L’incredibile stagione del Boemo nell'”altra” Puglia, 10 anni dopo la fine di Zemanlandia a Foggia
“Fore de capu” con il Lecce di Zeman. “Mambo salentino“, hit estiva firmata Amoroso-Boomdabash, riporta cuore e mente dei tifosi giallorossi a quella folle stagione 2004-2005 vissuta con il condottiero boemo al timone della truppa salentina.
E non poteva che riproporsi dalla PugliaZemanlandia, dopo l’epopea di Foggia, in tutto il suo fantasmagorico splendore. Libertà di agire al comando di un gruppo già forgiato al gioco spiccatamente offensivo da Delio Rossi nelle annate precedenti. Il mister di Praga torna quindi ad insegnare pallone come solo lui sa fare e, onestamente, come non avveniva da qualche tempo. Il 4-3-3 non è sindacabile e, fin dal principio della preparazione estiva, lo spogliatoio segue le direttive senza esitazioni. La partenza è degna del miglior Schumacher alla guida della Ferrari. Pari 2-2 a Bergamo all’esordio, roboante 4-1 in casa ai danni del Brescia alla seconda, altro 2-2 all’Olimpico con la Roma e successo 3-1 sul Cagliari al Via del Mare. A Verona contro il Chievo il primo tonfo, per poi ripartire di slancio con le vittorie su Palermo e Messina (entusiasmante l’1-4 sui peloritani), oltre all’ottimo punto strappato al cospetto dell’Inter.
Zemanlandia, si sa, è croce e delizia. In una stagione dai due volti, strepitoso girone di andata e seconda parte fisiologicamente più difficoltosa, spiccano in negativo le 73 reti subite (peggior retroguardia del torneo) e alcune batoste patite nell’arco del campionato. Dal rovinoso poker per mano della Fiorentina al Franchi, ai due netti scivoloni con la Sampdoria (1-4 in casa e 3-0 al Ferraris) passando per i 5-2 di San Siro col Milan e al Delle Alpi con la Juventus. Sole e tempesta, appunto. Lampi di fuochi d’artificio però illuminano il primo maggio 2005 con i salentini che annichiliscono 5-3 la malcapitata Lazio con i timbri di Dalla Bona, Vucinic (doppietta) e Diamoutene. Al culmine del campionato sarà undicesimo posto e salvezza più che tranquilla con lo scettro di secondo miglior attacco dietro la Juventus con la bellezza di 67 gol messi a segno. E in Coppa Italia? Montagne russe, che domande! I giallorossi infatti salutano la kermesse tricolore agli ottavi di finale. Nel doppio confronto contro l’Udinese di Luciano Spalletti, Ledesma e compagni capitolano tra le mura amiche 4-5 (con tanto di incredibile rigore parato dall’attaccante Di Michele a Vucinic all’ultimo minuto) ed espugnano inutilmente il Friuli per 3-4.
In quella indelebile annata singoli talenti brillano nel firmamento calcistico italiano. Cassetti sfreccia sul settore destro, l’uruguagio Giacomazzi dipinge trame esemplari tra mediana e trequarti, in avanti il tandem Vucinic-Bojinov fa impallidire le retroguardie avversarie. Il Luna Park del boemo è tornato al centro del villaggio ma l’avventura durò un solo anno, con la foschia di Calciopoli che portò Zeman ad abbandonare la panchina prima della fine dell’ultimo 3-3 col Parma. Come per il Foggia, i successivi ritorni in panchina non ripristinarono l’antica magia.
Alla sua idea di calcio si è ispirato anche il regista premio Oscar Paolo Sorrentino per la sua opera prima, “L’uomo in più“. Il protagonista Antonio Pisapia, interpretato da Andrea Renzi, ex calciatore che rifiuta di truccare partite e fatica a reinserirsi nel mondo del calcio da allenatore, prova ad esportare la sua idea di football avveniristico, con gli attaccanti che si muovono a rombo, tre punte più un trequartista, per i triangoli ed i fraseggi, e tre mediani che fanno muro a centrocampo. “Si possono vincere le partite, così“, spiega senza che nessuno lo ascolti. Finzione dalle radici ben piantate nella realtà: la vicenda umana del protagonista, che nel film incrocia i suoi destini con l’omonimo cantante interpretato da Toni Servillo, si ispira a quella di Agostino Di Bartolomei. Ma anche i riferimenti calcistici vengono dalla realtà visto che lo schema dell'”uomo in più” porta la firma di un allenatore-gentiluomo nato a San Michele al Tagliamento, Ezio Glerean.
Glerean è arrivato alle soglie del grande calcio, ma non è riuscito a sfondare come forse la sua capacità di insegnare calcio avrebbe meritato. La sua strada, nel momento di massimo splendore, si è incrociata con quella di Maurizio Zamparini, il vulcanico presidente che ha saputo lanciare alla ribalta tanti allenatori quanti ne ha allo stesso tempo bruciati. Troppo garbato nei modi e nello stile, Glerean, per resistere ai ritmi del presidente mangiallenatori che lo incrociò nel momento più confuso della sua gestione, quello del “trasloco” da Venezia a Palermo, dove dopo un precampionato travagliato Glerean, nel 2002, riuscì a durare solo una giornata. A Palermo c’è chi ha fatto di peggio con tecnici come Pioli esonerati addirittura prima dell’inizio del campionato ma quella in Sicilia resta forse la grande occasioneperduta del tecnico veneto in una squadra che, al di là delle bizarrie di Zamparini, arriverà in quegli anni alle soglie della Champions League.
All’alba del 2000 gli appassionati di calcio ed in particolare di tattica si stavano passando una voce: quello di Glerean poteva diventare un modello di gioco completamente nuovo, alla stregua del 4-4-2 sacchiano o del 4-3-3 zemaniano. Complice la moglie olandese ed alcuni viaggi ad Amsterdam Ezio era passato spesso dalle parti del campo d’allenamento dell’Ajax ed aveva studiato un’idea di gioco, nata a Sandonà e perfezionata al Cittadella, assolutamente inedita per il calcio italiano. Era nato il 3-3-4, interpretazione estrema della zona che come detto aveva portato il piccolo Sandonà tra i professionisti ed il Cittadella per la prima volta in Serie B, con la piccola squadra in provincia di Padova capace di sbaragliare concorrenza anche più attrezzata nei play off, prima dalla C/2 alla C/1 e poi dalla C/1 alla B.
Le peculiarità di questo modulo sono state illustrate a grandi linee nel film: serve una difesa a tre con centrali bravi nel gioco aereo e nell’uno contro uno, tre mediani capaci di avere cuore e polmoni per correre a tutto campo e recuperare palloni, e soprattutto quattroattaccanti capaci di produrre un pressing continuo sul portatore di palla avversario, per non mandare in sofferenza gli altri reparti, e di dialogare fra loro con rapidi scambi di palla. Una ricetta avveniristica che ha dimostrato di funzionare nelle categorie inferiori, ma per Glerean è mancato il grande salto, l’allenatore-galantuomo che (caso più unico che raro nel calcio di oggi) non ha neanche un procuratore, non ha mai trovato il suo “uomo in più”, ovvero un presidente deciso a scommettere su di lui a grandi livelli, forse complice la lenta fine della rivoluzione della zona, iniziata oltre venti anni prima del miracolo-Sandonà e del 3-3-4, che ne resta ancora l’espressione più estrema, affascinante ed al momento ancora non del tutto esplorata. Oggi Glerean allena a Marostica, tra i dilettanti: la sua passione per cercare nuove formule e trovare un uomo in più in un calcio che sembra aver ormai già detto tutto non si è ancora spenta.
