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Club Fabio Belli

Il West Ham degli anni ’60 e i gradini di Wembley

di Fabio Belli

Il calcio a Londra ha mille anime. Rivalità centenarie come quella tra Spurs e Gunners, vecchia e nuova aristocrazia come quella di Queens Park Rangers e Chelsea, realtà passate attraverso mille trasformazioni come il Crystal Palace. Ma ce ne sono altre più fortemente legate alla tradizione che, pur vantando una bacheca decisamente meno ricca di quella delle concorrenti, hanno accumulato un fascino destinato a non tramontare mai. Quella del West Ham è una storia legata a doppio filo agli anni d’oro del calcio inglese e al suo tempio per eccellenza: Wembley.

hammersIl West Ham non ha mai vinto il campionato: ha davvero lottato per il titolo in una sola occasione, nella stagione 1985/86. Fu l’apice del periodo, durato quindici anni, sotto la guida di John Lyall, con Tony Cottee in attacco ed Alan Devonshire a centrocampo a fare da leader in un gruppo partito dalla Seconda Divisione, ma ricco di talento. Alla fine, la vittoria sfumò nella tiratissima volata a tre con Liverpool ed Everton. Tuttavia, qualsiasi tifoso Hammers che si rispetti, identificherebbe l’epoca d’oro del club a cavallo degli anni sessanta, quando il West Ham era guidato da autentici campioni, e soprattutto formava la spina dorsale della Nazionale inglese più forte di sempre.

Era la squadra allenata da Ron Greenwood, maestro della panchina in grado di far sbocciare i talenti del sempre floridissimo settore giovanile degli Hammers. Non per niente uno dei soprannomi più noti del club è “The Academy“, per la sua capacità di portare alla ribalta giovani assi del football. Tra il 1958 ed il 1959, tra di essi emersero tre grandi protagonisti della finale vinta dall’Inghilterra contro la Germania Ovest nella finale del Mondiale giocato in casa nel 1966. Bobby Moore, il capitano, difensore capace di coniugare grinta ed eleganza; Martin Peters, implacabile incursore di centrocampo; ed il bomber Geoff Hurst, l’autore della storica tripletta di Wembley, e soprattutto del celeberrimo gol fantasma che spezzò l’equilibrio nei supplementari contro i tedeschi, in una delle finali rimaste nella storia del calcio.

Moore, Peters ed Hurst: un trio che per tre anni consecutivi fece la storia del West Ham e dell’Inghilterra, salendo per tre volte consecutive i gradini di Wembley per una premiazione. Nel 1964, quando la FA Cup finì per la prima volta tra le mani degli Hammers grazie al gol di Ronny Boyce a 5′ dalla fine del match, tiratissimo, contro il Preston North End. Nel 1965, quando nella finale di Coppa delle Coppe giocata a Londra, la doppietta di Alan Sealey regalò il primo alloro europeo al West Ham, nel 2-0 al Monaco 1860. In entrambi i casi, fu Bobby Moore ad alzare il trofeo, ma l’anno successivo per il capitano arrivò l’emozione più grande, visto che ricevette dalle mani della Regina Elisabetta la Coppa Rimet, quando fu lui con i suoi compagni Hammers, oltre a tutta l’Inghilterra, ad issarsi sul tetto del mondo. Oltre alla tripletta di Hurst che fece impazzire Wembley e tutto il Paese, infatti, fu Martin Peters a siglare l’altra marcatura nel 4-2 finale in favore dell’Inghilterra. Anni irripetibili, quando pensare West Ham significava dire mondo.

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Calciatori Fabio Belli

Liam Brady: il “calciatore intelligente”

di Fabio BELLI

Il concetto di “calciatore intelligente” è stato sviscerato negli anni spesso in un’unica direzione: ovvero, il giocatore a volte impegnato fuori dal campo, capace di esprimere concetti fuori dal coro, genio e sregolatezza che spesso si riflettevano però sul campo con prestazioni non sempre all’altezza della situazione. Per calciatore intelligente, però, si può anche intendere un termine squisitamente tecnico. Ovvero, il classico faro capace di guidare e leggere il gioco con quell’anticipo indispensabile per prendere in controtempo gli avversari. Tra i più intelligenti di sempre, in questo senso, l’irlandese Liam Brady può ritagliarsi un posto di tutto rispetto.

Aria distinta, forse anche leggermente snob, per tutta la seconda metà degli anni ’70 Brady è stato l’orgoglio dei tifosi dell’Arsenal, proprio per quella qualità superiore, le capacità di tiro e di regia del suo vellutato piede sinistro, che spiccavano in una squadra che, fino all’avvento di Arsene Wenger, era additata come sparagnina ed operaia (il “boring Arsenal nei cori di dileggio dei tifosi avversari). Brady era l’esempio che anche i Gunners potevano avere tra le loro fila un centrocampista raffinato, di dimensione europea, anche se la sua epopea a Londra Nord si esaurì con una FA Cup vinta nel 1979 e la grande delusione della finale di Coppa delle Coppe perduta l’anno successivo contro il Valencia.

