Mario Kempes: il mistero di una stretta di mano negata

di Valerio Fabbri

Il campionato Mondiale di Argentina 1978 è passato agli annali del calcio come il mondiale dei generali. La Selección raggruppata da César Menotti, tecnico imposto fal regime, si dimostra molto patriottica. Il tecnico di Rosario lascia a casa il diciassettenne Diego Armando Maradona, giudicato acerbo, in realtà con troppa personalità per degli equilibri già fragili. La maglia numero 10 dell’albiceleste è pur sempre una casacca pesante, e a vestirla quell’anno è Mario Alberto Kempes, El Matador, un calciatore vecchie maniere, uno che vede il pallone e basta, un cavallone di razza che gode a buttarla dentro, al punto che in Spagna si aggiudica per due volte il titolo di Pichichi con il Valencia. Non si espone sulla dittatura dei generali, non è né pro né contro. Forse per salvare la pelle, forse perché vivendo all’estero non ha piena conoscenza degli eventi, di sicuro perché adora giocare a pallone, e da buon sudamericano si esalta a farlo con la nazionale. Nel girone eliminatorio rimane all’asciutto di gol, poi Menotti gli dice di tagliarsi i baffi e come per magia si sblocca. Con tre doppiette contro Polonia, Perù e in finale contro l’Olanda di Cruijff, si laurea capocannoniere e viene premiato miglior giocatore del Mondiale. Ma la trasformazione in simbolo vincente di una nazione vincente, alla sua prima affermazione mondiale, non avviene.

Mario Kempes of Argentina celebrates scoring a goalMentre l’hidalgo Passarella porta in trionfo la Coppa di fronte al generale Videla, il gaucho Kempes è dall’altro lato del campo, coinvolto nei festeggiamenti della gente. E per l’estasi di quei momenti “si dimentica” di stringere la mano al generale. Fu l’unico. Una dimenticanza sempre definita involontaria e senza scopi politici. Possibile, eppure difficile a credersi. Nel mondo c’era ancora il muro di Berlino, il Papa polacco sarebbe arrivato dopo qualche mese, Gorbachev era lontano da venire. Non stringere la mano a Videla non poteva essere un gesto qualsiasi. Qualcuno lo riabattezzò il Che Guevara del futbol, ma lui è sempre rimasto schivo, anche se avrebbe potuto diventare un’icona di rivolta prima ancora che calcistica.

Forse ha ragione Kempes, non stringere quella mano insanguinata è stata una dimenticanza involontaria. Perché si gioca a calcio per sé stessi, per la gioia di giocare e segnare in una finale di coppa del Mondo nel tuo paese, per esultare con la tua gente, per continuare a vivere le stesse emozioni di quando si gioca in strada. E non per i generali della dittatura.