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Allenatori Fabio Belli

Ezio Glerean, “l’uomo in più” di Paolo Sorrentino

di Fabio Belli

Alla sua idea di calcio si è ispirato anche il regista premio Oscar Paolo Sorrentino per la sua opera prima, “L’uomo in più“. Il protagonista Antonio Pisapia, interpretato da Andrea Renzi, ex calciatore che rifiuta di truccare partite e fatica a reinserirsi nel mondo del calcio da allenatore, prova ad esportare la sua idea di football avveniristico, con gli attaccanti che si muovono a rombo, tre punte più un trequartista, per i triangoli ed i fraseggi, e tre mediani che fanno muro a centrocampo. “Si possono vincere le partite, così“, spiega senza che nessuno lo ascolti. Finzione dalle radici ben piantate nella realtà: la vicenda umana del protagonista, che nel film incrocia i suoi destini con l’omonimo cantante interpretato da Toni Servillo, si ispira a quella di Agostino Di Bartolomei. Ma anche i riferimenti calcistici vengono dalla realtà visto che lo schema dell'”uomo in più” porta la firma di un allenatore-gentiluomo nato a San Michele al Tagliamento, Ezio Glerean.

Glerean è arrivato alle soglie del grande calcio, ma non è riuscito a sfondare come forse la sua capacità di insegnare calcio avrebbe meritato. La sua strada, nel momento di massimo splendore, si è incrociata con quella di Maurizio Zamparini, il vulcanico presidente che ha saputo lanciare alla ribalta tanti allenatori quanti ne ha allo stesso tempo bruciati. Troppo garbato nei modi e nello stile, Glerean, per resistere ai ritmi del presidente mangiallenatori che lo incrociò nel momento più confuso della sua gestione, quello del “trasloco” da Venezia a Palermo, dove dopo un precampionato travagliato Glerean, nel 2002, riuscì a durare solo una giornata. A Palermo c’è chi ha fatto di peggio con tecnici come Pioli esonerati addirittura prima dell’inizio del campionato ma quella in Sicilia resta forse la grande occasione perduta del tecnico veneto in una squadra che, al di là delle bizarrie di Zamparini, arriverà in quegli anni alle soglie della Champions League.

All’alba del 2000 gli appassionati di calcio ed in particolare di tattica si stavano passando una voce: quello di Glerean poteva diventare un modello di gioco completamente nuovo, alla stregua del 4-4-2 sacchiano o del 4-3-3 zemaniano. Complice la moglie olandese ed alcuni viaggi ad Amsterdam Ezio era passato spesso dalle parti del campo d’allenamento dell’Ajax ed aveva studiato un’idea di gioco, nata a Sandonà e perfezionata al Cittadella, assolutamente inedita per il calcio italiano. Era nato il 3-3-4, interpretazione estrema della zona che come detto aveva portato il piccolo Sandonà tra i professionisti ed il Cittadella per la prima volta in Serie B, con la piccola squadra in provincia di Padova capace di sbaragliare concorrenza anche più attrezzata nei play off, prima dalla C/2 alla C/1 e poi dalla C/1 alla B.

Le peculiarità di questo modulo sono state illustrate a grandi linee nel film: serve una difesa a tre con centrali bravi nel gioco aereo e nell’uno contro uno, tre mediani capaci di avere cuore e polmoni per correre a tutto campo e recuperare palloni, e soprattutto quattro attaccanti capaci di produrre un pressing continuo sul portatore di palla avversario, per non mandare in sofferenza gli altri reparti, e di dialogare fra loro con rapidi scambi di palla. Una ricetta avveniristica che ha dimostrato di funzionare nelle categorie inferiori, ma per Glerean è mancato il grande salto, l’allenatore-galantuomo che (caso più unico che raro nel calcio di oggi) non ha neanche un procuratore, non ha mai trovato il suo “uomo in più”, ovvero un presidente deciso a scommettere su di lui a grandi livelli, forse complice la lenta fine della rivoluzione della zona, iniziata oltre venti anni prima del miracolo-Sandonà e del 3-3-4, che ne resta ancora l’espressione più estrema, affascinante ed al momento ancora non del tutto esplorata. Oggi Glerean allena a Marostica, tra i dilettanti: la sua passione per cercare nuove formule e trovare un uomo in più in un calcio che sembra aver ormai già detto tutto non si è ancora spenta.

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Calciatori Fabio Belli

Aleksandar Arangelovic: il “bomber profugo” di Cinecittà

di Fabio BELLI

A Roma le ferite della Seconda Guerra Mondiale, alla fine degli anni Quaranta, si potevano vedere agli angoli di tutte le strade. Dal centro crocevia di destini, fino alle periferie nelle quali si concentravano i pezzi di umanità che covavano i dolori più profondi, gli abitanti della Città Eterna cercavano disperatamente di ripartire aggrappandosi a brandelli di normalità. Tra di essi, il calcio è uno dei riti che ha saputo rimettersi in moto più in fretta e la rivalità tra Lazio e Roma tornava lentamente a dividere ma in un certo senso anche unire una città dalle mille anime.

Roma 1949/50
Roma 1949/50

Nel 1949 i soldi però scarseggiano, e non poco. A passarsela peggio in città è la Roma che, dal momento della sua fondazione, aveva vissuto un crescendo che aveva portato allo scudetto del 1942. L’essere però il frutto di più anime calcistiche, nato dalla fusione del 1927, ha portato il club ad una dispersione d’energie che si fa sentire soprattutto a livello economico. E’ l’anno della transizione tra il presidente dell’immediato dopoguerra, Pietro Baldassarre, e Pier Carlo Restagno, che resterà in carica tre anni conoscendo l’onta dell’unica retrocessione in Serie B ma anche il riscatto dell’immediata risalita. Ad ogni modo per tirare su una squadra in grado di affrontare il campionato 1949/50 occorre fare di necessità virtù e l’idea geniale per la Roma giunse da Cinecittà ed anche per i tempi non era di certo convenzionale.

Nel popolare quartiere Mecca del cinema italiano, infatti, tra i prati sterminati dell’epoca sono anche siti momentaneamente molti campi che ospitano profughi di guerra. E’ proprio lì che la Roma scova Aleksandar Arangelovic, all’epoca ventisettenne (anche se alcune note biografiche suggeriscono che poteva in realtà avere due anni in più). Jugoslavo apolide con una passione per il calcio sfiorita a causa delle miserie della guerra. Finito in fuga in povertà a Roma, Arangelovic era stato in realtà un calciatore di professione. Aveva giocato col Padova ed anche col Milan quando i tornei ufficiali erano stati però già stati sospesi e, si venne poi persino a sapere, aveva sostenuto un provino con la Lazio che non era però riuscita a superare dei problemi legati al suo tesseramento. Arruolato nella squadra giallorossa al minimo del salario, in attesa di riprendere un’adeguata forma fisica, Arangelovic divenne in men che non si dica un idolo della tifoseria giallorossa, tanto da diventare un vero personaggio ospitato anche da artisti come Mario Riva e la compagnia Dapporto durante spezzoni trasmessi nei cinegiornali.