Partito capellone, Brady vide la sua fronte perdere progressivamente la chioma nel corso della carriera da calciatore. “Gioca troppo a testa alta e prende troppa aria“, ridacchiavano bonariamente sulle tribune di Highbury i tifosi, in realtà omaggiando la sua grande eleganza palla al piede. Risero meno quando, alla riapertura delle frontiere nel campionato italiano, tra gli stranieri d’importazione il nome di Brady spiccò nella rosa della Juventus che puntò su di lui per garantirsi una solida e raffinata regia a centrocampo, dopo aver perso gli ultimi due assalti allo scudetto. Dopo 235 presenze e 43 gol in sette stagioni nella massima serie inglese, Brady lasciò l’Arsenal fra le lacrime di commozione dei tifosi.

L’ambientamento a Torino fu parecchio complicato, il suo stile per la rocciosa squadra allora allenata da Giovanni Trapattoni era forse troppo compassato per gli aspri ritmi della Serie A. A rimetterlo in riga ci pensò Beppe Furino, il “quattropolmoni” dei bianconeri che non aveva la classe del sinistro di Brady ma che, correndo a centrocampo anche per lui, non aveva problemi riguardo troppi palloni persi e scarso impegno. La musica cambiò già nella seconda metà del campionato 1980/81, conquistato dalla Juventus dopo una lunga sfida a distanza con Roma e Napoli. Il duello più emozionante fu quello dell’anno successivo contro la Fiorentina di Picchio De Sisti in panchina e Giancarlo Antognoni in campo. Le due squadre arrivarono a pari punti all’ultima giornata, in vetta alla classifica: ma mente i viola pareggiarono a Cagliari, la Juventus espugnò il “Ceravolo” di Catanzaro grazie ad un rigore trasformato da Brady con una proverbiale freddezza che i tifosi bianconeri ancora ricordano.

Vinto il secondo scudetto di fila, l’avvocato Agnelli lo sacrificò sull’altare dell’arrivo a Torino di Michel Platini. Brady non fece una piega, passando a dettare i tempi del gioco, sempre a testa alta, a Genova sponda Samp. In Italia si trovò bene, l’Inter lo pagò tre miliardi e mezzo per affidargli le chiavi del centrocampo ma arrivò solo a sfiorare per due anni consecutivi la finale di Coppa UEFA. Quindi, complice qualche acciacco, un passaggio all’Ascoli, allora provinciale di lusso. Nel 1987 decise di tornare in Inghilterra per chiudere la carriera e qualche tifoso dell’Arsenal sperò in un suo ritorno ma la sua scelta cadde sul West Ham: troppo intelligente, Brady, per non capire che le minestre riscaldate difficilmente riescono saporite.

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Club Fabio Belli

Blackburn Rovers, ovvero: Tim Sherwood meglio di Zidane

di Fabio Belli

In molti ritengono che le radici del calcio moderno, così come quelle del calcio antico, abbiano origine in Inghilterra. Di sicuro il football d’oltremanica, all’inizio degli anni novanta, è stato il primo che ha saputo riformarsi e trasformarsi in una vera e propria macchina da soldi: parliamo di ricavi, e non i miliardi investiti dai tanti che hanno usato il pallone come vetrina o, perché no, anche come sfizio personale. E non è un caso che a vincere nell’ultimo anno della vecchia Football League sia stato il Leeds United: il passaggio di Eric Cantona dallo Yorkshire agli odiati rivali del Manchester United, e con esso anche lo scettro di squadra padrona d’Inghilterra, ha rappresentato un vero e proprio cambio di epoca.

A quelli a cui il calcio moderno non piace, viene facile individuare questo momento come quello della morte dei tempi più romantici e avventurosi del football. Eppure, anche nel rigidissimo scacchiere della Premier League, dal 1993 ad oggi vinta da sole quattro squadre, due di Londra (Arsenal e Chelsea) e due di Manchester (United e City), c’è stata l’eccezione che conferma la regola. E di eccezione si può parlare a tutti gli effetti, visto che negli ultimi 25 anni i titoli nazionali dei campionati di primo livello, quando non sono finiti tra le mani di grandi canoniche, hanno premiato club che avevano effettuato investimenti enormi sulla loro crescita. Lazio e Roma in Italia, ma anche Deportivo La Coruna e Valencia in Spagna, oppure il Wolfsburg in Germania, sono squadre arrivate al titolo allestendo formazioni con fior di campioni, e potendo contare su una potenza economica non indifferente.

Agli occhi di oggi appare incredibile quindi che nel 1995 il titolo sia stato festeggiato dal Blackburn Rovers: espressione di una cittadina di appena centomila abitanti nel cuore del Lancashire, e club passato alla storia per aver posto le basi della nascita del “sistema”, proponendo un 2-3-5 chiamato fantasiosamente “Piramide di Cambridge”. Piccolo particolare, era il 1893: anni ruggenti del calcio inglese, nei quali il Blackburn aggiunse a cinque FA Cup conquistate prima dell’avvento del ventesimo secolo, anche due titoli d’Inghilterra datati 1911 e… 1914. Ritrovare ottantun anni dopo ai vertici del calcio i Rovers non era certo nei piani degli ideatori della ricchissima Premier League, ma quella del 1995 fu una squadra che fece della normalità un lusso.