“La prima cosa che mi è venuta in testa è stata: questa è l’Italia, la Serie A. E a quei tempi era il campionato più importante d’Europa, dove giocavano grandi calciatori italiani e gli stranieri più forti del mondo. Ho deciso subito di accettare. Sono venuti due dirigenti da Foggia, abbiamo trovato l’accordo ed abbiamo parlato di come giocava la squadra: palla a terra, velocità e passaggi corti. Mi hanno detto che cercavano tre stranieri. Avevano già preso Petrescu e volevano due russi: Shalimov e Kolyvanov”. Igor Shalimov racconta di come nell’estate del 1991, abbia deciso convintamente di accettare le lusinghe del Foggia, ritrovandosi poi in squadra il connazionale Kolyvanov.
“Sono arrivato a Roma e con il presidente Casillo siamo andati in ritiro con la squadra in montagna. Mi hanno assegnato la camera con Alessandro Porro, che mi ha aiutato molto ad ambientarmi. Subito dopo sono venuti a salutarmi tre giocatori. Petrescu che incredibilmente era arrivato due settimane prima ma già parlava perfettamente italiano, Signori e Baiano. Per me non è stato facile all’inizio perché non parlavo italiano e parlavo male l’inglese. Ma i ragazzi mi hanno aiutato. Era un buon collettivo ed al primo allenamento ho capito che c’erano buoni giocatori”.
Shalimov nasce a Mosca nel 1969 dal padre Mikhail, operaio, e dalla madre Ludmila, casalinga. Rispetta a pieno i canoni della classica narrazione famigliare sovietica, vivendo però l’adolescenza durante il principio del declino dell’epopea comunista. A sedici anni, terminati gli studi dell’obbligo, assieme al fratello Pavel, entra a far parte delle giovanili dello Spartak Mosca.
Il suo piede preferito è il mancino, esordisce come terzino sinistro, per poi essere spostato a centrocampo sempre sulla fascia sinistra. Dal 1986 all’88 gioca nelle riserve dello Spartak realizzando 17 gol in 51 presenze.
Nel 1987 Igor vince, a diciotto anni, la Coppa delle Federazioni Sovietiche. Dall’anno successivo è in pianta stabile in prima squadra. Il primo anno tra i professionisti sigla 8 gol, dimostrando da centrocampista di avere un ottimo feeling con la porta avversaria.
La prima rete la mette segno all’undicesima giornata il 22 maggio, davanti a 40.000 spettatori nell’1 a 1 finale contro l’Ararat. A fine stagione lo Spartak si piazza al quarto posto nella classifica della Vysšaja Liga.
Nell’1989 Shalimov vince il Campionato sovietico con lo Spartak, realizzando un solo gol nell’intera stagione, nel 3 a 3 contro il Metalist. La squadra di Mosca si guadagna anche l’opportunità di giocare la Coppa dei Campioni.
Esordisce con la nazionale dell’URSS ai mondiali di Italia ’90. Gioca titolare nel centrocampo sovietico contro l’Argentina di Maradona, perdendo per 2 a 0. Disputa, sempre dall’inizio, anche le altre gare del girone. Per questo motivo molti club europei iniziano a mettere gli occhi sul centrocampista mancino, dal piede vellutato e dall’ottima visione di gioco.
I cambiamenti derivati dalla caduta del muro di Berlino sono evidenti, la voglia di emanciparsi da una dittatura oppressiva e totalitaria sta contagiando i popoli dell’intera Unione fino ad arrivare a Mosca. Igor Shalimov a 22 anni inizia una nuova stagione con lo Spartak, quella della consacrazione. In campionato arriva a 2 soli punti dai cugini del CSKA che vincono la Vysšaja Liga. In Coppa di Campioni la cavalcata è (quasi) trionfale.
Ai sedicesimi di finale lo Spartak incontra (in una gara alquanto tesa a livello geopolitico) lo Sparta Praga. L’andata si gioca il 19 Settembre del 1990 proprio a Praga e la partita viene vinta dai russi per 2 a 0, il primo gol è proprio del centrocampista moscovita che segna con un tiro di potenza dal limite che bacia il palo alla sinistra del portiere e poi si insacca. Il tabellino della gara di ritorno del 3 Ottobre recita il medesimo risultato.
Negli ottavi di finale Shalimov e compagni se la devono vedere contro il Napoli (campione d’Italia in carica) del “Pipe de Oro” Diego Armando Maradona. L’andata si gioca il 24 Ottobre davanti ai 50.000 del San Paolo. Conclusasi a reti inviolate, la gara è caratterizzata dai legni colpiti da entrambe le formazioni (3 a 2 il computo totale per i padroni di casa). Il ritorno, che si gioca a Mosca davanti agli 86.000 dello Stadio Lenin, vede l’ennesimo palo colpito dal Napoli, in una gara equilibrata che termina nuovamente 0 a 0. Dopo i tempi supplementari, ai calci di rigore, i russi sono implacabili e vincono 5 a 3.
Lo Spartak arriva quindi ai quarti di finale e se la deve vedere contro il Real Madrid. Il 6 Marzo del 1991 allo Stadio Lenin di Mosca sono accorsi più di 80.000 tifosi. Gli 11 allenati da Oleg Romancev giocano una partita all’arrembaggio ma la difesa madrilena resiste, anche grazie ad un Pedro Jaro (riserva di Francisco Buyo) in stato di grazia.
Al Santiago Bernabeu il 20 Marzo si gioca il ritorno, i favori del pronostico sono tutti per il Real. Dopo 10 minuti Emilio Butragueño approfitta di un pasticcio difensivo dello Spartak e porta in vantaggio i padroni di casa. Ma dopo poco meno di mezz’ora una doppietta di Radchenko capovolge il risultato. Il 3 a 1 finale viene segnato da Chmarov al 63° minuto.
Lo Spartak ha dimostrato di essere un’ottima squadra, giocando palla a terra e in velocità, punendo il Real Madrid in contropiede. La partita si è conclusa tra gli applausi dei 90.000 del Santiago Bernabeu.
In Semifinale lo Spartak di Shalimov si deve però arrendere all’Olympique Marsiglia. Il 10 Aprile 1991 allo Stadio Lenin passano i francesi per 3 a 1 (a segno per lo Spartak proprio Shalimov), al ritorno al Velodrome il 24 Aprile, i padroni di casa si impongono per 2 a 1.
L’esperienza di Igor Shalimov in Coppa dei Campioni si conclude comunque positivamente, portando lo Spartak a sfiorare la finale.
A 23 anni la Serie A e il Foggia di Zeman l’aspettano a braccia aperte: “Quando mi hanno parlato di Foggia l’ho cercata sulla carta geografica: non avevo idea di dove si trovasse. È una città piccola, diversa da Mosca, ma io sono qui per lavorare e non per fare il turista”.
In Puglia trova un altro Igor: Kolyvanov. Attaccante proveniente dalla Dinamo Mosca, capocannoniere in carica della massima divisione sovietica con 18 reti ed eletto giocatore dell’anno nel 1991.
Moscovita come Shalimov, più grande di quasi un anno (classe 1968) Igor Kolyvanov a 16 anni, nel 1985, gioca nelle giovanili dello Spartak. Non diventa compagno di squadra di Shalimov perché già l’anno dopo passa alla Dinamo Mosca. Con i biancoazzurri della Capitale, celebri per essere stati la formazione di Lev Jašin (uno dei più grandi portieri della Storia del calcio) dal ’49 al ’70, Kolyvanov inizia l’avventura a 17 anni giocando tra le riserve.
Nel 1986 la Dinamo Mosca è in piena lotta per la conquista del titolo sovietico, ma Kolyvanov s’infortuna ed è costretto a rimanere a riposo per 2 mesi. Nonostante lo stop forzato riesce a mettere a segno 4 reti, una delle quali nello scontro diretto per il titolo perso contro la Dinamo Kiev per 2 a 1 il 7 Dicembre 1986.