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Arangelovic al Novara

La sua specialità era la “bomba“, ovvero il tiro micidiale che sapeva scoccare anche da fermo. Un vero e proprio tratto distintivo che ne faceva anche un mago delle punizioni. In quell’anno la Roma si guadagnò il soprannome di “ammazzasquadroni” perché, pur lasciando per strada punti contro molte squadre modeste, riusciva a collezionare scalpi di formazioni in lotta per il titolo. Arangelovic era l’arma segreta della squadra, capace di far ammattire il fuoriclasse svedese Gren in un Roma-Milan d’altri tempi. Concluse il campionato con l’eccellente bottino di undici reti e con quattro doppiette inflitte all’Atalanta, alla Lucchese, al Venezia ed al Palermo.

A fine partita, dopo aver compiuto prodezze nella massima serie, se ne tornava a Cinecittà negli alloggi per i rifugiati. Un simbolo della precarietà dell’epoca, ma anche della voglia di riscatto che pervadeva Roma e tutta l’Italia. “Ce pensa l’Arcangelo“, cantilenavano allo stadio i tifosi giallorossi riadattando il nome di quello slavo dallo sguardo misterioso che tenne a galla la squadra, salva alla fine per due punti, con i suoi gol. E la Roma aiutò a sua volta Arangelovic a rimettersi in pista: restò a giocare in Italia, al Novara, e poi riprese a girare il mondo, prima al Racing di Parigi e poi all’Atletico Madrid prima di intraprendere, da vero pioniere, la carriera di allenatore in Australia.

 

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Club Jean Philippe Zito

Venezia 1999: Maniero, Recoba e una rimonta per la storia

di Jean Philippe ZITO

Arrivai al Venezia dal Milan nell’estate del 1998; la squadra era appena risalita dalla B e in città c’era un entusiasmo incredibile. La rosa poi era davvero di livello. In porta Taibi, in difesa Luppi, Pavan, Carnasciali e Dal Canto, a centrocampo Pedone e Beppe Iachini, davanti insieme a me c’era un bomber, Stefan Schwoch, 17 reti in B. Sulla carta ci potevamo salvare tranquillamente, ma l’avvio fu tutt’altro che facile. Una vittoria nelle prime dodici giornate e l’esonero di Walter Novellino a un passo. Il presidente Zamparini parlò con noi e ci chiese se volessimo proseguire con il mister. Noi rispondemmo compatti di sì e alla fine abbiamo fatto bene”.

Filippo “Pippo” Maniero ci racconta come quel Venezia, raggiunta la storica promozione in serie A, abbia la possibilità di raggiungere una salvezza tranquilla grazie agli sforzi profusi dal patron Maurzio Zamparini, alle capacità indiscusse di un rampante Direttore Generale di nome Giuseppe Marotta e al grandissimo motivatore seduto in panchina, Walter Novellino.

Come già detto, l’inizio della Serie A 1998/99 per il Venezia non è stato facile: l’esordio è a Bari contro l’undici allenati di mister Fascetti. Ai galletti pugliesi basta un gol del giovane Gianluca Zambrotta al decimo minuto per far registrare la prima sconfitta veneziana.

La settimana successiva si gioca al Penzo (ubicato sull’isola di Sant’Elena è il secondo impianto più antico d’Italia dedicato al Calcio n.d.r.), di fronte c’è il Parma di Malesani che vede tra le sue fila giocatori del calibro di Buffon, Thuram, Cannavaro, Veron, Fuser, Aspilla…La partita finisce 0 a 0 e così arriva il primo punto in classifica.

Seguono tre sconfitte consecutive contro la Roma all’Olimpico per 2 a 0 con doppietta di Marco Delvecchio, con il Milan al Penzo per 2 a 0 (tra le polemiche per un presunto gol in fuorigioco di Leonardio) e al Renato Curi contro il Perugia per 1 a 0. Non manca il gioco, rigorosamente a zona con pressing e contropiede, ma mancano clamorosamente i gol. Nelle prime 5 giornate di campionato il Venezia ne ha segnato solamente 1. Sotto accusa ci sono sia Pippo Maniero che il bomber della promozione, Stefan Schwoch.

I neroverdi-arancioni alla sesta giornata muovono la classifica e salgono a due punti, grazie al pareggio in trasferta contro l’Udinese per 1 a 1, ottenuto grazie al primo gol di Schwoch. Secondo gol segnato, settimo subito; i numeri restano comunque impietosi. Nei due turni seguenti due sconfitte dolorose: la prima in casa contro il Bologna per 2 a 0, maturata nell’ultimo quarto d’ora. La seconda al Franchi contro la Fiorentina di Trapattoni, che rifila un sonoro 4 a 1 (per il Venezia Schwoch su rigore).

A metà del girone d’andata la panchina di Novellino è già in discussione, serve una scossa e serve subito. Eccoci quindi giunti alla nona giornata, al Penzo arriva la corazzata Lazio. L’umore in Laguna è basso, ma il battagliero mister veneziano vuole vedere “coraggio e orgoglio” contro i biancocelesti romani, anche se sprovvisti dell’attacco titolare.

Esordisce dal 1° minuto un attaccante brasiliano fino a quel momento sconosciuto ai più, Tuta, al fianco di Valtolina. Il 15 novembre del 1998 (esattamente 21 anni fa) accade l’inaspettato. I padroni di casa sono aggressivi fin dall’inizio e mettono alle corde la retroguardia laziale (rimaneggiata, con Negro e Couto centrali per la prima volta insieme), che subisce immediatamente il gol proprio di Bastos Tuta e, verso la fine del primo tempo, il raddoppio di Pedone. Nel secondo tempo la musica non cambia, ed è più volte il Venezia che ha l’occasione di arrotondare ancor di più il risultato. 2 a 0 contro la favorita per lo Scudetto, prima vittoria e partita che sembrerebbe della svolta.

Invece, la decima giornata, vede la sconfitta del Venezia per 1 a 0 fuori casa contro la Salernitana. L’undicesima sancisce il primo dei tre 0 a 0 nelle ultime quattro giornate che precedono la sosta invernale. Pareggio interno contro la Sampdoria, vittoria esterna a Cagliari per 1 a 0 (grazie ad un autogol) e successivi due match a reti inviolate: prima in casa contro il Piacenza, poi a Vicenza nel derby veneto. L’emergenza è la fase realizzativa. La difesa va bene, la manovra scorre fluida, ma il rendimento in avanti è insufficiente, soprattutto di Pippo Maniero che non è riuscito a segnare neanche un gol.

Nel mercato invernale l’intuizione di Marotta e Zamparini si chiama Alvaro Recoba. Relegato nel dimenticatoio in casa interista, il talento uruguaiano ha bisogno di giocare.

A Venezia era come se fosse arrivato Maradona. E a lui il fatto di essere visto come il più bravo non dispiaceva affatto”.