Nel 1992 il Blackburn si era classificato sesto in seconda divisione: la promozione nella neonata Premier arrivò grazie ad una vittoria da outsider assoluta nei play off. Ma quella squadra era pronta ad esplodere: dal Chelsea arrivò in prestito un diavolo della fascia, feroce progressista e mente geniale, Graeme Le Saux. In attacco, il club aveva speso cinque milioni di sterline per affiancare ad Alan Shearer il quotatissimo Tim Sutton del Norwich City, e alle loro spalle c’era il fantasioso Tim Sherwood, nel quale Kenny Dalglish in panchina riponeva una fiducia cieca. Tanto che per puntare su di lui, il club evitò la stagione successiva al titolo di versare quattro milioni di sterline nelle casse del Bordeaux per un certo… Zinedine Zidane. Roba che probabilmente avrebbero spedito nel Lancashire dalla Francia anche una cassa di vini omaggio per chiudere l’affare.

Tornando alla stagione del titolo, dietro alle imprese del Blackburn c’era il magnate dell’acciaio Jack Walker, tutt’altro che un Berlusconi per l’epoca, soprattutto rispetto alle grandi che spendevano e spandevano, Manchester United in testa. Ferguson diede una bella ripassata a Dalglish sia all’andata che al ritorno, ma contro le cosiddette piccole il Blackburn non perdeva un colpo né in casa né in trasferta. Era la normalità al potere: Alan Shearer segnava come nessun altro in Europa (chiuse il campionato con 34 reti!), e nelle interviste indicava salsicce e fagioli come suo piatto preferito. Era una squadra che non faceva sognare nessuno, tranne i suoi tifosi e i migliaia di simpatizzanti che in Europa ne seguivano l’impassibile scalata.

All’ultima giornata, i Rovers avevano 2 punti di vantaggio sullo United, e dovevano giocare ad Anfield contro il Liverpool. Lo United andava sul campo del West Ham con la certezza di vincere il titolo in caso di arrivo a pari punti, per la migliore differenza reti. Gli Hammers passarono in vantaggio mentre Shearer buttava nel sacco il suo ultimo pallone della stagione. Un lieto fine annunciato? Macché: il Manchester United prese a dominare contro un West Ham senza più obiettivi in campionato, e pareggiò facilmente, bombardando letteralmente il portiere avversario Miklosko, mentre Barnes e Redknapp (al 93′) ribaltano la situazione a Liverpool. I tifosi del Blackburn impallidiscono, mentre la tv inglese negli ultimi 30 secondi tiene la telecamera fissa su Kenny Dalglish, che appare quasi rassegnato a ricevere la notizia più temuta: grazie a Miklosko la beffa però non arriverà mai, e dopo aver assaggiato cos’era un vero thriller, i super-normali festeggiarono un titolo atteso 81 anni. Incredibile ma vero: e con Zidane la storia probabilmente sarebbe continuata, ma in fondo in un angolo del Lancashire sanno bene che non sono loro ad essersi persi Zizou, ma il resto del mondo a non aver ammirato da vicino Tim Sherwood al massimo della sua forma.

 

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Club Fabio Belli

La storica eliminazione del 1992: Wrexham-Arsenal e il miracolo al Racecourse Ground

di Fabio Belli

Nick Hornby nel suo celeberrimo “Febbre a Novanta” prende questa sconfitta come metro di paragone per il fatto che nessun momento felice, nel calcio, dura mai abbastanza a lungo. Dopo un’attesa ventennale la vita dello scrittore e dell’Arsenal sembrano prendere la piega desiderata, ma sul più bello, nel pieno della gestione di George Graham che ha riportato i Gunners alla gloria nazionale, arriva la doccia fredda. Nella stagione 1991/92, ambizioni europee frustrate dal Benfica, e quelle interne dal… Wrexham. Quanto accaduto il 4 gennaio del 1992 al Racecourse Ground, nel terzo turno di FA Cup, resta impresso nella memoria di tutti i tifosi inglesi e gallesi, e torna d’attualità con l’altrettanto clamorosa eliminazione, nel primo turno della Coppa di Lega, del Manchester United per mano del Milton Keynes Dons.

Quella però è storia di oggi: sono invece passati ventidue anni dal miracolo del Racecourse Ground, uno dei campi più gloriosi del Galles, casa del Wrexham e spesso anche della Nazionale locale. Uno stadio che il Guinness dei Primati riconosce come il più antico della storia del calcio tra quelli ancora in piedi. A livello di club, il momento più alto al Racecourse fu vissuto senza dubbio in quella fredda giornata di gennaio, con le festività natalizie ancora non del tutto consumate.

Il fascino della FA Cup è noto: si parte dagli scontri tra le più piccole, amatoriali, sconosciute realtà del calcio britannico, e man mano si arriva al fatidico terzo turno, dove le formazioni in grado di azzeccare una buona serie di vittorie nelle fasi preliminari, possono arrivare ad affrontare i giganti del calcio inglese. Così accadde al Wrexham, che nel 1992 si trovava in quarta divisione, in declino dopo un passato di tutto rispetto, che negli anni ’70 aveva portato il club a disputare anche i quarti di finale della stessa FA Cup, e quelli di Coppa delle Coppe contro l’Anderlecht, competizione alla quale i club gallesi che partecipavano ai campionati inglesi potevano comunque accedere, grazie ai successi nella coppa nazionale del Galles.

