittoria al golden goal, e contro l’Italia nei quarti, quando gli azzurri giocarono troppo tardi la carta Roberto Baggio, e dopo un assedio lungo un’ora e mezza e dei supplementari coraggiosi, videro infrangersi i loro sogni sulla traversa di Gigi Di Biagio. Ancora i rigori condannarono gli azzurri, per la terza volta consecutiva: passato lo “spaghetto”, i francesi ribaltarono una semifinale pazza contro la Croazia. Pazza perché Suker e compagni si fecero beffe della pressione di Saint Denis passando in vantaggio, ma si ritrovarono battuti da una doppietta di Lilian Thuram, uno che col gol, di mestiere, confidenza non doveva proprio averne.

Così, quando a Saint Denis si deve giocare la finalissima, qualcuno nell’Equipe de France comincia ad avere un po’ paura. Il super-Brasile di Ronaldo, Denilson, Cafu, Edmundo, Bebeto (ma non Romario), ha giocato solo un ottavo di finale degno della sua fama. Il Fenomeno viene da una stagione in cui l’Inter ne ha potuto toccare con mano la forza d’urto, accontentandosi però solo di una Coppa UEFA. Stellare la prova di Ronaldo contro la Lazio, ma i rimpianti per la sfida con la Juventus per lo scudetto restano, e riguardano soprattutto gli arbitri. Alla vigilia della finale però, una certezza sembra farsi strada: Ronaldo e Zidane devono riscattare in finale un Mondiale fino a quel momento non all’altezza.

Zidane in cima al mondo il 12 luglio del 1998
Zidane in cima al mondo il 12 luglio del 1998

Un film molto in voga di quegli anni era “Sliding Doors“: Gwyneth Paltrow si ritrova in una storia improntata sui bivi infiniti del destino. E come quella sera le vite di quei due straordinari campioni divergano nettamente, è sbalorditivo. Tanto si apre una stagione di successi, vittorie e prodezze per Zidane, tanto una di amarezze, dolore, infortuni e obiettivi mancati per Ronaldo. In quella che è la stranissima, ancestrale simbologia dei Mondiali, la storia cambierà quattro anni dopo, quando dopo la Champions League vinta con lo storico gol al Leverkusen da Zidane con la maglia del Real Madrid, il francese sarà costretto a una mesta passerella da infortunato in Asia, mentre Ronaldo, dopo quattro stagioni amarissime, passate quasi tutte in infermeria, tornerà il Fenomeno.

Ma a Saint Denis il 12 luglio del 1998 le “sliding doors” del destino sono tutte per Zizou. Ronaldo, lo si saprà poi in uno scandalo di proporzioni planetarie, sta in piedi per miracolo. Vuoi lo stress, vuoi le infiltrazioni per le fragilissime ginocchia, prima della partita è stato colto da convulsioni violentissime in albergo: qualche compagno di squadra pensava fosse morto. Schierarlo in campo in quelle condizioni, di fronte agli occhi del mondo intero, resta un’offesa eterna a quello che è stato il suo straordinario talento. Zidane invece arriva nelle migliori condizioni psicofisiche possibili: la squalifica paradossalmente lo ha fatto arrivare fresco e riposato alle partite chiave, e arrivati all’intervallo ha già bucato due volte di testa un incredulo Taffarel. E’ il delitto perfetto, nemmeno l’assenza in difesa di Blanc, che ha baciato nel suo rituale immancabile la “pelata” del portiere Barthez in borghese perché squalificato, intacca le sicurezze transalpine. La cavalcata finale di Emmanuel Petit per il gol del 3-0 è quella di una Nazione intera verso una gloria rincorsa vanamente per 68 anni. Zidane finisce in cima al mondo, Ronaldo in fondo alla scaletta di un aereo: per rialzarsi, al Fenomeno serviranno i quattro anni più lunghi della sua vita.

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

1966: Inghilterra-Germania Ovest 4-2 dts. Alf Ramsey, un tempo per lavorare, un tempo per riposare.

di Fabio Belli

“Signori, non ho molto da dirvi, se non anticiparvi che l’Inghilterra vincerà la prossima Coppa del Mondo. E adesso lasciatemi lavorare”. I giornalisti presenti alla conferenza stampa di presentazione in cui Alf Ramsey, allora ovviamente non ancora “sir”, si svelava come nuovo CT dell’Inghilterra, capirono da quella ventina di parole che nulla sarebbe stato più come prima. Legata alle sue tradizioni già centenarie nel football, l’Inghilterra sembrava però inchiodata al suo passato: i britannici continuavano a ripetersi di essere i più forti, e gli altri vincevano. La storia doveva cambiare, e chi come Ramsey poteva capirlo, visto che era in campo il giorno dell’umiliazione per eccellenza del calcio inglese, quando la Nazionale di Sua Maestà venne battuta nei Mondiali brasiliani del 1950 dai dilettanti statunitensi?