L’arrivo di “El Chino” ha giovato anche a Pippo Maniero. La prima gara dopo la sosta si gioca a Venezia contro l’Empoli il 6 gennaio 1999: “Perdevamo due a zero alla fine del primo tempo ed eravamo sotto di un uomo per l’espulsione di Bilica. Nella ripresa segnò Valtolina e poi due mie reti, entrambe su pennellate del Chino”. Il secondo di tacco al volo. “Mi arrivò il cross ed ero girato. Potevo colpirla solo in quella maniera e mi andò bene. Se ci riprovo 100 volte mica mi viene…”. Finale di partita 3 a 2, vittoria importante e prestazione maiuscola di Recoba. Venezia tutta è innamorata del fantasista tutto mancino.

È l’inizio di un nuovo campionato per il Venezia di Novellino che fa vedere un bel calcio, finalmente finalizzato dal tandem Recoba-Maniero (Schwoch nel frattempo è stato ceduto al Napoli). Dopo la vittoria in rimonta con l’Empoli, una sonora sconfitta al San Siro per 6 a 2 contro l’Inter non modifica il corso degli eventi. All’ultima giornata del girone di andata il Venezia pareggia 1 a 1 contro la Juventus.

Il cambio di marcia definitivo avviene tra la diciottesima e la ventesima giornata. 7 punti in tre partite grazie alla vittoria casalinga per 2 a 1 contro il Bari, a segno un Maniero ritrovato e Tuta (discussa e controversa la reazione alla sua marcatura). Poi il pareggio esterno a Parma per 2 a 2 (sempre Maniero, doppietta) e la vittoria casalinga (il giorno di Carnevale) contro la Roma di Zeman per 3 a 1 con il primo gol di Recoba al Penzo.

Dopo la sconfitta contro il Milan a San Siro per 2 a 1 alla ventunesima giornata, due vittorie casalinghe consecutive. La prima contro il Perugia per 2 a 1 (Recoba-Maniero), la seconda per 1 a 0 contro l’Udinese(Recoba). Al turno numero 24 il Venezia perde a Bologna 2 a 1, ma alla venticinquesima si gioca a Venezia contro la Fiorentina lanciatissima in zona Champion’s League.

Un match che è entrato di diritto nella storia del club veneto. Al 18° minuto punizione dai 25 metri. “El Chino” spedisce la palla sotto al sette, con un incolpevole Toldo fermo a guardare. Al 42° calcio d’angolo dalla sinistra battuto da Recoba, Miceli stacca di testa, e con un’incredibile carambola, segna il secondo gol. In pieno recupero, altra punizione dai venti metri, spostata sulla destra. Nuovamente Recoba sul punto di battuta, che con un altro tiro a giro beffa Toldo. Fine primo tempo 3 a 0 per il Venezia e gara da incorniciare per il talento uruguaiano. A due minuti dalla fine dell’incontro Esposito realizza su calcio di rigore il gol della bandiera per i Viola. Il 4 a 1 finale lo segna ancora Recoba con un gol di rara bellezza. Stoppando la palla sulla linea di fondo beffa in dribbling Falcone, poi con la suola dribbla Toldo e a porta libera segna di destro. Standing ovation finale e salvezza ad un passo.

Nelle seguenti 6 partite di campionato il Venezia rallenta l’altissima media punti del girone di ritorno con 3 sconfitte (Lazio, Sampdoria e Vicenza), un pareggio e 2 vittorie con il Cagliari in casa per 1 a 0 (Recoba) e il Piacenza fuori (1 a 0, Maniero). Alla giornata numero 32 ad Empoli il Venezia pareggia 2 a 2 (doppietta de “El Chino”), ma la partita salvezza si gioca in casa contro l’Inter alla trentatreesima.

È il 16 maggio 1999, penultima giornata di campionato, e con una vittoria il Venezia sarebbe matematicamente salvo. Dopo 1 minuto la squadra di casa è già in vantaggio con un eurogol di Volpi. Dopo soli 3 minuti punizione dal limite, “El Chino” è implacabile: 2 a 0.

Al minuto numero 18 il 3 a 0, gol di Maniero di testa. Una partita incredibile, giocata con un furore sportivo emozionante. Il “Fenomeno” Ronaldo segna nella ripresa il gol della bandiera su rigore. 3 a 1 finale e grande festa per una salvezza insperata, ottenuta dopo un avvio disastroso di campionato.

Come una fenice quella squadra, da Gennaio del 1999 fino a fine stagione, ha incantato soprattutto grazie all’arrivo di Recoba. “Eravamo davvero un grande gruppo si stava uniti in campo e anche fuori. E se chiedete a un tifoso del Venezia che squadra ricordano con più piacere, vi parlerà quasi sicuramente di noi…”. Pippo Maniero ricorda con affetto quella squadra che come una fenice è rinata, riuscendo a compiere l’impossibile.

L’augurio di chi scrive è che Venezia città, vent’anni dopo, possa risorgere dopo essere stata sommersa dall’acqua alta a causa del cattivo tempo.

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Calciatori Fabio Belli

Germano: l’amore proibito del nuovo Garrincha nell’Italia degli anni Sessanta

di Fabio BELLI

Estate del 1962: il boom economico in Italia sta iniziando a scaldare i motori, nel Paese si respira un’aria più fresca, nuova, forse anche un po’ ingenua. A neanche venti anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale il paese non è ancora molto più ricco, ma ha ripreso a sperare e, soprattutto, a sognare. Il calcio è un importantissimo veicolo di divertimento e aggregazione ma, nell’era della vertiginosa crescita industriale, sono le grandi del Nord a comandare. La Nazionale agli ultimi Mondiali in Cile ha subito lo scandaloso arbitraggio dell’inglese Aston contro i padroni di casa. Una vergogna, ma nel calcio in cui gli echi della comunicazione, soprattutto da oltreoceano, arrivano ancora distorti, sono cose che capitano anche con una certa frequenza.

germano1La stella indiscussa di Cile 1962 doveva essere Pelè ma gli infortuni non hanno permesso alla Perla Nera di essere protagonista. Al suo posto, il Brasile ha celebrato Amarildo per la conquista del suo secondo titolo mondiale. Ma il fascino dei calciatori esotici, pieni di talento ed estro, diversi da quelli che in Italia praticano il catenaccio sistematico, comincia a farsi largo tra i tifosi e in un campionato come la Serie A che comincia a potersi permettere l’ingaggio di calciatori esteri. Così il primo club a cavalcare la suggestione del Brasile di Pelè è il Milan del patron Rizzoli, che porta in Italia Josè Germano de Sales, sgusciante ala piena di guizzi e dribbling tanto da essere paragonato a Manè Garrincha. Allora appena ventenne, Germano faceva parte dei preselezionati per Cile ’62, ma alla fine non ha partecipato alla spedizione.