A Racecourse Ground si presentò un Arsenal capace di centrare due titoli nazionali nel 1989 e nel 1991, e che George Graham aveva trasformato, modernizzando un impianto di gioco che, oltre a costare alla squadra di soprannome di “Boring Arsenal“, era ormai sorpassato ed era costato al club troppi insuccessi. Ma come dicevamo all’inizio, nulla di bello dura mai abbastanza a lungo. La campagna d’Europa nel nuovo Super-Arsenal si era già interrotta prima del tempo, ma nessun tifoso assiduo frequentatore di Highbury poteva immaginare cosa sarebbe accaduto nel Nord del Galles in quel terzo turno di FA Cup.

Di vittorie contro il pronostico la storia del calcio è piena zeppa, ma quella colpì un immaginario collettivo che riteneva impossibile che i campioni d’Inghilterra capitolassero di fronte ai piccoli gallesi, soprattutto quando i 13343 del Racecourse Ground videro Alan Smith piazzare il pallone in fondo al sacco per il vantaggio dei Gunners. Ma a quel punto l’uomo del destino divenne Mickey Thomas, 37 anni, ex nazionale gallese capace di piazzare un calcio di punizione al fulmicotone alle spalle di David Seaman. Il Racecourse, che pure ne aveva viste nella sua già ultracentenaria storia, divenne una bolgia che esplose definitivamente quando il giovane Steve Watkin realizzò l’incredibile sorpasso. 2-1, e come Hornby racconta, i commentatori della BBC ringraziarono il tecnico del Wrexham per aver “deliziato milioni di persone”. Segno che la cattiva fama del “Boring Arsenal” non era stata cancellata da due stagioni di successi. Poi venne Arsene Wenger, ma quella è un’altra storia, esattamente come Milton Keynes-United.

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#Contromondiali Fabio Belli

#Contromondiale 07: #Colombia, #Gervinho, #Jesongpazz, #Song, #Die, #Suarez, #England #FAIL, #Balotelli

di Fabio Belli

Camerun – Croazia 0-4

Je SONG pazz'?
Je SONG pazz’?

39. Il tormentone della notte è stato “Je Song Pazz'”, cantata alla maniera di Pino Daniele. Un pugno-gomitata del calciatore del Camerun stile wrestling a Mandzukic, col bomber del Bayern Monaco che ha sperimentato gli effetti di un colpo della strega istantaneo. Rissa inevitabile, ma forse a pensarci bene i nervi del Camerun sono saltati ancora prima della partenza per il Brasile, con la stucchevole querelle-premi che non ha fatto onore a Eto’o (assente contro i croati) e compagni. La Croazia ringrazia, non per dire, e dopo le recriminazioni contro il Brasile, ora il destino si compirà nella sfida-spareggio contro il Messico.

Colombia – Costa D’Avorio 2-1

Gervinho profeta anche in patria
Gervinho profeta anche in patria

40. I protagonisti di questo Mondiale, per un motivo o per l’altro, faticano ad essere inquadrati come uomini-mercato. Per Gervinho il problema non riguarda limiti di età o poca dimestichezza col calcio europeo, ma un prezzo che a questo punto la Roma difficilmente riuscirà a quantificare per la sua ala. Considerando anche quanto è stato pagato da un Arsenal che alla sua partenza, organizzò anche una specie di festicciola. Solitamente lungimiranti, i Gunners hanno dovuto assistere alla rinascita della freccia nera, che in Brasile sta dimostrando come la sua ritrovata qualità non sia dovuta al calo di quella del calcio italiano, anzi. Nonostante la sua prodezza che fa il paio con quella contro il Giappone, la Costa D’Avorio è uscita sconfitta, ma contro la Grecia il passaggio del turno potrebbe arrivare.

I colombiani, ballerini provetti.
I colombiani, ballerini provetti.

41. E’ l’ex Udinese e Napoli Pablo Armero il coreografo degli entusiasti balletti della Colombia, che nonostante l’assenza di Radamel Falcao, sta tenendo fede alle previsioni che volevano i Cafeteros tra le rivelazioni del Mondiale. In quanto ad entusiasmo i colombiani se la giocano generosamente con la “Marea Roja” cilena, ma nel duello tra tifosi in tribuna, i colombiani trovano un bonus nell’atteggiamento scatenato dei giocatori in campo.

Per Serey Die lacrime di emozione e non per la morte del padre, avvenuta nel 2004
Per Serey Die lacrime di emozione e non per la morte del padre (come si era ipotizzato), avvenuta nel 2004

42. Una nota commovente l’ha regalata Serey Die, in lacrime durante l’inno nazionale della Costa D’Avorio. Troppo commovente: è girata in fretta la voce che a Die fosse stata comunicata la morte del padre, prima di scendere in campo. Versione smentita dallo stesso calciatore su Instagram: solo commozione per il momento e l’onore di rappresentare il proprio paese. Il pensiero di Die prima di una partita importante vola comunque sempre verso il genitore che è morto sì, ma nell’ormai lontano 2004.

