Discriminazione territoriale, questa sconosciuta new entry nel bon ton del calcio italiano. Non è facile capire perché, dalla sera alla mattina, diventino ragione di chiusura degli stadi dei cori che, per anni, sono stati, se non ignorati, quantomeno trattati come folklore. Allo stesso modo, sull’argomento si è passati dalle prime pagine dei giornali un mese fa ad una sorta di oblio, con multe leggere (Blatter dixit) quasi ad ogni turno e un vuoto disarmante intorno.
Quindi è lecito supporre che la sostanza del discorso risiede altrove. Dove? Non tanto nel capire cosa sia, esattamente, la discriminazione territoriale, quanto nello stabilire come si possa affrontare e, perché no, superare quello che è un problema culturale prima ancora che giuridico. Anche per evitare, come accade spesso, che sia la maggioranza a pagare le colpe di alcuni, poiché una curva chiusa, uno stadio chiuso, sono scelte che ricadono sulla maggioranza dei tifosi che hanno sottoscritto abbonamenti o acquistato biglietti. E sulle varie società, che rischiano di ritrovarsi come ostaggi di tifosi, pronti a usare i cori come eventuale arma di ricatto.
Insomma, l’Italia riesce a ribaltare la legge nel suo contrario per poi dimenticarsene: una norma che in Europa sembra funzionare da noi finisce per diventare motivo di scontro. Soluzioni ce ne sarebbero, sempre guardando all’Europa, o meglio al famoso esempio inglese. Se è vero che il fenomeno degli hooligans è stato debellato, o meglio espulso dagli stadi e forse trasferito altrove, è innegabile che in quel contesto le regole sono chiare e vengono applicate, con punizione in flagranza di reato, grazie anche al supporto di un Parlamento che ha varato leggi apposite in materia. In Italia, al contrario, da qualche mese buona parte dei tifosi delle curve sono diventati razzisti, e dalla sera alla mattina si chiudono gli stadi. Senza discussione pubblica alcuna, figurarsi in Parlamento!
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