Nel triennio successivo la Dinamo Mosca ottiene risultati deludenti (un 10°, 12° e 8° posto), ma Igor continua a segnare con una discreta continuità fino a raggiungere nel 1989 gli 11 gol. Nel 1990, con la Dinamo, Kolyvanov ottiene un ottimo terzo posto finale e la convocazione per gli Europei Under 21 dove inizia a giocare con Shalimov. Si laurea come migliore attaccante della competizione segnando 9 gol in 7 partite, 1 dei quali nella semifinale di ritorno contro la Svezia vinta per 2 a 0. L’URSS di Shalimov e Kolyvanov vince la competizione battendo in finale d’andata la Jugoslavia per 4 a 2 a Sarajevo, il 5 Settembre del 1990, e 3 a 1 nel ritorno del 17 Ottobre in Unione Sovietica.
Nel 1991, come già detto, è capocannoniere della Vysšaja Liga con i suoi 18 gol in 27 partite, decisivo per la conquista della qualificazione in Coppa UEFA della Dinamo Mosca. Appena eletto giocatore dell’anno accetta anche lui l’offerta del Foggia di Zeman. A 23 anni vuole diventare un calciatore completo grazie anche ai consigli del tecnico boemo: “Ognuno mi ha fatto crescere e ha insegnato qualcosa. Zeman, ad esempio, mi ha fatto conoscere il 4-3-3. In Russia giocavamo sempre 4-4-2 o al massimo 3-5-2. Questo modulo l’ho conosciuto per la prima volta a Foggia. Ed ho avuto qualche problema per capirlo, ma quando ci sono riuscito tutto è diventato più facile”.
Zemanlandia apre i battenti il 1° Settembre 1991: la scala del calcio attende la matricola pugliese, va in scena Inter-Foggia. Shalimov è titolare nel terzetto di centrocampo, partendo da destra. Kolyvanov invece è ancora a Mosca, gioca con la Dinamo fino a Novembre in Coppa Uefa. La partita è inaspettatamente equilibrata, vedendo addirittura passare in vantaggio il Foggia con un gol di Baiano. Il risultato finale è 1 a 1, ma è appena nato quello che da lì a poche giornate viene ribattezzato il Foggia dei miracoli.
“Nessuna squadra giocava in Serie A un calcio così. Palla a terra, passaggi non più lunghi di quindici, venti metri e tre o quattro giocatori che attaccavano sempre alle spalle i difensori avversari. Avversari che diventavano matti perché questo modo di giocare durava tutta la partita. Guardavamo poco dietro, andavamo sempre avanti. E poi il Foggia Calcio non mollava mai. Era divertente guardare quella squadra, faceva spettacolo. Per gol fatti eravamo secondi dietro al Milan, però anche per gol subiti eravamo secondi…”. Igor Shalimov ricorda così l’unico anno a Foggia, nel quale segna 9 gol e partecipa all’incredibile stagione dei “satanelli” che si conclude al nono posto, miglior risultato della storia per il club pugliese.
Igor Kolyvanov esordisce in Serie A il 1° Dicembre 1991, nella sconfitta in trasferta per 1 a 0 contro il Verona. La prima delle 3 reti segnate durante la stagione del suo debutto arriva nel pareggio interno contro il Torino per 1 a 1 del 1° Marzo 1992. “Ricordo il mio primo giorno a Foggia. Trovai una città piccola ma carina, ma il caldo…” L’attaccante russo non dimentica l’affetto dei tifosi: “Devo tanto a loro. La gente mi a voluto subito bene, mi ha dato il cuore, mi ha aiutato”.
Con i satanelli Kolyvanov gioca 4 campionati di Serie A (segnando 18 reti complessive) e l’ultima, nel 95/96, in Serie B (4 gol in 29 presenze). La sua avventura in Puglia è influenzata da un brutto infortunio al ginocchio; la rottura dei legamenti: “Era un periodo poco esaltante per me ma mi fece immenso piacere ricevere la visita di due fratelli foggiani che partirono dall’Italia solo per venirmi a trovare (in Colorado n.d.r.) e sostenermi!”.
A 27 anni, nel 1996, passa al Bologna dove gioca le sue ultime 5 stagioni da professionista (26 gol in 87 presenze totali). Il fato vuole che dopo aver giocato nell’Inter (dove ha vinto la coppa UEFA nel 93/94), nel Duisburg, nel Lugano e nell’Udinese, anche Igor Shalimov viene acquistato dal Bologna. I due Igor giocano nella città emiliana per due stagioni, qualificandosi insieme per la Coppa Intertoto 1998/99 che viene vinta dai rossoblù.
Kolyvanov e compagni arrivano inaspettatamente alle semifinali di Coppa UEFA , mentre Shalimov, in Serie B a Napoli, viene trovato positivo al Nandrolone e (a soli trent’anni) decide di ritirarsi a seguito della lunga squalifica. Due anni più tardi Kolyvanov appende gli scarpini al chiodo a seguito dell’ennesimo problema fisico.
Oggi l’ex attaccante russo allena a Mosca: “Sto lavorando con i giovani, alleno la Torpedo Mosca (Serie C russa) e metto il cuore in quello che faccio”. Shalimov invece non nasconde le proprie ambizioni: “Un giorno vorrei allenare lo Spartak Mosca, perché è la mia squadra. Sono di Mosca, lì ho giocato da piccolo ed è l’unico club dove ho giocato in Russia. E poi…vorrei diventare l’allenatore del Foggia Calcio”.
“Ero un diciottenne, mentre lui era già un uomo. Per me era un idolo. In ogni sfida era un guerriero, sempre con la stessa intensità. Ho sempre provato a essere come lui”. Uno dei difensori più forti di tutti i tempi, Alessandro Nesta, parla così del giocatore che l’ha ispirato all’inizio della carriera, diventando un vero e proprio punto di riferimento. “Quando ero un ragazzino della Lazio pendevo dalle sue labbra. Era anche un duro. L’ho rivisto recentemente: è diventato un fanatico religioso”. Chi sta descrivendo il leggendario numero 13? José Antonio Chamot.
La carriera del difensore argentino inizia nel Rosario Central come terzino sinistro. Esordisce in prima squadra nella stagione 1988/89 a diciannove anni, collezionando 19 presenze. Nella stagione successiva con la maglia dei “Canallas” gioca 29 partite, mettendo a segno le sue uniche 3 reti in maglia giallo-blù. Dopo dieci presenze nel 90/91, viene acquistato dal Pisa. Il vulcanico presidente Romeo Anconetani, con un’intuizione delle sue, porta Chamot e Diego Pablo Simeone in Italia.
All’ombra della torre pendente, Chamot si adatta da subito al calcio tattico italiano, esordendo in serie A l’11 Novembre del 1990 nella sconfitta per 4 a 2 a Genova contro la Sampdoria. Gioca da terzino in entrambe le fasce, libero e difensore centrale. L’allenatore dei nerazzurri toscani, Mircea Lucescu, dà fiducia al giovane argentino, tanto che nella seconda parte della stagione Chamot è titolare inamovibile con 15 presenze, che non valgono però la salvezza. Infatti il Pisa retrocede in Serie B.
Nella stagione 1991/92 Chamot gioca con continuità da centrale nel trio difensivo del 3-5-2 di Ilario Castagner. Le buone prestazioni con la maglia pisana fanno sì che molti addetti ai lavori del “calcio che conta” lo tengano sott’occhio. Il 6 Ottobre del 1991 arriva anche il primo gol in Italia, nella vittoria del Pisa per 2 a 0 contro il Pescara. Durante l’anno viene espulso due volte, facendo emergere il suo spiccato agonismo, al limite del consentito.
Nel 92/93 il Pisa cambia l’ennesimo allenatore, ma Josè Antonio Chamot resta il perno della difesa. Gioca titolare per 34 volte, espulso in una sola occasione. Il carattere non manca al “Flaco” e Zdenek Zeman viene colpito anche da questo aspetto durante la partita di Coppa Italia che contrappone il Pisa al Foggia, terminata per 2 a 2 il 2 Settembre del 1992. Il tecnico boemo è pronto ad accogliere Chamot a braccia aperte alla corte dei “Satanelli” pugliesi l’anno successivo.