L'Inghilterra sfata un tabù centenario e sale sul tetto del mondo
L’Inghilterra sfata un tabù centenario e sale sul tetto del mondo

Il viaggio iniziò il giorno di quella conferenza stampa nel 1963, e terminò idealmente quel 30 luglio del 1966 a Wembley. Per presentarsi sotto gli occhi della Regina a giocare nella finale dei Mondiali in casa, Ramsey aveva messo in soffitta il WM del suo storico predecessore, Michael Winterbottom, e un rigido protocollo che vedeva i calciatori della Nazionale scelti dalla Football Association. Decisioni che scatenarono non poche polemiche nell’ultraconservatore ambiente inglese, ma ciò che contava era il risultato finale. L’Inghilterra era lì, e di fronte aveva l’avversario forse più stimolante possibile, quella Germania Ovest che evocava nei sudditi d’Albione slanci patriottici mica da ridere.

Sir Alf Ramsey
Sir Alf Ramsey

C’è da dire che la cifra tecnica del Mondiale fu nettamente superiore a quella della rassegna cilena di quattro anni prima. La Corea del Nord dimostrò a tutti (e a salatissime spese dell’Italia, com’è noto) che c’era un “terzo mondo” calcistico pronto ad affacciarsi sulla scena. Il Portogallo mise in scena un ideale passaggio di consegne, seppur temporaneo, tra Pelé (di nuovo massacrato dagli infortuni) ed un Brasile costretto a lasciare il torneo al primo turno, ed Eusebio, il fenomenale talento del Benfica. L’Urss fece sfoggio di un calcio atletico ammirevole e del solito, formidabile Lev Jašin. Ma fu opinione comune che a giocarsi il titolo arrivarono le squadre migliori. I padroni di casa sfruttarono il fattore campo soprattutto nei quarti di finale contro l’Argentina, mandata a casa da un gol di Geoffrey Hurst e da un clima intimidatorio, che si chiuse col memorabile epiteto di “Animals!” lanciato da Ramsey alla delegazione albiceleste. L’ossatura della squadra era composta dai talenti dell’”Academy” del West Ham Hurts, Moore e Peters, e dagli assi del Manchester United, Bobby Charlton e l’indemoniato mediano Nobby Stiles. La Germania Ovest giocava già un calcio rapido e moderno, guidata da un giovane centrale di centrocampo che andava a comporre una affascinantissima sfida delle sfide con Bobby Charlton nella finale: Franz Beckenbauer.

Con queste premesse, lo spettacolo non poteva certo latitare. Di solito bravi a rimontare, i tedeschi occidentali colpiscono per primi con Helmut Haller, ma subiscono quasi subito il pareggio del solito Hurst. I capovolgimenti di fronte sono tanti, ma i due protagonisti più attesi, Charlton e Beckenbauer, sentono l’affanno della tensione. Quando Peters a meno di un quarto d’ora dalla fine firma il sorpasso, Wembley è in delirio. Ma, è una banalità dirlo nel calcio, guai a dare per morti i tedeschi: allo scadere un tiro-cross di Siggi Held prende una traiettoria folle, con Gordon Banks in porta sbilanciato dai tanti “lisci” in area di rigore: l’ultimo che può arrivare sul pallone, allungandosi, è Weber, e ce la fa: 2-2 e supplementari dopo trentadue anni in una finale dei Mondiali.

E’ qui che Alf Ramsey mette il suo valore aggiunto: la sua rudezza e la sua imperturbabilità sono fondamentali in un momento in cui alla sua squadra potrebbe crollare il mondo addosso. “Li avevamo battuti, vuol dire che possiamo batterli ancora. Adesso”. Sono le parole che servono: le squadre sono stanche alla stessa maniera, ma l’Inghilterra riparte da uno 0-0 ideale che gli fa sfruttare la spinta forsennata di Wembley. Un “bomba” di Hurst, fenomenale nello stoppare, girarsi e tirare, si stampa sulla traversa, e sbatte sulla linea di porta: è gol? A quasi 50 anni di distanza se ne discute ancora. Le immagini tramandate non sono chiare, l’impressione è del gol, ma da un’altra angolatura il dubbio rimane. Il guardalinee Bakhramov, investito di una responsabilità enorme, professa sicurezza. E’ gol, e la storia non può più cambiare, anzi arriva il sigillo sempre di Hurst, che firma la sua tripletta. Il proverbiale aplomb inglese lascia spazio ad una festa che verrà tramandata di generazione in generazione, nei racconti di chi c’era, mentre la Regina consegna la Coppa Rimet nelle mani di Bobby Moore.