Da Germano i tifosi del Milan si aspettano grandi cose e soprattutto volano con la fantasia immaginando giochi di prestigio palla al piede, dribbling a ripetizione su un fazzoletto di campo, gol pescati direttamente dal cilindro di un mago. Quello che non sanno è che, soprattutto all’epoca, l’adattamento di un calciatore brasiliano in una realtà estremamente ordinata, grigia e fredda come quella milanese è molto complicato. Ed iniziano a sentir parlare di un termine misterioso, “saudade“, che significa più di nostalgia: è voglia di respirare un’aria diversa da quella delle ciminiere milanesi, è voglia di sentirsi circondati da tutt’altro rispetto a quella che è la realtà che diventa una prigione dalle sbarre di malinconia dalla quale si può solo evadere.

Germano comincia bene, gioca e segna in Coppa dei Campioni contro l’Union Luxembourg e in campionato contro il Venezia. Ma il suo stile svagato e la svogliatezza negli allenamenti non piacciono al Paròn Nereo Rocco che in quella stagione porterà per la prima volta la Coppa dei Campioni in Italia. Il suo Milan, a caccia dell’obiettivo più grande, dev’essere una macchina perfettamente oliata e Germano a novembre viene spedito al Genoa dove colleziona presenze ad intermittenza (solo dodici in campionato), qualche intemperanza e la frattura della mandibola, riportata in un incidente stradale una volta tornato a Milano a fine stagione.

Nel capoluogo lombardo l’aspirante Garrincha resterà altri due anni senza scendere mai più in campo fino al 1965, quando tornerà in Brasile al Palmeiras. Troppo, per una frattura della mandibola. Si scoprirà in seguito che i problemi di Germano a Milano erano puramente extracalcistici: il giocatore infatti iniziò una relazione clandestina con la figlia del potente Conte Agusta, l’industriale delle motociclette. La ragazza, per giunta allora minorenne, riempirà le cronache dei rotocalchi rosa per la sua fuga in Belgio, nel 1967, proprio per raggiungere Germano, che nel frattempo si era accasato allo Standard Liegi. Nascerà anche una figlia, Lulù. Troppo tutto insieme, per l’allora bigotta moralità italiana: e se di lì a poco i giocatori di colore conquisteranno grandi vette sportive (Jair nell’Inter, Nenè nel Cagliari), l’avvento di Germano ebbe l’effetto dirompente di un terremoto nel calcio italiano, che scoprì gloria, pazzie e miserie dei protagonisti del “futbol bailado”.

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Calciatori Marco Piccinelli

Calcio popolare, l’intervista | Diego Alejandro Cubillos tra i Drughi del Lebowski

di Marco PICCINELLI

Diego Alejandro Cubillos. Il nome potrebbe non dire nulla, ma a coloro che si cibano di dilettantismo o di calcio di nicchia, come il sottoscritto, Cubillos fa rima con certezza del gol.
O, comunque, alle orecchie di chi ascolta il suo nome, rievoca il passato della Pianese, della doppia promozione sfiorata, della parentesi alla (fu) Unione Venezia, di Sangimignano, ma soprattutto, di Mister David Sassarini. Veterano di Serie D ed Eccellenza, ora approda al Centro Storico Lebowski.

Ormai consolidata realtà fiorentina di ‘un’altra idea di calcio’, Cubillos sposa il progetto dei drughi fiorentini accettando di ‘scendere’ in Promozione’ ma quest’anno Cubo è diventato padre, dunque il fattore vicinanza famiglia-squadra diventa molto importante. In più: «col Sangimignano non ci siamo trovati per un accordo, dunque ho sposato il progetto del Lebowski e vorrei provare a far salire di categoria la squadra». Una sfida, per un veterano di Serie D ed Eccellenza, anche se c’è stata subito intesa coi drughi fiorentini: «i ragazzi del Lebowski mi sono piaciuti subito».

Lebowski, però, significa anche appartenenza politico-sociale: «Mi sono ritrovato col loro punto di vista della strutturazione della squadra» e del calcio dal basso tuttavia «non sono attivo politicamente». Certo è che il Lebowski ha conquistato il cuore di Diego Cubillos: «la squadra è davvero composta da una famiglia di ragazzi che giocano a calcio e che collaborano alla gestione della squadra: mio fratello, ad esempio, gioca a Futsal con l’altra squadra grigionera ed è allenatore dei bambini».

Lo scorso settembre, poi, il Lebowski è diventato formalmente una Società Cooperativa dilettantistica per azioni, ovvero: ognuno è proprietario del club: chiunque può diventare socio e contribuire alla vita della propria squadra: “se in tanti danno poco, il club ha un futuro garantito e una base solida su cui programmare”. «E poi, continua Diego, vedere un pubblico così tutte le domeniche in promozione è uno spettacolo: tifano la squadra per novanta minuti!». E sì che lui di stadi ne ha visti parecchi.

Con lui, tuttavia, ci soffermiamo su due episodi della sua vita: Pianese e Venezia. Piancastagnaio, campo in terra battuta, allenatore Davide Sassarini: doppia promozione sfiorata e Cubillos che inanella 28 gol in due anni (13 in Eccellenza, 15 in Serie D), vale a dire in 56 presenze. Con il Mister si instaura un rapporto particolare: quando viene chiamato ad allenare il Venezia, Cubo va in laguna e indossa i colori arancioneroverdi. Prima, però, giocava al San Donato, Sassarini si invaghisce di lui e lo alza di posizione: «la mossa giusta», secondo Cubillos. I risultati ne sono testimoni.

«Il rapporto che è andato instaurandosi con lui [Sassarini] – spiega Cubillos – è stato quasi da “padre-figlio”, ci sentiamo tutt’ora ed è una cosa molto positiva».
La Pianese? Un momento bellissimo: «Ho ricordi bellissimi, sono stati due anni di vittorie e il secondo anno ci sfuggì la finale play-off di un soffio. Sono stato benissimo: non era una piazza conosciuta ma abbiamo saputo creare una comunità attorno alla squadra e c’era sempre gente che veniva a vedere la partita». Ovviamente il pubblico non è paragonabile con quello grigionero, ma le basi sono state gettate, ed ora Piancastagnaio è piazza di rilievo nel dilettantismo toscano.

Poi la svolta veneziana. Sassarini inanella risultati positivi e porta con sé Cubillos e Biagini, tuttavia, ad un certo punto la dirigenza cambia tutto e si arrivò all’esonero del mister preferendo uno più esperto, Favarin. Cubillos se ne andò, come anche la pattuglia toscana arrivata in laguna ma i tifosi non dimenticarono quanto fatto da Sassarini: la domenica successiva del suo esonero coprirono il settore con uno striscione su cui era stato pennellato il suo detto per cui non si può sempre usare il fioretto: a volte va usata la spada. «Sto cercando di portare quella mentalità lì al Lebowski» e, dati gol segnati, sembra ci sia riuscito.

La prima partita col Lebowski? «Quella persa in Coppa, in cui la prima cosa che ho pensato è stata ‘mamma mia che figura di merda’, sono arrivato qui che volevo vincere tutto e invece guarda qua!».