La prima partita trasmessa in pay per view del calcio italiano è Lazio – Foggia del 29 Agosto del 1993. Chamot ritorna in serie A dopo due anni passati nel campionato cadetto. Il rendimento è costante, confermando tutte le sue qualità. La buona tecnica di base, una grande fisicità e forte temperamento, gli valgono anche la prima chiamata in Nazionale. Debutta nella “Selección” nella finale di andata dello spareggio per le qualificazioni ai Mondiali di USA 94, del 31 Ottobre 1993, Australia 1 Argentina 1. A 24 anni si trova a giocare tra i migliori del suo Paese, affianco al monumento del calcio mondiale Diego Armando Maradona.
Con Zeman si conferma stopper affidabile, capace di mettere fiducia alla retroguardia rossonera guidata dal portiere Franco Mancini. Ma anche al termine di questo campionato, Chamot viene espulso in due occasioni. Nel rocambolesco 5 a 4 subìto dal Piacenza, Josè non batte ciglio e abbandona il campo mestamente. Invece, nella sconfitta per 2 a 0 contro la Cremonese, è vittima di uno scambio di persona. Non è lui a commettere il fallo da rosso diretto, ma a nulla sono valse le proteste. Il Foggia alla fine rischia di qualificarsi per la Coppa UEFA, arrivando a pochi punti dall’impresa. Chamot colleziona 30 presenze e Zeman, che nel frattempo è diventato l’allenatore della Lazio per la stagione 94/95, chiede al Presidente Cragnotti di acquistare il roccioso difensore argentino.
Nell’estate del 1994, per la cifra di 5 miliardi di Lire, Josè Antonio Chamot è un giocatore laziale. A 25 anni è titolare nella squadra di Zeman, giocando al centro della retroguardia biancoceleste al fianco di Cravero, Bacci, Negro, Bergodi ed un giovanissimo Alessandro Nesta.
Anche quest’anno non è fortunato con i cartellini rossi, nella prima stagione a Roma, viene espulso 3 volte. La prima, ingiustamente, il 2 Ottobre 1994 durante un Fiorentina – Lazio 1 a 1, allontanato dal rettangolo verde reo di aver commesso un fallo da ultimo uomo. Oltre il danno, la beffa, uscendo dal campo viene colpito da una moneta da 500 lire che gli fa perdere sangue dalla testa. La seconda il 4 Dicembre 1994, in Cagliari – Lazio 1 a 1, questa volta giustamente per fallo da ultimo uomo (e calcio di rigore per la squadra sarda), la terza il 12 Febbraio 1995, in un Torino – Lazio 2 a 0.
Il primo gol arriva in un Lazio 4, Genoa 0 il giorno della festa del papà del 1995.
Dopo aver conquistato un eccellente secondo posto in campionato, raggiunte le semifinali di Coppa Italia e i quarti di Coppa UEFA, la stagione successiva lo vede ancora titolare fisso.
Nel 95/96 esordiscono i nomi e i numeri fissi sulle maglie da gioco, Chamot sceglie il numero 6, che è sempre stato il suo numero preferito. 32 presenze in Serie A (1 espulsione, sempre per fallo da ultimo uomo), 4 in Coppa Italia e 1 in Coppa UEFA. Terzo posto nella classifica finale, la Lazio di Zeman è una certezza ai vertici del calcio italiano.
Chamot intanto, inizia un percorso interiore che lo avvicina alla fede e a Dio: “Un giorno ero molto sopraffatto, stanco dei tanti viaggi, ho iniziato a guardare la televisione fino a quando ho trovato un canale cristiano e questo ha cambiato la mia vita perché ho imparato cos’è la Bibbia e chi è Gesù”. Racconta in un’intervista. “Quando si desidera avere denaro e poi ci si rende conto che il denaro non è tutto, cominci a sentire un grande vuoto. Dio ha riempito il mio cuore e cerco sempre di seguire la Sua parola”.
Nel 1996 partecipa come fuori età alle Olimpiadi di Atlanta, Chamot gioca da titolare in tutte le partite che lo vedono protagonista fino alla fine. L‘Argentina però perde 3 a 2 la finale contro la Nigeria con un contestatissimo gol al 90° minuto.
La stagione 1996/97 vede numerosi cambiamenti nell’undici titolare della Lazio: via, tra gli altri, Winter, Di Matteo e Boksic; dentro Protti, Okon e Fish. La concorrenza è alta, anche perché è esploso definitivamente il talento del romano e lazialissimo Nesta. Nonostante tutto, Josè riesce a conquistare per il terzo anno consecutivo i gradi di titolare, prima con Zeman in panchina, poi con Zoff. È una colonna della difesa, che a 27 anni è nel pieno della sua carriera. 34 presenze complessive (29 in Serie A, 2 in Coppa Italia, 3 in Coppa UEFA condite da un gol),
Nel 97/98 arriva Sven Goran Eriksson, in difesa la Lazio acquista Giuseppe Pancaro dal Cagliari e l’esperto Giovanni Lopez dal Vicenza. Chamot ha qualche problema fisico all’inizio della stagione, ed il tecnico svedese pian piano preferisce dar fiducia alla coppia di centrali Nesta-Negro, con Favalli terzino sinistro (capitano) e Pancaro terzino destro.
A fine anno con sole 11 presenze in campionato lascia la Lazio e l’Italia, alzando al cielo la Coppa Italia, destinazione Madrid.
All’Atletico torna a giocare con maggiore continuità e dopo solo una stagione e mezza, nel gennaio del 2000 a quasi 31 anni viene acquistato dal Milan esordendo da titolare il 27 Gennaio contro l’Inter in Coppa Italia. A Milano, sponda rossonera, riabbraccia il suo ex compagno Alessandro Nesta, raccoglie 51 presenze totali, vincendo una Coppa Italia nel 2003 e, soprattutto, la Champions League 2003.
Dopo una sola presenza con gli spagnoli del Leganes nella stagione 2003/04, torna in Argentina nel Rorsario Central. Nel 2006 a 37 anni si ritira proprio nel club dove la sua lunga carriera è iniziata.
Nel 2009 inizia la carriera da allenatore, come secondo, per passare per una sola stagione al River Plate dell’ex compagno laziale Matias Almeyda nel 2011 e tornare poi, nel 2017 al Rosario per esordire come allenatore della prima squadra.
“Alla fine della stagione io e Paul partiamo per l’Italia, ci hanno organizzato dei provini. Ci stabiliamo a Prato da zia Bianca, sorella di papà, zio Egidio e da mio cugino Dimitri. Nella stessa casa vive anche il nonno e ci arrangiamo nella sua stanza: io e Paul dormiamo in un letto a castello, io sopra e lui sotto. Il nonno ha convinto quelli del Prato a farci allenare con loro. Per i primi tempi speriamo nel tesseramento, ma il Prato fa soltanto promesse e non le mantiene”.
Christian Vieri racconta, nella sua autobiografia, il rientro in Italia dopo aver passato l’intera adolescenza a Sidney. Il padre Roberto ha giocato nel Marconi Stallions sin dalla fine degli anni ’70, quindi il piccolo Bobo si è dovuto trasferire in Australia con la famiglia alla tenera età di 4 anni. Dopo aver praticato gli sport più disparati, con sommo stupore del padre, inizia a giocare anche lui a calcio e a quindici anni esordisce nelle giovanili del Marconi. Lega fin da subito con il suo compagno di squadra Paul e nel 1988 vuole tentare la fortuna nel bel paese.
Convince a partecipare a questa impresa anche l’amico australiano, che accetta l’ospitalità della famiglia Vieri, passando due mesi in Toscana. Christian decide di rimanere a Prato, mentre Paul Okon torna a Sidney pronto a giocarsi le sue chance nel Marconi Stallions.