Uruguay – Inghilterra 2-1

Il Daily Star ipotizza uno strano complotto ai danni di Luis Suarez
Il Daily Star ipotizza uno strano complotto ai danni di Luis Suarez

43. All’arrivo dell’Uruguay in Brasile, ha tenuto banco un tweet dell’ex portiere della Lazio, ora al Galatasaray, Fernando Muslera, che ha mostrato come le camere degli “orientales” fossero invase dalle formiche in albergo. Un caso sul quale il Daily Star ha scherzato alla vigilia della partita-spareggio di San Paolo, prendendo di petto proprio Luis Suarez, che reduce da un infortunio, si sarebbe ritrovato le fastidiose formichine anche tra le mutande. Guai a stuzzicare i campioni: al ritorno dopo l’operazione, Suarez ha timbrato per due volte il cartellino con il gol: e anche senza formiche, una certa sensazione di fastidio nella biancheria intima l’hanno senz’altro provata i tifosi inglesi.

Pronto per la panchina dell'Inghilterra?
Pronto per la panchina dell’Inghilterra?

44. Dopo la Spagna, anche l’Inghilterra incassa due ko in altrettanti incontri in Brasile. E se la stampa iberica ha mostrato riconoscenza verso un gruppo che negli ultimi otto anni ha regalato lustro e trofei una volta impensabili per le Furie Rosse, c’è da pensare che i salacissimi tabloid inglesi non risparmieranno ai Leoni d’Inghilterra (ancora attaccati a una flebile speranza di qualificazione legata al risultato di Italia – Costa Rica) critiche bollenti. Allenatore in particolare sulla graticola, considerando anche che il raddoppio di Suarez è arrivato praticamente su rinvio di Muslera. E c’è già chi avanza proposte per il sostituto di Roy Hodgson in panchina: questo tifoso sembra avere le carte in regola, e soprattutto l’espressione giusta.

Balotelli commenta con la consueta sobrietà Uruguay-Inghilterra
Balotelli commenta con la consueta sobrietà Uruguay-Inghilterra

 

 

 

 

 

 

45. Un dato spicca riguardo al possibile flop di Rooney e compagni: se si escludono le mancate partecipazioni del 1974, del 1978 e del 1994, l’ultima eliminazione al primo turno dell’Inghilterra risale al 1958. Solo un’altra volta poi accadde nella storia, nel 1950: il Brasile non porta di certo fortuna agli inglesi. Che oltre al danno, si sono dovuti sorbire l’irriverente tweet di Mario Balotelli, che con i sudditi di sua Maestà, alla fine della sua esperienza al Manchester City, non si è lasciato proprio benissimo…

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#Contromondiali Fabio Belli

#Contromondiale 02: #Cafeteros, #Gallina, #TeoGutierrez, #Uruguay, #Campbell, #Italia, #staystrongfisioterapista

di Fabio Belli

Colombia – Grecia 3-0

La Colombia aveva già interpellato un'esperta per essere sicura di vincere
La Colombia aveva già interpellato un’esperta per essere sicura di vincere

9. Gli emuli del “Polpo Paul”, che nel 2010 si spostava verso la bandiera della squadra vincente nella partita per la quale veniva interpellato, negli anni si sono moltiplicati. La Gallina colombiana è sicuramente partita col piede giusto: considerando come sono iniziati questi Mondiali, la gallinella è già un pezzo avanti rispetto a tanti quotatissimi esperti, che per bucare le previsioni peraltro non si accontentano di un pugno di becchime. Anzi…

Il "caratterino" di Teofilo Gutierrez
Il “caratterino” di Teofilo Gutierrez

10. Teofilo Gutierrez, tra i migliori in campo dei “Cafeteros”, ha una reputazione da Bad Boy che Balotelli al confronto è l’idolo delle orsoline. La rissa è il suo mestiere, e poca differenza fa se di fronte ci sono arbitri o avversari. Uno sputo galeotto verso un direttore di gara ai tempi della sua militanza nel Racing di Avellaneda, gli ha fatto rischiare 30 giornate di squalifica. Ora gioca nel River Plate, ed ha iniziato il Mondiale sostituendo un certo Radamel Falcao. E andando subito a segno.

Uruguay – Costa Rica 1-3

100 pacchetti di figurine, ma di Joel Campbell neanche l'ombra. Ora il Mondo lo conosce meglio...
100 pacchetti di figurine, ma di Joel Campbell neanche l’ombra. Ora il Mondo lo conosce meglio…

11. Si meriterebbe un posto nella lista della spesa, lunghissima e sempre molto ricca, che i club di tutto il mondo si appuntano a fine Mondiale. Ma su Joel Campbell, mattatore della grande sorpresa del match di Fortaleza, autore di un gol e un assist contro l’Uruguay, ha già messo da tempo le mani l’Arsenal. Bravi i Gunners a crederci e a mandarlo già a giocare da due anni all’estero: ora probabilmente farà ritorno all’Emirates, dove già lo conoscono bene, mentre tutto il mondo si chiedeva chi fosse. D’altronde, prima dell’esordio Campbell aveva “twittato” il suo disappunto perché, su cento pacchetti di figurine ufficiali di Brasile 2014, la sua non era uscita fuori neanche una volta.