Ma Diego Cubillos è extra-ordinario per la Promozione e, nonostante i play-off sfiorati anche stavolta, il cecchino decisivo per l’attacco grigionero è stato lui. “Cubo” tra i drughi: “Vorrei far salire di categoria il Lebowski

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Calciatori Marco Piccinelli

Riccardo Bocalon, il gondoliere del gol diventa Re di Coppa

di Marco Piccinelli

Bocalon all'Inter
Bocalon all’Inter

La sfida è una di quelle che raramente hanno luogo, specie se si dà un’occhiata alle ultime edizioni del Trofeo. Si sta parlando della Coppa Italia e della partita che ha sancito chi avrebbe approdato alla semifinale. Lo scontro era tra Spezia e Alessandria, due squadre che non rappresentano né la massima serie di calcio italiana, né schierano tra le loro fila dei nomi ultra-blasonati che hanno importanti trascorsi. Lo Spezia milita in Serie B, l’Alessandria in Lega Pro si trovano una di fronte all’altra nella sfida dei Quarti di Finale di Coppa ed entrambe hanno sconfitto compagini ben più quotate di loro (Palermo, Roma, Genoa, solo per fare qualche nome). Passa l’Alessandria per due reti a uno. Passa l’Alessandria con due reti di un figlio della città dei Dogi: Riccardo Bocalon.  L’attaccante nasce in laguna nell’89 e inizia a militare nelle giovanili del Treviso fin da subito: mette a segno quattro presenze (2008) e viene acquistato dall’Inter assieme ad un suo compagno di squadra, Jacopo Fortunato. Inizia un lungo periodo di prestiti ad altre piccole società sportive: Portosummaga, Viareggio, Cremonese, Carpi, SudTirol fino ad arrivare al Venezia, al Prato e all’Alessandria. Nella squadra della sua città, nonostante le sole due stagioni in cui vi ha militato, il ricordo è pressoché indelebile: insieme a D’Appolonia, altro ragazzo lagunare doc con cui condivideva il ruolo nel rettangolo di gioco, formava una coppia quasi imbattibile; assieme a loro, poi, quell’anno vi era anche un decano del calcio italiano, Denis Godeas, ora uomo forte del Monfalcone (Serie D, girone C). Bocalon, infatti, con la maglia arancioneroverde, può vantare una promozione da Seconda Divisione a Prima Divisione, quando la Lega Pro era ancora concepita con due campionati distinti fra loro, e un campionato niente male da neopromosse in quella che una volta era la C1.

La vittoria contro il Monza per tre reti a due rappresenta un momento storico tanto quanto quello della vittoria dello scudetto dilettanti l’anno precedente, quello di Sassarini, dell’esonero nel girone di ritorno del medesimo allenatore e dell’arrivo di Favarin, che molti si ricorderanno per il suo sclero epico dopo il pareggio coi vicentini Sarego (già dati per retrocessi).

Bocalon al Venezia
Bocalon al Venezia

Bocalon, al termine del prestito con l’Unione Venezia, va al Prato e incontra un giocatore che gli arancioneroverdi filo-toscani a guida Sassarini conoscevano bene: l’aretino Giulio Grifoni. Il sistema del prestito si rompe e l’Alessandria decide di acquistare Riccardo Bocalon dall’Inter: i neroazzurri lo lasciano partire, il trasferimento ammonta a 300 mila euro. L’attaccante, dunque, è parte integrante dell’Alessandria e con i grigi viaggia nelle vette alte del campionato di Lega Pro, spina nel fianco del Cittadella primo in classifica. Con la sua personale doppietta nella partita contro lo Spezia, infatti, Bocalon fa proseguire il sogno all’Alessandria: la Coppa Italia prosegue e la piccola comunità calcistica se la dovrà vedere contro i rossoneri del Milan. Prima, infine, si menzionava la coppia che il bomber in questione faceva con D’Appolonia, vedendo come interagiscono sul campo tra di loro Bocalon e Marras, sembra di rivivere le emozioni che forniva quel duo veneziano che indossava la maglia della propria città. E che, al momento del terzo gol contro il Monza, veniva lanciata al vento, facendo esplodere i troppi convenuti rispetto alla capienza.

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Calciatori Fabio Belli

Dalla D brasiliana al Puskas Award: la folle storia di Wendell Lira

di Fabio Belli (tratto da www.laziochannel.it)

La cerimonia di consegna del Pallone d’Oro nasconde spesso storie nelle storie che sono anche più interessanti del riconoscimento principale. Che da otto anni ormai è cosa di Cristiano Ronaldo e Leo Messi, e per quanto si possa essere d’accordo tecnicamente, è chiaro che la suspance è quella di una cena con delitto con Freddy Krueger tra gli invitati.

Più interessante allora concentrarsi sul Pallone d’Oro femminile, un universo in espansione che solo in Italia trova resistenze culturali insormontabili. A monopolizzare l’attenzione però stavolta è stato il “Puskas Award“, il premio consegnato per il più bel gol della stagione. Nel nostro paese questo riconoscimento ha avuto un richiamo supplementare visto che era l’unico per il quale c’era un italiano il lizza: Alessandro Florenzi, per la rete siglata in Champions League contro il Barcellona. La storia più interessante è stata però quella relativa al vincitore: gli appassionati, quando hanno distrattamente ascoltato il nome di Wendell, avranno pensato: “Ah, quello del Bayer Leverkusen! Che gol avrà mai fatto?” e saranno passati avanti.

Negativo. Il Wendell autore del più bel gol della stagione era in realtà tale Wendell Lira, ventisette anni compiuti da una settimana. E gioca nella Serie D brasiliana. Esatto, è un po’ come se il premio per il gol più bello dell’anno fosse stato assegnato dalla FIFA a Gianni Fabiano del Venezia, per fare un esempio. Una mezza girata spettacolare per il carneade brasiliano, che lui stesso ha definito a metà tra una rovesciata e un colpo di kung fu.

https://www.youtube.com/watch?v=NG-d-aHadKo

La partita in cui tale prodezza è stata compiuta era Goianesia-Atletico Goianiense, al quarto livello del calcio brasiliano. Wendell Lira ci è arrivato da ex talento del Goias, squadra principale della zona, ma non è riuscito a tenere fede alle sue promesse di giovane attaccante come se ne vedono fiorire a centinaia in Brasile. Un paio di gravi infortuni l’avevano anche relegato a lavorare nella caffetteria della mamma, fino all’offerta della Goianesia, e al gol dell’11 marzo scorso nel derby contro l’Atletico che gli ha cambiato la vita.

Lui però non lo sapeva ancora, visto che nel frattempo era salito di un livello, nella C brasiliana alla Tombense di Minas Gerais, arrivando però ben presto alla rescissione del contratto. Il Puskas Award ora potrebbe rappresentare davvero la svolta definitiva di una carriera tormentata. Nella caffetteria della mamma non hanno trattenuto le lacrime, la famiglia Lira si è ritrovata catapultata ai vertici del calcio mondiale da un giorno all’altro. E Wendell potrà giocare in Serie B, visto che per lui è arrivata un’offerta del Vila Nova, club della regione di Goiania militante nel campionato cadetto brasiliano. Come in tutte le favole, tutto è bene quel che finisce bene.