Nella squadra degli “italiani di Sidney”, Okon (che è per metà d’origine italiana) si fa notare immediatamente per la sua capacità di sviluppare trame interessanti con la palla al piede e far filtro davanti alla difesa. Un’ottima tecnica, accompagnata da una buona visione di gioco, che lo porta ad essere titolare inamovibile nei celesti di Sidney. Collezionando nelle stagioni 1989/90 e 1990/91, ben 49 presenze, condite da 4 gol e vincendo l’Under 21 Player of the Season in entrami i campionali.
Queste eccellenti prestazioni fanno sì che arrivi anche la prima convocazione nella Nazionale maggiore. Nei “Socceroos” esordisce il 6 Febbraio del 1991, in una serata uggiosa a Paramatta durante l’amichevole persa per 2 a 0 contro la Cecoslovacchia. “È stata una serata piovosa, veramente tanto ed ero già stato convocato quando avevo 17 anni” ricorda Okon. “Sapevo che avrei avuto un’opportunità quella notte. Sono entrato nel secondo tempo”.
Sempre nel ’91 fa parte della spedizione ai Mondiali di Calcio Under 20 come capitano, segna anche un gol nella prima partita del girone C vinta per 2 a 0 contro Trinidad e Tobago. L’avventura dei giovani australiani si conclude con una finale per il terzo posto persa ai rigori contro l’URSS.
A diciannove anni, ormai lanciatissimo in patria, riceve un’allettante offerta dal Belgio.
Okon accetta e si trasferisce al Bruges, giocando fin da subito in una porzione del campo delicata che richiede esperienza e sicurezza. A fine stagione diventa campione di Belgio vincendo la Division 1 e partecipa con la Nazionale alle Olimpiadi di Barcellona.
Gli “Olyroos” superano il girone D insieme al Ghana, ai quarti battono la Svezia per 2 a 1 e in Semifinale affrontano la Polonia. Dopo un primo tempo abbastanza equilibrato, nella seconda parte la Polonia dilaga vincendo 6 a 1; è il peggior passivo registrato dalla Nazionale Olimpica australiana. Dopo aver perso l’anno precedente la finale di consolazione contro l’Unione Sovietica ai Mondiali under 20, Paul Okon perde ancora la finalina, il Ghana si impone 1 a 0.
Messe da parte le Olimpiadi, nel Bruges Paul Okon continua a giocare bene e a vincere. In totale il suo personale palmarès conta: 2 Campionati (91/92 e 95/96), 3 Supercoppe (1992,1994 e 1996) e 2 Coppe di Belgio (1995 e 1996).
A Roma, alla Lazio, occorre un sostituto di Roberto Di Matteo. Il centrocampista è titolare nella squadra di Zeman, ma vuole essere ceduto a seguito di alcune discussioni avute proprio con il tecnico boemo. Quest’ultimo chiede espressamente al direttore sportivo Nello Governato di provare a prendere un giocatore che sta seguendo da tempo, Paul Okon.
L’australiano è reduce da un brutto infortunio ai legamenti del ginocchio destro subito nel Febbraio del 1996, ma si sente pronto ad affrontare il ritiro estivo con la Lazio per la nuova stagione. Dopo cinque anni ricchi di successi con il club e personali, saluta il Bruges e il Belgio liberandosi a parametro zero e firma un contratto di tre anni con la squadra del Presidente Cragnotti.
Non ha paura dei paragoni con Di Matteo, conosce il proprio valore e, per esorcizzare qualsiasi altro timore, decide di indossare la maglia numero 16 lasciata libera proprio dal centrocampista italiano. L’ambientamento con il calcio nostrano non è semplice per nessun calciatore straniero, soprattutto poi se si passa dal placido modo di vivere il calcio in Belgio, al focoso ambiente romano.
Paul Okon dichiara al quotidiano di Dublino The Irish Time: “Per me il Campionato italiano è il migliore del mondo, in Belgio il calcio è lo sport più seguito ma rimane uno sport, ne parlano la domenica, il lunedì e poi non si sente altro fino al venerdì o al sabato. Qui a Roma ad ogni minuto della giornata, ogni canale televisivo ha programmi che si dedicano al calcio…”.
Esordisce con la maglia del più antico club di Roma, il 28 Agosto 1996 nel secondo turno di Coppa Italia nella vittoria della Lazio contro l’Avellino per 1 a 0. È il primo giocatore australiano nei quasi cento anni di storia del sodalizio biancoceleste.
Il debutto in Serie A avviene alla terza giornata, il 21 Settembre 1996, nell’incontro Inter-Lazio 1 a 1. Alla “Scala del calcio” il playmaker è titolare, gioca un ottimo primo tempo facendo vedere la sua classe e precisione nei passaggi. A dieci minuti dalla fine esce al posto di un giovane Roberto Baronio, la forma fisica non riesce a decollare. I problemi al ginocchio non sono superati completamente. Gioca complessivamente 11 gare da titolare nel girone d’andata, saltando ben 7 gare a causa dei consueti tormenti ai legamenti.
Nel frattempo il tecnico boemo viene esonerato, in panchina torna Dino Zoff e proprio Okon, fortemente voluto alla Lazio da Zeman, non le manda a dire sulla preparazione estiva che l’avrebbe danneggiato: “Il ginocchio mi ha dato molti fastidi. Le grane sono nate dal tipo di preparazione fatta con Zeman, molto dura. Non dico che non sia buona, ma non andava bene per me che ero reduce da un lungo infortunio. Senza Zeman il mio rendimento sarebbe stato diverso”.
Il primo anno alla Lazio si conclude con 18 presenze complessive (14 in Campionato, 2 in Coppa Italia e 2 in Coppa UEFA) e con il passaggio di Zeman alla Roma, commentato con sarcasmo da Paul: “Beati quelli della Roma…”.
Nella stagione seguente Sven Goran Eriksson diventa l’allenatore della Lazio. Lo svedese esplicita pubblicamente più volte la sua stima per il numero 16 che però sta vivendo un incubo. A 25 anni la sua carriera è a rischio a seguito della doppia operazione al ginocchio. Si assenta dai campi di gioco per l’intero campionato, la sua unica preoccupazione è quella di tornare a praticare lo sport tanto amato.
Allo scadere del contratto triennale lascia la Lazio vincendo (da spettatore) 1 Coppa Italia, 1 Supercoppa e 1 Coppa delle Coppe. I tifosi laziali hanno potuto solo intuire la classe dello sventurato regista australiano, sostenendolo comunque nel difficile periodo personale.
Nella stagione 1999/2000 rimane in Italia, passando alla Fiorentina. Nei viola gioca solamente un anno, accumulando 11 presenze in totale. L’anno dopo va in Inghilterra al Middlesbrough e ci rimane per due stagioni. Gioca con più continuità il primo anno, recuperando una condizione accettabile. Nel 2001/02 invece si ferma nuovamente per infortunio.
Brevi parentesi al Watford prima e al Leeds poi, permettono a Paul Okon di ritrovare un certo feeling con il campo. Nel 2003/04 torna in Italia, in serie B va al Vicenza allenato da Beppe Iachini. Anche in quest’occasione però non riesce ad esprimersi al meglio.
Per questo motivo decide di tornare in Belgio, nazione che lo ha cresciuto calcisticamente e come uomo. A 32 anni accetta le lusinghe dell’Ostenda; in maglia gialla torna ad essere un calciatore affidabile e continuo, giocando da titolare 28 partite su 34. Paul si sente finalmente quello di un tempo, ma ha il rimpianto di non riuscire a salvare l’Ostenda dalla retrocessione.
Il calvario però ricomincia nel campionato successivo. Si trasferisce a Cipro, all’Apoel dove nel 2005/06 scende in campo solamente in 2 occasioni. Il ginocchio non lo lascia in pace.