Il giorno dopo, di passaggio alla BBC Ramsey incrocia due giornalisti. Non sono due qualunque, ma gli unici che lo hanno difeso con editoriali di fuoco, quando il resto del paese gridava al sacrilegio per la profanazione del metodo-Winterbottom. “Alf… ce l’abbiamo fatta!” dissero avanzando a braccia spalancate verso il tecnico, che nel rispondere fu ancora più stringato che nel giorno della sua prima conferenza stampa: “E’ il mio giorno libero, non ho niente da dirvi”. In pratica, da “lasciatemi lavorare”, a “lasciatemi riposare”: ogni cosa a suo tempo, e caratteraccio a parte, per gli inglesi l’importante fu che Ramsey capì che era arrivato il momento di diventare campioni nei fatti, e non solo a parole.

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Calciatori Fabio Belli

Paulo Futre, talento cristallino e ginocchia fragili

di Fabio Belli

Di talenti inespressi, per sfortuna, scelleratezza o quant’altro, la storia del calcio è piena. Alcuni però sono ricordati più di altri, magari anche per aver lasciato un segno forte anche fuori dal rettangolo di gioco. Gli ‘altri’ invece escono di scena così come erano entrati, in punta di piedi, e ogni tanto nella mente degli appassionati riaffiora un flash, che fa rendere conto di quanto sia sottile il confine tra gli altari e la polvere.

futrePaulo Futre ne è un esempio lampante: ai Mondiali messicani del 1986 arriva con le credenziali di miglior talento portoghese degli ultimi venti anni. Non per niente, la Nazionale lusitana si ripresenta alla rassegna iridata esattamente a venti anni di distanza dal terzo posto ottenuto in Inghilterra dalla generazione di fenomeni che aveva in Eusebio la sua punta di diamante. La scuola portoghese sta di nuovo crescendo all’epoca, come dimostrato dalla semifinale raggiunta agli Europei del 1984. L’avventura in Messico finirà male, con una clamorosa eliminazione al primo turno per una squadra che, pur ricca di talenti, come spesso accade al Portogallo pecca in concretezza.

Futre ha però qualcosa in più: tipico numero dieci d’attacco, segna e fa segnare con la maglia del Porto. A soli ventuno anni si laurea Campione d’Europa, nella leggendaria finale del “tacco di Allah”, titolare al fianco di Madjer e Juary nella sfida vinta contro il Bayern Monaco. Futre non segna, ma le sue magie lo svelano all’Europa intera. L’Atletico Madrid se lo accaparra, in Spagna resterà per sei stagioni, più del previsto, perché un talento come il suo pareva destinato ai palcoscenici massimi, sin da subito. Il tallone d’Achille di Futre è un fisico che non garantisce una piena autonomia. Si infortuna spesso, e alle sublimi doti da rifinitore, non riesce ad abbinare medie realizzative convincenti.

Nel frattempo, la Nazionale del Portogallo vive una nuova involuzione che lo porta a mancare gli appuntamenti del Mondiale del 1990 e degli Europei del 1988 e del 1992. Ogni anni si parla di un suo possibile passaggio alle big della Liga come Barca e Real, ma non se ne fa mai nulla. Nel 1993 allora Futre si risolve di accettare le sirene italiane. La Reggiana neopromossa in Serie A lo presenta come il regalo per i tifosi del “Mirabello“. Sembra un grande passo indietro, ma negli anni Novanta il calcio italiano è imbattibile per qualità, visibilità e ovviamente anche per i salari. La Reggiana può essere l’occasione giusta per attirare l’attenzione delle grandi italiane, abituate a dominare nelle competizioni continentali, di quel periodo.

L’esordio è folgorante: Futre va subito a segno e dispensa magie nella sfida contro la Cremonese. Ma il destino ha piani crudeli, da subito, per la sua avventura italiana. A pochi minuti dalla fine del match, uno scontro con il difensore grigiorosso Pedroni gli costa la rottura del tendine rotuleo. E’ l’inizio di un calvario che lo vedrà restare fermo quasi due anni. Nel campionato 1993/94 quella resterà la sua unica presenza in Serie A, ne aggiungerà dodici l’anno successivo, senza evitare una malinconica retrocessione per gli emiliani.

In quelle stagioni il Milan di Berlusconi fa collezione di talenti, e tra Baggio e Savicevic, anche Futre viene aggiunto alla sbalorditiva parata che la squadra rossonera fa sfilare a San Siro. Ma il ginocchio ormai è andato: ironia della sorte, in maglia rossonera in campionato Futre scenderà in campo solo una volta, proprio contro la Cremonese, la squadra che ha segnato lo spartiacque della sua carriera. E’ la partita dello scudetto 1995/96, il quarto in cinque anni per il Milan di Fabio Capello. Futre concluderà la carriera appena due anni dopo in Giappone, a soli trentadue anni, e con sole 43 presenze negli ultimi 5 campionati da professionista. Resterà così uno dei più grandi talenti inespressi del football mondiale di tutti i tempi.