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Marco Antônio de Freitas: a Venezia tra calcio e saudade

di Marco Piccinelli

I lettori abituali di questo blog potrebbero storcere un po’ il naso dando un’occhiata a questo post: che c’è di diverso in una storia di un calciatore straniero che viene a giocare in Italia decidendo, in seguito, di tornare al suo Paese d’origine per varie ragioni? Che c’è di diverso nella classica motivazione dei brasiliani riguardante la nostalgia di casa, quella che si chiama saudade?
Che poi, la saudade non è proprio nostalgia di casa ma anche assenza, lontananza, malinconia; Gilberto Gil, nella sua canzone Toda Saudade, l’ha definita più o meno così: «Ogni saudade è la presenza dell’assenza, di qualcuno, un luogo o un qualcosa, infine; un improvviso no che si trasforma in ; come se il buio potesse illuminarsi».
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Con la storia di Marco Antônio de Freitas la saudade c’entra, ma non è solo quello stato d’animo ad essere predominante: una serie di motivazioni, tutte rilevanti, interpretano un ruolo fondamentale sul proscenio della presenza dell’attaccante brasiliano in Italia.
Marco Antônio de Freitas arriva in laguna quando il Venezia è fallito di recente e si trova a disputare il girone C della serie D per la seconda volta consecutiva: in panchina c’è Enrico Cunico, allenatore vicentino di fama locale che s’è fatto le ossa in Prima e Seconda Categoria prima di approdare all’Eurotezze in Eccellenza, poi il primo salto al Montebelluna in D e l’approdo all’FBC Unione Venezia da cui viene esonerato ad una manciata di domeniche prima della fine del campionato.
A Cunico era subentrato Gianluca Luppi, colonna difensiva di un A.C. Venezia che i tifosi ricordano ancora: con lui alla guida dei lagunari, la squadra assume un gioco diverso da quello di Cunico, il suo approccio era decisamente migliore – col senno di poi – di quello di Cunico, ma tant’è. Quella stagione la vinsero i cugini del Treviso, il Venezia arrivò secondo con i playoff persi contro il San Donà Jesolo, compagine che – in ogni caso – perse lo spareggio decisivo per la Lega Pro contro la Turris e l’anno successivo ancora nella finalissima contro il Cosenza. Dopodiché fallì completamente, e ora l’Asd San Donà di Piave – Don Bosco milita in Seconda Categoria.

Ma questa è un’altra storia.

Il Venezia di Cunico era, in ogni caso, una squadra che poteva puntare alla vetta della classifica, ed è stata la prima stagione di Emil Zubin in arancioneroverde, il bomber che in due sole stagioni ha visto il proprio nome superare quello di Paolo Poggi, icona veneziana, nella classifica marcatori di tutti i tempi.

Marco Antônio de Freitas approda a Venezia a campionato iniziato da poco e fin da subito si allena duramente assieme a tutta la squadra: proviene dal Rio Branco Football Club, squadra di Serie D brasiliana; in precedenza una serie infinita di maglie vestite, dal Fortaleza al Comercial, dal Ferroviaria all’Anapolina, fino a quella (nel 2005) del Jeonbuk Hyundai Motors Football Club, team della massima serie Sud Coreana; cresce nelle giovanili del São Paulo e ci disputa una sola stagione nel 1999.
L’attaccante approda in laguna nel 2010 quando il fratello, Augusto Cesar de Freitas, era già un veterano di Eccellenza e Serie D in Italia: Guto, diminutivo di Augusto, ha fatto, in piccolo, lo stesso percorso del fratello maggiore partendo dal Brasile e tentando di sconfinare nel campionato indonesiano nel Persita Tangerang prima del ritorno in Brasile per una stagione al Sao Carlos. Poi, per Guto, c’è stato spazio solo per l’Italia: Francavilla, Sangiustese, Sarzanese, Boca Petri Carpi, Montebelluna, Marano, Thermal Ceccato, due anni al Cerea e ora punta del Laguna Venezia1 in Eccellenza Veneta.
La vita di Marco Antônio de Freitas in laguna, però, non inizia col piede giusto dal momento che fin da subito non arrivano tutti i documenti necessari perché si sancisse formalmente il trasferimento dal Brasile all’Italia, tuttavia il brasiliano non molla.
Gli allenamenti proseguono e, finalmente, inizia a fare le prime apparizioni sui campi veneti ammantati dalla nebbia invernale: Cunico non lo schiera mai dal primo minuto, nonostante affermi che si tratta di un ottimo giocatore tattico e di sostanza, facendolo entrare sempre a partita finita.
A marzo 2011 il Venezia deve affrontare prima il Belluno e poi il Treviso, squadra con cui, a parte la rivalità storica, si è sviluppata una competizione per il primo posto del girone: la partita contro i gialloblu termina in pareggio e Marco Antônio, di nuovo, viene fatto entrare quando mancano poco meno di 10 minuti al termine della partita.
Eppure Marquinho, ogni volta che entra nel rettangolo di gioco, dimostra di saperci fare col pallone, se non altro per l’indubbia esperienza che ha maturato in Brasile: appena tocca palla gli piombano addosso sempre tre avversari per rubargli la sfera.
Così non va avanti e gli infortuni si sommano alle delusioni del poco minutaggio sulle gambe e al termine della partita contro il Belluno, infatti, intervistato da Andrea Martucci, giornalista che seguiva la società, esprime un’oncia di rammarico per le continue sostituzioni che lo fanno entrare a partita ormai terminata.

Sfiora il gol in diverse occasioni ma non riesce mai ad insaccare alle spalle del portiere avversario: la saudade nei confronti di casa cresce sempre di più. Cresce, a dismisura, quando il Presidente del Venezia Rigoni muore improvvisamente e la società ha bisogno di un rapido riassetto, nel momento in cui si concretizza la famosa cordata russa capitanata dall’ormai ex Presidente Yurij Korablin (ora posto ricoperto da Joe Tacopina, che i più si ricorderanno poco tempo fa al Bologna).

Cambio di panchina: via Cunico, dentro Luppi e de Freitas comincia a vedere le possibilità di giocare, dopo essersi ripreso dall’infortunio.