Per il Maestro Paul Okon è tempo di tornare a casa con la famiglia, si trasferisce al Newcastle United Jets Football Club per l’ultima stagione da professionista della sua travagliata carriera.
Nel 2006/07, alla soglia dei 35 anni, è voglioso di far vedere di nuovo ai suoi connazionali che è ancora in grado di saper stupire: “Voglio fare bene, voglio che la squadra faccia bene e voglio giocare il maggior numero possibile di partite. Richiedo molto a me stesso, spero di essere in grado, prima di tutto di soddisfare me e poi tutti quelli dei Jets”.
Essere così meticoloso, dedito alla disciplina, gli ha permesso di regalare lampi di ottimo calcio per quasi tutte le partite della stagione.
Solamente una persona con grande carattere, forza di volontà e amore viscerale per il proprio lavoro, avrebbe potuto perseverare senza abbattersi o, addirittura, rinunciare.
Paul Okon ha il calcio dentro, è il suo modo di comunicare efficacemente. Appena ha appeso gli scarpini al chiodo ha iniziato ad allenare nel Paese natio, prima i giovani Socceroos e poi per le squadre di club. La sua passione è travolgente, come la voglia di non smettere mai.
Precipitare nelle tenebre del calcio. Sì, a Napoli hanno visto anche questo. Parlarne oggi fa un certo effetto. A venti anni di distanza, all’ombra del Vesuvio, la voragine è davvero impressionante. L’era De Laurentiis ha portato la calda piazza partenopea nel gotha del pallone italiano con ottima vista sui grandi palcoscenici europei.
All’alba del millennio però la terra di San Gennaro ha visto l’inferno sportivo ad occhi aperti. Gestioni discutibili e scellerate all’insegna di un’esposizione debitoria milionaria. La stagione 2000-2001 doveva essere quella del rilancio ed invece si è rivelata la prima tappa di una morte ormai annunciata. L’annata del riscatto! Uno slogan che risuona dopo la cavalcata in B con il quarto posto e la risalita nella massima serie. Novellino in panchina e bomber Schwoch stella in attacco. Quarto posto, 63 punti e tanto entusiasmo. Il popolo azzurro ritrova dunque euforia e nuove apparenti certezze. In estate però gli equilibri dirigenziali mutano in rapida successione senza trovare un porto sicuro. Il ritorno di Corrado Ferlaino, dopo un breve interregno del tridente Gallo-Moxedano-Setten, dura solo qualche anno. All’orizzonte appare Gorgio Corbelli, dominatore delle televendite, che acquista per 100 miliardi il 50% delle quote societarie.
Chi sarà l’uomo del rilancio? Il tandem Corbelli-Ferlaino risponde al dilemma ingaggiando per la guida tecnica Zdenek Zeman. Campagna acquisti contesa tra due fuochi al timone. Fior di quattrini per una miriade confusionaria di acquisti. Meteore del calibro di Rabiu Afolabi, Abdelilah Saber, Claudio Husain e Damir Stojak. Quiroga e Vidigal provenienti dallo Sporting Lisbona. Per la regia si punta su Pecchia dalla Juventus. Dall’Inter, a parametro zero, giunge Moriero. Per la fascia sinistra fari accesi sul giovane Jankulovski. In avanti Sesa a supporto dei confermati Nicola Amoruso, Stellone e il brevilineo Bellucci. Mancini e Coppola si scambiano il testimone tra i pali.
Si parte il 30 settembre. Un “San Paolo” gremito e bollente di passione accoglie la Juventus. Stellone illude. Del Piero e Kovacevic ristabiliscono il pronostico della vigilia. Zemanlandia non decolla, anzi affonda. Due punti in sei partite. Il Bologna maramaldeggia sul prato azzurro con un 5-1 catastrofico. Coppola e la retroguardia fanno acqua da tutte le parti. A Perugia si materializza l’ultima malinconica tappa della gestione boema.
La società chiama Emiliano Mondonico per salvare il Titanic partenopeo. Un uomo buono, pacato e sagace come allenatore. Indubbie qualità che però non bastano per compiere il miracolo. Nel mercato invernale arriva il colpo Edmundo, asso brasiliano con piedi fantasmagorici ma testa rivolta a ludici pensieri. L’epilogo di Firenze è lo specchio di una immensa tristezza. Magoni e compagni archiviano il campionato al penultimo posto con 36 punti all’attivo.
Tre anni di limbo in B e poi l’addio. Corbelli viene arrestato per uno scandalo legato alle televendite, mentre Ferlaino cede il passo in luogo dell’albergatore Naldi. Nell’agosto del 2004 la settima sezione del Tribunale Civile del capoluogo campano annuncia il fallimento della Società Sportiva Calcio Napoli con quasi 80 milioni di debiti.
Il resto è storia contemporanea. Il Napoli Soccer fondato da De Laurentiis con Pier Paolo Marino Direttore Generale. Dalla C1 alla Serie A in quattro stagioni. A Posillipo c’è di nuovo il sole.
La Cecoslovacchia ha regalato al calcio mondiale talenti inestimabili. La lista infinita comprende anche la figura di Čestmír Vycpálek: giocatore ed apprezzabile allenatore del secolo scorso. Nato il 15 maggio del 1921 il buon Cesto, così scherzosamente soprannominato, lega tutti i pensieri e le aspirazioni ad un pallone tra i piedi. La scintilla scocca fin dal principio, quando ancora bambino il padre Premsyl gli ordina di seguire le sorti dello Slavia Praga. Lo stadio ‘Spartan’ diverrà subito il luogo dei sogni. In famiglia, però, c’è chi la pensa diversamente. La madre Jarmila, infatti, attenua l’euforia invitando il ragazzo a porre maggiore attenzione allo studio. Cesto segue alla lettera i dettami e supera con brillantezza gli anni del ginnasio e dell’Accademia Commerciale. Nel frattempo l’esordio con la casacca dello Slavia Praga sembra alle porte. La leggerezza del periodo viene purtroppo spazzata via dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale. La famiglia Vycpálek assapora sulla propria pelle la terribile malvagità perpetrata da Hitler nel lager nazista in quel di Dachau. “Soltanto chi ha vissuto tali esperienze – afferma Vycpálek – può comprendere il valore della vita e non spaventarsi più di niente”.
Al culmine dell’incubo bellico, lo Slavia Praga è ben felice di accogliere Čestmír in squadra. Nel giro di pochi mesi diventa il faro del centrocampo biancorosso: tecnica, visione di gioco ed intelligenza le sue doti principali. Successivamente si spalancano verdi praterie pure tra le fila della Nazionale boema con prestazioni superlative. Le big del panorama europeo buttano lo sguardo su Vycpálek e Korostelev. La società più scaltra è la Juventus che si aggiudica le due perle. L’esperienza di Čestmír in bianconero dura una stagione (1946-1947) condita da cinque segnature in ventisette gettoni, ma il rapporto con la dirigenza rimane splendido. Nell’estate del ’47 si materializza il trasferimento al Palermo. In Sicilia avviene la svolta professionale. Vycpálek diventa l’idolo del popolo rosanero e capitano indiscusso. In cinque anni il Palermo ritrova la Serie A e l’orgoglio di una terra impantanata nell’arretratezza economica e culturale. Cesto decide di chiudere una dignitosa carriera, dopo altre sei stagioni, nel Parma. Il metodista boemo torna nel cuore del meridione, dove intanto mette su famiglia con la dolce moglie Hana.
Lo staff societario del Palermo gli propone il ruolo di allenatore nel Settore Giovanile. Il promettente trainer accetta una lunga e dura gavetta. Discrete le esperienze al Siracusa in Serie C (terzo posto nel 1960/1961) ed alla guida del Valdagno nella medesima categoria. Nel 1968 si scatena la Primavera di Praga con l’ingresso dell’esercito sovietico nella capitale cecoslovacca, zio Cesto accoglie il nipote Zdenek Zeman. In quel frangente Vycpálek allena la Juventina, piccola compagine presieduta da Renzo Barbera, con sorprendenti risultati. L’anno seguente con il Mazara in Promozione si rivela negativo.