Anche Homer Simpson sembra voler scherzare su sulla debacle uruguaiana
Anche Homer Simpson sembra voler scherzare su sulla debacle uruguaiana

12. Il disappunto dell’Uruguay non è inferiore a quello della Spagna: in uno dei gironi di ferro del Mondiale, la Costa Rica doveva essere la squadra materasso, e invece orfani di Suàrez, gli “orientales” vedono già a rischio la difesa del quarto posto di quattro anni fa. La partita d’esordio nel Mondiale resta comunque indigesta all’Uruguay, che non vince il suo primo match iridato dall’edizione del 1970, 2-0 contro Israele.

Inghilterra – Italia 1-2

Tifosi all'Arena Amazonas: ma non ditelo alle mogliettine...
Tifosi all’Arena Amazonia: ma non ditelo alle mogliettine…

13. Raggiungere Manaus, nel cuore della foresta amazzonica, è sicuramente una nota di merito per i tifosi, una medaglia che può restare sul petto per tutta la vita. All’Arena Amazonia gli inglesi erano in maggioranza rispetto ai tifosi azzurri, ma il pubblico brasiliano ha preso le parti di Pirlo e compagni. Ma i veri vincitori sono questi supporters che nello striscione hanno specificato: “Non riprendeteci: le nostre mogli credono che siamo nel Galles occidentale a pescare.” Appello disatteso…

Per raggiungere l'Arena AmazoniA bisogna attraversare una modesta barriera di vegetazione
Per raggiungere l’Arena Amazonia bisogna attraversare una modesta barriera di vegetazione

14. Parlando della partita, è evidente come abbia funzionato la “catena” di destra, con Darmian autentica rivelazione e Candreva scatenato, assist-man perfetto per il gol vittoria di Balotelli. Meno ha funzionato la difesa, con Chiellini un po’ spaesato a sinistra e Paletta in difficoltà nel contesto Mondiale. Tanto che su Twitter l’hashtag #Paletta tra primo e secondo tempo è balzato in testa sulla piattaforma di microblogging. Superato però decisamente da #staystrongfisioterapista: Gary Lewin, fisioterapista dell’Arsenal oltre che della Nazionale inglese, per festeggiare il gol di Sturridge è caduto su una bottiglietta d’acqua poggiata in terra, procurandosi una brutta storta alla caviglia. Per lui, Mondiale finito, e per i Tre Leoni ora parte la caccia al fisioterapista… del fisioterapista.

Costa D’Avorio – Giappone 2-1

Drogba & Gervinho, la coppia d'oro della Costa D'Avorio
Drogba & Gervinho, la coppia d’oro della Costa D’Avorio

15. Costa D’Avorio-Giappone ha rappresentato una sfida per i tifosi europei: dall’Arena Pernambuco la partita è iniziata alle due di notte in Inghilterra, alle tre a Roma, alle quattro ad Atene e alle sei del mattino di Mosca. E’ partita una gara di resistenza che ha coinvolto tutti nel Vecchio Continente. In Giappone il match è iniziato alle dieci del mattino, e per i nipponici il risveglio è stato amaro. Squadra di Zaccheroni rimontata, match cambiato dall’ingresso di Didier Drogba che si è dimostrato per l’ennesima volta cavallo di razza: i Campioni, alla fine, sono sempre loro.

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Calciatori Club Enrico D'Amelio

Steven Gerrard e il mito di Anfield

di Enrico D’Amelio

Il calcio è un fenomeno sociale, specchio dell’antagonismo che storicamente ha contraddistinto ogni uomo. Questo, con tutta probabilità, lo ha portato ad essere un rito così longevo, con una storia plurisecolare, destinato a durare nel tempo nei vari angoli del mondo. Ogni paese, però, è figlio della propria cultura che da sempre ne ha caratterizzato l’essenza. Se pensiamo all’Inghilterra, ad esempio, una sola parola può balenare alla nostra mente: tradizione. Lì, il 26 ottobre del 1863, è nato il football. Regno Unito sinonimo di storia e leggende, come quelle esibitesi in un tempio (chiamarlo stadio sarebbe riduttivo) che non ha eguali nel mondo come fascino e mito: Anfield.

urlQuando si varcano quei cancelli, da spettatore o attore protagonista, nulla potrà più rimanere come prima. Centinaia di migliaia coloro i quali ne hanno fatto parte in 129 anni di vita (la fondazione risale al lontano 1884), una sola la presenza costante: quella delle undici maglie rosse del Liverpool Football Club. Non ce ne vogliano i più giovani, possibili simpatizzanti di un Chelsea diventato dalla fine degli anni ’90 una delle squadre più in vista del paese e non solo, o di quell’Arsenal raccontato magistralmente dallo scrittore Nick Hornby in un libro oramai di culto, ma la rivalità che da sempre spacca in due il paese della Regina è quella che vede protagoniste Liverpool e Manchester United. Circa 80 i chilometri che dividono le due metropoli, lontane non solo logisticamente dalla Londra cosmopolita e multietnica. La working class al potere, con storie che vanno oltre il campanilismo puramente calcistico. Si narra che un tassista di Liverpool, ogni qual volta dovesse condurre un passeggero nell’odiata città rivale, abbassasse il finestrino e sputasse a terra una volta arrivato a destinazione, per sottolinearne odio e disprezzo.