Gioca, dal primo minuto, solo l’ultima partita del campionato contro il Pordenone (nel Venezia di quel giorno avrebbe giocato anche l’appena maggiorenne Francesco Fedato, ora punta del Livorno). Finisce 3 a 2 per gli arancioneroverdi e Marquinho sigla il gol del vantaggio, mostrando, in una manciata di minuti, tutta la classe che non aveva potuto mostrare durante la stagione: cross di Cardin dalla sinistra, tiro rapidissimo di prima che va ad inserirsi in quella fessura minuscola tra la mano del portiere – già in volo – e la traversa della porta.
Non ci sarebbe arrivato neanche Lev Yashin.
I compagni urlano più di lui dopo il gol realizzato, la squadra gli corre incontro, si lascia abbracciare da tutti, dato che era – ormai da tempo – un componente della squadra a tutti gli effetti, benvoluto da chiunque all’interno del club: per una volta ha segnato lui, Marco Antônio de Freitas.
«E’ stato un bello gol», dice a fine partita, interpellato dal sempre presente Martucci, «io che ha fatto prima partita contro Pordenone, faccio oggi mia ultima partita». Marquinho ha già acquistato un biglietto aereo che neanche Luppi è riuscito a fargli spostare: «credo che la squadra va fino a fine con play-off, io torno a casa a cercare squadra in Brasile».
Non è stata la stagione migliore per Marco Antônio, ma la sfortuna degli infortuni, il transfer che non arrivava e un allenatore che gli imponeva lo status di riserva, hanno fatto tutto: il resto è saudade, altro che noia.
Tornato a casa disputa un’ultima stagione prima di ritirarsi, a causa di un altro brutto infortunio. Marquinho, ora, allena il settore giovanile di calcio femminile della sua prima squadra: il São Paulo.

1 Fondata nel 2011 dalla fusione di Us Muranese (che aveva già preso il nome di Laguna di Venezia), Venezia Alvisiana e Serenissima Vigna. Il Laguna Venezia, dunque, ha messo insieme tutti i gruppi di tifosi e sostenitori ‘neroverdi’ che si erano schierati fin dal primo momento contro la fusione delle società di Mestre e Venezia che avrebbe portato il tricolore ‘arancio-nero-verde’ sulla maglia della squadra della laguna, da qui il termine Unione ripreso dal Venezia una volta retrocessa in Serie D. L’associazione che più rappresenta l’istanza neroverde e, per l’appunto, ‘Cuore Neroverde’. Stessa matrice ha la società Pro Venezia, militante in Promozione Veneta.

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Quando la storia del Venezia ripartì dalla Serie D e da Giovanni Volpato

di Marco Piccinelli

«Erano tempi difficili, c’era chi si dava alle Stimorol danesi e chi si drogava con le Dentigomma che si trovavano solo in farmacia», a parlare è Max Collini, voce degli OfflagaDiscoPax nella celebre canzone ‘Cinnamon’.

Traslando il concetto espresso nella canzone, si potrebbe dire che quelli che andava vivendo la squadra della città di Venezia nel 2009 «erano tempi difficili».

Il doppio fallimento, dei Poletti prima e di ‘mister Golban’ poi, avevano fatto sì che il destino della società lagunare non fosse uno tra i più rosei e nonostante l’insperata salvezza raggiunta da mister Serena, richiamato a seguito dell’esonero di Stefano Cuoghi, a nulla valse vincere i playout: fallimento, un altro, e scomparsa della SSC Venezia.

Non si parlerà tanto di società in questo post, giacché l’attuale FBC Unione Venezia sorge in fretta e furia nel momento in cui gli arancioneroverdi vengono iscritti in sovrannumero nel girone C della serie D: della precedente gestione si salvano solo Andrea Seno (Direttore Sportivo) e Paolo Favaretto, mister delle giovanili che prenderà le redini della prima squadra.

L’Unione Venezia, questo il nome assunto dai lagunari una volta ‘scesi’ in serie D, si presentava ancora scarna: né organico, né maglie.

La prima apparizione ufficiale degli undici di Favaretto viene fatta con delle maglie della Lotto completamente bianche e lo stemma della casa costruttrice al posto del logo raffigurante il Leone di San Marco: iniziano a piovere critiche da subito, anche perché se non c’è la squadra, come possono esserci ancora le maglie?

L’unica certezza extra rosa sembra essere il Penzo, il vecchio stadio costruito a Fondamenta Sant’Elena secondo solo al Ferraris di Genova per longevità, all’interno degli undici gli unici a restare dalla Lega Pro sono Massimo Lotti, Simone Rigoni e Mattia Collauto, indomito capitano.

A loro tre vengono affiancati dei ragazzi che avevano fatto parte delle giovanili del Venezia e altri atleti provenienti da squadre limitrofe; la prima apparizione in campionato dell’Unione Venezia vedeva la squadra così composta: Cavarzan; Bigoni, Nichele, Vianello, Cardin; Collauto, Segato, Di Prisco, Modolo; Ragusa, Corazza (‘quel’ Corazza che ora gioca col Novara in prestito dalla Sampdoria); nella panchina di mister Favaretto c’erano, poi, Lotti, Bivi, Rocchi, Rigoni, Volpato, Tessaro, Benedetti.

La prima partita è una Caporetto: 4 a 1 contro il Montebelluna di Enrico Cunico (tecnico che guiderà la squadra l’anno successivo) e non molte possibilità d’appello. Seconda partita, seconda sconfitta, stavolta per 3 a 2 contro il Domegliara, tuttavia segnano Volpato e Nichele, i due che assieme a Collaudo trascineranno la squadra ben oltre le secche del campionato che si stava prospettando ad inizio stagione.

La prima vittoria arriva alla quarta giornata: 5 a 3 contro la Virtus Ve Comp Verona, doppietta di Modolo e un gol a testa per Corazza, Tessaro e Collauto.

Sarebbe bello poter continuare a scrivere delle avventure (e disavventure) dei lagunari nella stagione di ritorno alla D dopo una buona manciata di anni, anche perché il lettore abituale di questo blog potrebbe benissimo cliccare sulla ‘X rossa’ della finestra per chiudere tutto e dedicarsi a qualcos’altro di più produttivo.

Tuttavia, quella stagione viene ripresa per i capelli da tutto il gruppo, ormai decisamente affiatato e pronto per qualsiasi sfida gli si fosse parata davanti: Collauto, alla soglia dei 37, gioca la quasi totalità delle partite e non sente affatto il peso del confronto con i giovani virgulti – obbligatori in rosa – che tentano di frapporsi fra lui e l’obiettivo scelto; arrivato all’età di 39 anni giocherà ancora col Venezia prima di abbandonare definitivamente a causa di un infortunio ai legamenti crociati.

Prima di abbandonare, tuttavia, giocherà ancora qualche partita così fasciato (vd. foto), ‘e lo chiamano dilettantismo’: 218 presenze in arancioneroverde all’attivo tra il 2004 e il 2012, vivendo solo i momenti che – di solito –  nel calcio sono detti i peggiori perché si abbandona una categoria per abbracciarne involontariamente una inferiore.

L’anno successivo il Venezia fu costretta a disputare, nuovamente, il campionato di serie D per aver perso il secondo turno dei playoff contro l’Union Quinto in cui militava il fratello di Filippo Vianello (pilastro difensivo del Venezia di quella stagione).

«Dopo una buona stagione come quella appena conclusa, non nascondo che mi sono arrivate tante proposte, ma finora ho sempre risposto picche perchè considero il Venezia prioritario rispetto a qualsiasi altra società. Una piazza del genere, un club come quello arancioneroverde meritano la prima scelta», aveva dichiarato il centrocampista Nicola Segato alla stampa mentre imperversavano le trattative per il passaggio di società tra Pizzigati e Rigoni.