La carriera di Čestmír muta radicalmente dopo qualche mese. La Juventus disputa una partita amichevole con il Palermo. In questa circostanza Vycpálek e Boniperti, vecchi amici, si incontrano. L’amministratore delegato dona al tecnico boemo la cattedra del vivaio bianconero. Nella primavera del 1971 il mister della Prima Squadra Armando Picchi, colpito da un male incurabile, si spegne nello sgomento generale. Il timone tecnico viene quindi affidato a Vycpálek. La doppia finale di Coppa delle Fiere contro il Leeds incorona gli inglesi. Ciononostante il materiale umano per competere ad alti livelli non manca. Il Direttore Sportivo Italo Allodi costruisce un roster in cui si mescolano elementi giovani e uomini maturi. Carmignani in porta. Morini, Salvadore e Spinosi in difesa. Capello, Furino, Haller, Causio e Cuccureddu a centrocampo. La coppa formata da Anastasi e Bettega furoreggia in attacco. Con quel complesso Vycpálek attua al meglio la sua personale idea di calcio, mettendo in pratica i principi della scuola danubiana. La pesantissima assenza del bomber Bettega, a causa di un problema polmonare, trova una geniale soluzione nell’avanzamento di Haller come seconda punta al fianco di Anastasi. Una tragedia però si abbatte su Zio Cesto. Il figlio Cestino perisce, a soli ventiquattro anni, nell’incidente aereo di punta Raisi. La squadra si stringe attorno al suo condottiero, un padre dal cuore tenero, giungendo al trionfo tricolore il 18 maggio 1972 grazie al 2-0 rifilato al Lanerossi Vicenza. La stagione 1972-1973 ricalca in fotocopia quella passata. Un Campionato arduo e combattuto va in archivio con un finale vietato ai deboli di cuore. Causio e soci affrontano la Roma all’Olimpico; le inseguitrici Milan e Lazio giocano rispettivamente con Verona e Napoli. Nel caldo pomeriggio capitolino i giallorossi passano in vantaggio con la rete di Spadoni. Altafini e Cuccureddu rimettono le cose in ordine. Incredibili i responsi dagli altri campi. Il Milan cade per mano dei giallo-blu e la Lazio perde di misura al San Paolo. La Juventus si laurea così Campione d’Italia per la quindicesima volta. Giampiero Boniperti, divenuto Presidente, opta per un rinnovamento tecnico. Vycpálek lascia dunque il posto a Carlo Parola, continuando a far parte del mondo bianconero nella veste di osservatore.
Il 5 maggio 2002, in coincidenza con l’ennesima impresa scudettata firmata da Del Piero e Marcello Lippi, Cesto muore a Palermo. In suo onore la città siciliana ha intitolato nel 2014 il piazzale antistante lo stadio Barbera con l’appellativo di ‘Largo Čestmír Vycpálek’.
Ci sono giocatori destinati a lasciare il segno. Alcuni, campioni indimenticabili, ci riescono ovunque vanno, basti pensare a Zlatan Ibrahimovic e al suo straordinario record di dieci campionati vinti nelle ultime undici stagioni disputate, con sei casacche diverse, in quattro nazioni differenti. Ma i grandi campioni richiamano quasi sempre grandi squadre, e di conseguenza le grandi opportunità. Più curioso può essere considerato il caso di quella che, da promessa mancata, riesce comunque a entrare nella storia delle formazioni nelle quali milita. Invariabilmente, inesorabilmente.
Alessandro Iannuzzi risponde perfettamente a questo identikit. La sua carriera nel calcio che conta è stata una rapida fiammata, per poi proseguire comunque fino alle soglie dei quarant’anni nei campionati dilettantistici. Quello che colpisce di questo biondino dal piede fatato, è il suo cammino fino a quando era ancora un Under 23. Esploso in una delle formazioni Primavera più forti di sempre, la Lazio di Nesta, Di Vaio, Flavio Roma in porta e Daniele Franceschini a centrocampo, lo scudetto di quella formazione è indissolubilmente legato alla micidiale punizione in cui, di fronte a 40.000 spettatori allo Stadio Olimpico, consegnò il titolo a quel gruppo di giovani di talento.
Da una punizione all’altra: nella stagione successiva allo scudetto Primavera, Zdenek Zeman lo chiama in campo nell’ennesima partita messasi male per quella Lazio bella e incompiuta. 0-1 in casa contro il Torino (in quella stagione destinato alla retrocessione), a togliere le castagne dal fuoco ci pensa proprio il biondino con la sua specialità: micidiale botta a girare sotto l’incrocio dei pali, e corsa sotto la curva resa ancor più commovente dall’abbraccio con il fratellino raccatapalle, di cui a sua volta si dicevano meraviglie nelle giovanili laziali, senza che le promesse venissero poi mantenute.
Il ragazzo ha talento, ma nei rigidi schemi zemaniani le sue attitudini da attaccante-rifinitore finiscono con l’essere mortificate. Avendo bisogno di giocare, finisce nel Vicenza dei miracoli di Guidolin. In campionato è un’alternativa utilizzata a intermittenza, ma nella magica notte della finale di Coppa Italia contro il Napoli, firma all’ultimo minuto dei supplementari il gol della sicurezza, il 3-0 che fa esplodere di gioia il Romeo Menti e regala il primo titolo della sua storia centenaria al sodalizio berico. Un prestito di un anno, ma Iannuzzi a Vicenza non se lo scorderannomai più. Torna a Roma nella più sfarzosa Lazio cragnottiana: l’arrivo di Cristian Vieri è sinonimo di ambizioni gigantesche, ma anche di poco spazio in attacco. Un ecatombe di infortuni ad inizio campionato regala una chance proprio contro il Vicenza a “Iannuzzino”, alle spalle di Roberto Mancini: un tempo e pochi minuti per capire che per lui non c’è margine nella SuperLazio. In prestito se lo prende il Milan, dove spazio ce n’é ancora meno: senza mai scendere in campo in campionato, Iannuzzi clamorosamente festeggerà lo scudetto a fine stagione proprio ai danni dei biancocelesti, in testa per metà campionato e poi beffati sul filo di lana dai rossoneri.
Uno scudetto e una Coppa Italia, entrambe lontano da Roma, già nel palmares a 23 anni. Restando nella Capitale Iannuzzi aggiungerebbe un titolo, visto che nel 2000 arriverà finalmente il Giubileo laziale, ma sarà invece girato in prestito alla Reggina nella squadra di Baronio e Pirlo, giovani fenomeni capaci di regalare meraviglie. La terza stella, quella di Iannuzzi, non si accenderà: troppi problemi fisici, che lo tormenteranno fino all’approdo in B in Messina, nel 2002. Dall’altra parte dello Stretto, Iannuzzi troverà finalmente due stagioni di continuità, e la promozione nella massima serie che i peloritani attendevano da quasi quarant’anni, anche e soprattutto grazie alle sue magie e i suoi assist. Ancora un passo nella storia, l’ultimo: a 28 anni non ancora compiuti, nelle cinque successive annate Iannuzzi disputerà solo unastagione (quasi) intera, a Gualdo Tadino nel campionato 2005/06. Poi i dilettanti, e il bagliore, nel suo caso accecante, dei ricordi: calciatori con centinaia di presenze in più tra i professionisti, non hanno vissuto altrettanti momenti di gloria.