Da alcuni anni, complice l’egida quasi trentennale di Sir Alex Ferguson, i Red Devils sono diventati la squadra più titolata d’Inghilterra, con 19 titoli nazionali contro i 18 dei rivali, ma i Reds sono avanti 5 a 3 a livello di Coppe dei Campioni, con l’ultimo successo arrivato nel 2004/05, al termine di una rocambolesca, storica finale contro il Milan di Carlo Ancelotti in quel di Istanbul. La rete di capitan Maldini, la doppietta di Hernan Crespo, per un 3-0 all’intervallo che aveva il sapore dell’umiliazione. Lì, dopo alcuni anni di anonimato, l’anima della Merseyside è riemersa dalle ceneri, con protagonista un ragazzo di Liverpool entrato nella leggenda: Steven Gerrard. E’ lui, con il gol che ha accorciato le distanze, a prendere per mano i suoi. Poi tocca a Smicer segnare la rete del 3-2, fino al pareggio arrivato grazie a Xabi Alonso, dopo che il tiro dagli undici metri era stato respinto da Nelson Dida. E poi i supplementari, le parate incredibili di Dudek su Shevchenko e, infine, la lotteria dei rigori.

Steven Gerrard il predestinato. Quello che, nella sua autobiografia, ha rivelato di giocare per il cugino Joh-Paul Gilhooley, morto a dieci anni nella tragedia del 1989 di Hillsborough durante la semifinale di Coppa di Lega contro il Nottingham Forest. Quello che a 19 anni, dopo essere stato sorpreso insieme ad alcuni suoi giovani compagni in un pub a tarda notte, ebbe la maturità di dire: “Mi vergogno. Non per me stesso. Ma perché con la mia bravata ho infangato il nome del Liverpool Football Club”. Quello che rinuncia ad andare nei club più forti d’Europa per alzare la Champions League con la maglia rossa, il numero 8 sulle spalle e la fascia di capitano al braccio. Quello che, con una moglie bellissima e tre splendide figlie, ha l’ardore di dire: “Quando starò per morire, non portatemi in ospedale, ma ad Anfield. Qui sono nato e qui voglio morire”. Certamente, Steven. Ma prima altre battaglie t’aspettano. Con la maglia rossa, all’interno del tempio. E con una curva capace di spingere il pallone in rete, quei 20000 vessilli che sventolano e un canto che risuona incessante, sulle inconfondibili note di “You’ll never walk alone”.

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Calciatori Club Fabio Belli

La punizione di Patrick Andersson e lo Schalke 04, in 54 anni campione di Germania solo per quattro minuti

di Fabio Belli

L’orgoglio della Ruhr si chiama Schalke 04. In Germania, la zona della RenaniaWestfalia vive da anni calcisticamente sui toni accesi della rivalità tra Schalke 04 e Borussia Dortmund. Ma se i gialloneri, pur a fasi alterne e con lunghi periodi di magra, sono stati sempre tra i club padroni del calcio della Germania Occidentale, quello di Gelsenkirchen accende una passione tra i propri tifosi non sempre alimentata dai risultati, anzi. E nonostante le cinque Coppe di Germania conquistate ed i buoni risultati in campo europeo, con la Coppa UEFA vinta nel 1997 in finale contro l’Inter e la semifinale di Champions League disputata nel 2011, il grande cruccio dei tifosi dello Schalke resta la Bundesliga.

Con la stagione 2011/12 che ha visto proprio gli odiati cugini del Dortmund come conquistatori del Meisterschale, il piatto-trofeo consegnato ai campioni di Germania, il digiuno in campionato dei biancoblu di Gelsenkierchen dura ormai da 54 anni. In tutto questo lasso di tempo, mai lo Schalke è stato campione di Germania… fatta eccezione per quattro minuti. Per la precisione, i quattro minuti finali della stagione 2001/02, quando era già terminata l’ultima partita stagionale dello Schalke contro l’Unterhaching, vinta per 5-3 dopo che Die Knappen, ovvero i minatori, erano stati sotto di due reti.

Come si può essere campioni per soli duecentoquaranta secondi? Semplice, perchè nonostante il principio di contemporaneità, sacro nella disputa delle ultime giornate di campionato, quando finisce la tua ultima partita, potrebbe essere ancora in corso quella degli altri. Se nella fattispecie gli altri sono i rivali di tutto l’anno, il Bayern Monaco, allora ecco che la conclusione della stagione assume automaticamente tutti i crismi del thriller. Arrivati all’ultima giornata del campionato 2000/01 divisi da tre soli punti, allo Schalke serviva che il Bayern perdesse ad Amburgo per piazzare l’aggancio in extremis e spezzare il tabù-Bundesliga in virtù della miglior differenza reti. Ebbene, dopo l’altalena di emozioni contro l’Unterhaching, con i bavaresi sempre inchiodati sullo 0-0, il miracolo: al 90′ Barbarez porta in vantaggio l’Amburgo, gettando i tifosi del Bayern nella prostrazione, e facendo esplodere, grazie al tam-tam via radio, quella che allora era la tana dello Schalke, il Parken.