A volte la vita è come un film. Un momento, una decisione o una fatalità possono cambiare per sempre i nostri destini. Se Robert Anthony Boggi, arbitro della sezione di Salerno, ma nato a New York, non avesse convalidato il gol di Balbo nel derby di ritorno Roma-Lazio della stagione 1996/97, cosa ne sarebbe stato di Francesco Statuto? Per chi non sapesse di cosa stiamo parlando, o avesse la memoria ingiallita da 15 anni di calcio, facciamo un tuffo nel passato.
La Roma del duo Liedholm-Sella, subentrati da qualche domenica al tecnico argentino Carlos Bianchi, voluto fortemente dal presidente Franco Sensi, ma mai amato dal popolo giallorosso, sta portando a termine una delle più nefaste stagioni della propria storia. 1 punto nelle ultime 5 partite e tanta voglia di conquistare al più presto quei risultati che le garantirebbero la matematica salvezza, per poi ripartire da zero l’anno dopo. Ultimo appuntamento allettante della stagione, nemmeno a dirlo, la stracittadina contro la Lazio di Dino Zoff, anch’egli subentrato all’esonerato Zdenek Zeman. Lo stadio è colorato per 3/4 di giallorosso, con una coreografia fantastica a dispetto degli ultimi disastrosi risultati, in un infuocato pomeriggio di inizio maggio. Il primo tempo scivola via abbastanza noioso fino al minuto trentacinque, quando Abel Balbo, lanciato in verticale da Jonas Thern, supera Marchegiani dopo un rimpallo. La palla scivola lentissima verso la fatidica linea bianca, con il centrale sudafricano Mark Fish che tenta un disperatorecupero.
Il difensore laziale, in scivolata, scalcia via il pallone quando ha appena varcato la linea di porta. E qui interviene il nostro. Francesco Statuto, a poco più d’un metro dalla porta, anche se in posizione defilata, riceve la sfera, e, forse per eccesso di sicurezza, forse per paura, tenta un improbabile esterno destro con la palla che termina a lato. Inutile il tentativo di Tommasi di rimettere la palla nel sacco. Grazie al cielo per i romanisti e per Statuto, Boggi ha già convalidato la rete del vantaggio, su suggerimento del guardalinee. Il derby, come molto spesso in quegli anni, termina 1-1, grazie alla zampata di Protti a tempo scaduto. Una beffa che fotografa al meglio tutta la stagione romanista. L’ultima di Francesco Statuto, centrocampista dalle scarse doti tecniche, ma dalla buona sostanza, inficiata da un brutto infortunio al perone subito 2 anni prima, con la maglia della Roma. Cresciuto nel settoregiovanile romanista, ha mosso i primi passi tra i professionisti con le maglie di Casertana e Cosenza, fino alla prima stagione in Serie A con la maglia dell’Udinese, nel campionato 1993/94. Deludente dal punto di vista sportivo, visto che la squadra friulana retrocesse, ma importante sotto quello personale, dal momento che la Roma si accorse di lui e lo riportò alla base.
Buono il primo anno, con Carlo Mazzone in panchina; 20 volte titolare e una discreta duttilitàtattica che gli valse l’attenzione di Arrigo Sacchi e l’esordio in Nazionale maggiore. 3 presenze in maglia azzurra, poi il brutto infortunio che ne segnò definitivamente la carriera. A 26 anni fu costretto a fare un passo indietro e a ripartire da Udine, per poi approdare a Piacenza, dove, però, si tolse lo sfizio di prendersi la rivincita contro la “sua” Roma, segnandole un gol nella gara di ritorno del 1998/99, finita 2-0 per i biancorossi al ‘Garilli’. Una sfida che segnò irrimediabilmente il destino di Zdenek Zeman sulla panchina giallorossa, compromettendo le ultime speranze di agganciare il quarto posto, conquistato dal Parma di Alberto Malesani. Poi un passaggio a Torino tra le fila granata, 2 anni a Padova, fino alla conclusione della carriera vicino casa, con la maglia della Viterbese. Gli scarpini appesi al chiodo, la vita che ti obbliga a virare su altro e gli anni che iniziano ad avanzare. Però, ne siamo certi, ogni tanto gli tornerà alla mente quel caldo pomeriggio di maggio con la palla che scottava tra i piedi e non voleva saperne di entrare. Un pensiero, e poi il sospiro di sollievo racchiuso in un malinconico sorriso. Tanto Boggi, oramai, quel gol di Balbo non potrà più annullarlo.
Nella stagione 1997/98 la Roma partiva in campionato con buone ambizioni. Sulla panchina giallorossa era arrivato Zdenek Zeman, esonerato pochi mesi prima dalla Lazio: il tecnico boemo era uno dei fautori più spregiudicati del calcio offensivo, e le aspettative erano grandi. Ma c’era una squadra da rifondare: nella stagione precedente era stata ottenuta a malapena la salvezza, non troppo sofferta solo grazie ad un estemporaneo successo a Bergamo, 4-1, alla terzultima giornata. La campagna acquisti fu abbastanza variegata, con qualche azzeccato investimento e diversi errori: tra i tifosi romanisti l’arrivo di Cesar Gomez assumerà i contorni di una leggenda metropolitana, visto che il difensore ex Tenerife alla fine risultò essere un calciatore diverso da quello indicato dall’allenatore ceco (che invece voleva Pablo Paz).
La società aveva preso fischi per fiaschi, ed il tecnico provò a fare di necessità virtù, schierando il calciatore finchè la sua inadeguatezza non si rivelò palese. Poco si può imputare a Zeman per questa cantonata: gli appassionati più attenti di quel periodo ricordano piuttosto che un errore tecnico-tattico di livello abbastanza clamoroso il boemo lo commise nei confronti di un altro nuovo acquisto, Ivan Helguera. Arrivò a Roma appena ventiduenne, dopo una stagione di buone promesse all’Albacete. Nel ritiro estivo Nils Liedholm, “padre nobile” di quella squadra dopo la sua ultima apparizione in panchina nella stagione precedente, prendeva sottobraccio i giornalisti per mostrare due particolari prodigi: la velocità di Giorgio Lucenti, esterno prelevato dal Palermo, ed il piede vellutato di quel ragazzino spagnolo.
Qualcuno cominciò ad ironizzare sulla residua lucidità dell’ormai anziano Barone, alla luce delle prestazioni di Lucenti, ma soprattutto di Helguera, che fece ricordare a più riprese il passo da moviola del mitico “bidone” Andrade. Eppure il vecchio Nils almeno su Helguera dimostrerà, col senno di poi, di averci visto giusto. Il punto è che lo stesso Zeman si fece ammaliare dal tocco di palla e dalle movenze eleganti del talento iberico, schierandolo di fatto centrale di centrocampo, perno di un 4-3-3 esigentissimo in termini di mobilità, velocità di esecuzione palla al piede ed automatismi. Helguera si dimostrò invece irrimediabilmente lento per quel compito, e collezionò solo otto presenze da vice Di Biagio, lui sì perfetto per il ruolo di regista zemaniano, prima di fare le valige e tornarsene in Spagna.
Qui, il colpo di scena. Passato all’Espanyol mentre in Italia già fioccavano gli “amarcord” che lo ricordavano con l’implacabile etichetta di “sòla”, giocò per intero la Liga da centrale di difesa, risultando uno dei migliori giocatori del campionato. Il punto è che Helguera a 24 anni, con tutta la carriera ancora davanti, si scoprì “libero” alla vecchia maniera, e con i fiocchi. Il Real Madrid colse al volo l’occasione e lo portò al Bernabeu, dove conquistò 3 campionati spagnoli e 2 supercoppe (la Copa del Rey la conquisterà nel 2008 una volta passato al Valencia). E soprattutto, 2 Champions League (nel 2000 e nel 2002), la Supercoppa Europea ed il Mondiale per Club nel 2002, giocando al fianco di campioni del calibro di Ronaldo, Figo e Zidane nel corso degli anni. C’è da scommetterci che Zeman, mentre spala la neve all’Adriatico di Pescara proprio in questi giorni, ancora ci ripensa.