Può il destino voltarti clamorosamente le spalle dopo un invito così sfacciato? Può la sorte essere così incoerente nel giro di pochi istanti? Di favole di questo tipo il calcio ne ha viste, campionati vinti all’ultimo tuffo quando tutto sembrava perduto: dall’Arsenal 1989 immortalato da “Febbre a 90′” di Nick Hornby, fino alla Lazio del 2000 e al recente caso del Manchester City, gli esempi abbondano ed anche allora il pubblico del Parken aveva invaso il campo pronto a celebrare la fine della traversata del deserto. Ma in pieno recupero, ad Amburgo, 4′ dopo il gol di Barbarez, venne assegnata una punizione a due in area in favore Bayern Monaco, evento già di per sè molto raro, poi in un finale di campionato come quello… e quando, inaspettatamente e al posto dello specialista Effenberg, andò alla battuta il difensore svedese Patrick Andersson, specialista dei calci piazzati “potenti“, a Gelsenkirchen qualcuno se lo sentiva già. E così arrivò il gol che regalò il titolo più inatteso nella storia del club più titolato di Germania, e confermò allo Schalke una lezione nota: solo il destino sa quando, nel bene e nel male, deve arrivare il tuo momento. Lezione che anche allora fu valia per Andersson, così come per il club di Gelsenkirchen.

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Dinamo Mosca, la leggenda del “Ragno Nero” vuole resistere nel tempo

di Fabio Belli

Nella guerra a colpi di decine di miliardi che i magnati russi stanno combattendo nel mondo del pallone senza esclusione di colpi, alcune leggende del calcio ex sovietico rischiano di uscire stritolate. Tra gli ingaggi fuori dalla realtà dell Anzhi, l’ombra di Roman Abramovich che accudisce il CSKA, i giganti del Tartastan del Rubin Kazan e la Gazprom che regala allo Zenit una propulsione valsa due scudetti di fila, gli ex potenti del calcio russo faticano a restare sopra la linea di galleggiamento. Spartak e Lokomotiv, tanto per citarne un paio, continuano a lottare per un posto in Europa, ma la loro egemonia sembra lontana.

Ma c’è un nome su tutti che manca da tempo al gran ballo della Champions League, e più in generale nel calcio europeo che conta, ma che non molla pur non avendo un vero e proprio colosso economico alle spalle, e che sta lottando per rientrare nelle Coppe dalla porta principale. E’ la Dinamo, la squadra del ministero degli interni di Mosca ai tempi dell’impero sovietico, ora senza titolo nazionale da 36 anni ma che di campionati dell’URSS ne può contare ben undici, quando a difendere la porta dei “poliziotti” c’era un certo Lev Jašin, il “Ragno Nero“, considerato unanimemente il più grande portiere di tutti i tempi, nonché l’unico estremo difensore capace di aggiudicarsi il riconoscimento individuale più ambito per un calciatore, il Pallone d’Oro.

Jašin è “la” leggenda della Dinamo Mosca, perchè ne incarna anche l’essenza polisportiva. Il club infatti vanta sezioni negli altri sport altrettanto vincenti nella storia rispetto al calcio. Innanzitutto l’hockey su ghiaccio, ma anche pallavolo e pallacanestro maschile e femminile, calcio a 5 e pallanuoto. In pochi sanno che Jašin, pur difendendo la porta della Dinamo dal 1949 al 1970, fino al 1954 fu anche il numero uno della squadra di hockey su ghiaccio, con la quale vinse il campionato nazionale nel 1953.

Il mito della Dinamo affonda comunque le sue radici a ben prima dell’arrivo di Jain. Il fatto di essere un club molto vicino al governo attirò molte antipatie in tutta l’URSS sulla squadra, che era comunque di gran lunga la più forte del paese già prima della Seconda Guerra Mondiale. Rimase impressa nella storia una tournèe nel Regno Unito nel 1945: completamente sconosciuti, i giocatori sovietici impressionarono la stampa e i tifosi inglesi, pareggiando per 3-3 contro il Chelsea, vincendo per 10-1 contro il Cardiff City, e battendo l’Arsenal, rinforzato dalla presenza di Stanley Matthews e Stan Mortensen per 4-3, per concludere poi con un pareggio per 2-2 contro i Rangers Glasgow.

Alla Dinamo è mancato l’alloro internazionale, sfumato nel 1972 a Barcellona in una tiratissima finale di Coppa delle Coppe proprio contro i Rangers. I tifosi della Dinamo dovettero assaggiare, tra i primi a livello continentale, la furia degli hooligans scozzesi: incidenti che non degenerarono ulteriormente proprio grazie all’abitudine dei tifosi moscoviti a non rispondere alle provocazioni. Attualmente, come detto, la stella della Dinamo non brilla più luminosa come un tempo, col club stritolato dalla potenza economica dei tycoon russi. Ma in questo 2012 la squadra, nel fortino all’inglese del “Dynamo Stadium” di Petrovski Park, sta lottando alla pari con i colossi che a colpi di milioni di dollari si sono guadagnati la ribalta delle cronache. La leggenda del “Ragno Nero” sta per tornare?