La vittoria ai playoff sarebbe stato chiedere troppo ad una squadra che,nel corso della stagione, aveva dato tutto e anche di più ma a Venezia vige la pessima abitudine di lasciare liberi i giocatori a fine stagione: tutti svincolati, o ritornati alla loro squadra d’appartenenza, eccezion fatta per Nichele, Vianello e Collauto.

Anche lui, Volpato, è costretto a lasciare, il centravanti del primo Unione Venezia, il numero 9 che – in una sola stagione e a più di 30 anni – s’era andato a prendere un posto nei cuori delle tifoserie lagunari, coi suoi quindici gol stagionali, così come lo farà l’attaccante che sostituirà lui di Camposampiero: Emil Zubin.

Abbandonato coattamente il Venezia, Volpato approderà al San Paolo Padova riuscendo pure a sconfiggere per 2 reti ad 1 la sua ex squadra l’anno successivo, financo firmando uno dei due gol. Interpellato a fine partita da network lagunari, tergiversando un po’ sulla domanda ‘com’è fare gol all’Unione Venezia’, alla fine riesce a dire quel che aveva in mente di dire al principio dell’intervista, non senza un po’ di risentimento: «A Venezia sarei rimasto, e magari sarei stato l’unico ad accettare le condizioni che chiedeva la società stessa» poi inspira ed espira, tira indietro il busto come a dire ‘è andata così’ e trova il coraggio di pronunciare «Devo giocare con chi mi ha dato fiducia ad agosto, non con chi non mi ha dato fiducia».

E l’intervista finisce così, con una presente (ed inevitabile) amarezza.

Che poi, quando Volpato era stato acquistato dall’Unione Venezia, ed essendo uscito il cognome per qualche indiscrezione di stampa, sui social network si stava scatenando il toto-nomi confondendo il centravanti di Camposanpiero con il più famoso Rej Volpato o con l’incisore omonimo veneziano settecentesco.

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Venezia, la favola lagunare: i gol di Recoba e l’Intertoto rifiutato. Poi, i fallimenti e la D

di Marco Piccinelli

Sessantaquattro punti collezionati in trentotto giornate, secondo posto e Stefan Schwoch capocannoniere degli arancioneroverdi. L’accostamento cromatico, inaccettabile per i più e stupefacente per una cerchia ristretta di persone nell’ambito della penisola italica,  ha subito fatto scattare i più attenti sibilando ‘Venezia’ tra le labbra di chi sta fissando lo schermo del proprio computer. Grazie ai gol dell’attaccante nato a Bolzano, i lagunari riescono a conquistare il secondo posto, dietro un’imprendibile Salernitana, assicurandosi la promozione: 1997-1998, il Venezia torna in serie A.

L’anno successivo squadra di Salerno sarebbe stata retrocessa dalla Serie A e costretta a ‘scendere’ nel limbo della B ma la squadra di Venezia non era fatta per essere nuovamente sbattuta in fondo alla classifica della massima serie italiana. La favola veneziana comincia, per la verità, soltanto nel girone di ritorno e, per sintetizzarla brevemente, si potrebbe così scandire: arrivo di Recoba, il Venezia inizia a vincere, Intertoto sfiorato. Anzi, rinunciato, per viltà magari, come il Celestino V dantesco (colui che fece per viltade il gran rifiuto) ma forse anche per restare ben coi piedi per terra. Ma questo si vedrà più avanti, con la speranza che non sia un post interminabile e che il lettore non riesca a leggere.

Tutto comincia, in buona sostanza, con la promozione del Venezia in serie A: stagione 1998-1999, una delle maglie più belle mai viste, ma il girone di andata non è dei migliori. Tuttavia, a gennaio arriva Alvaro Recoba in prestito dall’Inter. Walter Novellino può contare, ora, su un attacco niente male: Recoba, Maniero e Fabian Natale Valtolina, quello stesso Valtolina che aveva segnato il gol del 3 a 3 contro la Roma vestendo la maglia del Piacenza, siglando la terza rete con una rovesciata degna di nota e imbeccata da un lancio di Tramezzani dalle retrovie.

Nel girone di andata il Venezia inizia subito a perdere e a scavare, più che scalare, la classifica della serie A: prima giornata, sconfitta col Bari; seconda giornata, pareggio col Parma fino ad una lunga sequela di sconfitte con Roma, Fiorentina, Milan, Perugia e Bologna. Le uniche due vittorie arancioneroverdi del girone di andata, praticamente, sono contro la Lazio e contro il Cagliari, anch’essa neopromossa come il Venezia. La classifica si mette male, la situazione non è affatto rosea e Novellino deve fare qualcosa per invertire la rotta: a gennaio, come giù detto, arriva Alvaro Recoba in prestito dall’Inter.

La situazione muta del tutto e i lagunari iniziano a vincere con la quasi totalità delle squadre con cui avevano perso; il Pierluigi Penzo, il vecchio stadio sull’isolotto di Sant’Elena (Fondamenta Sant’Elena, per la precisione) s’era appena ricominciato ad usufruire con la promozione in A e ad ogni vittoria pareva che si facesse più arancioneroverde. Uno degli stadi più antichi, dopo il Ferraris di Genova, sembrava avere avuto una seconda gioventù e sembrava quasi venire giù alle due punizioni che Recoba aveva rifilato a Toldo nella casalinga contro la Fiorentina: finì 4 a 1 contro la terza in classifica. Quattro a uno, tripletta di Recoba, aprendo le danze con un gol à la Ali Karimi, battendo la Fiorentina di Trapattoni, Batistuta, Rui Costa e di quel Luis Airton Barroso Oliveira che poi aveva contribuito alla salvezza dei lagunari in uno dei tantissimi momenti difficili che la squadra ha passato. Quattro a uno contro una Fiorentina ai limiti della leggenda e concludendo il campionato inanellando una vittoria contro l’Inter per 3 a 2, dopo aver subito l’onta di sei gol all’andata. Il Venezia finirà la serie A del 98-99 con 42 punti: – 2 dal Bologna e rifiutando il posto nell’Intertoto, affidandolo, così, ad un Perugia che concluse il proprio campionato pericolosamente vicino alla zona salvezza.

L’anno successivo sarà quello dell’ingresso del giapponese Nanami – noto ai più per la sua inconsistenza a centrocampo – e di Spalletti in panchina, dopo che Novellino aveva optato per Napoli, seguito da Schwoch, ma il Venezia non era più lo stesso: retrocessione e discesa nel limbo. Perché, stavolta, non c’era Recoba a salvare il Venezia. La tradizione veneziana, vuole, che il leone di San Marco, simbolo della città, fosse raffigurato brandente una spada se in guerra con qualche Nazione o città, con il Vangelo e con le parole “Pax tibi, Marce, evangelista meus” se in pace.

A chi batte queste righe, affezionato non poco ai colori arancioneroverdi, piace pensare che durante la stagione 98-99 l’emblema del leone fosse quello con la spada ma gli anni successivi avrebbero segnato la pace e la resa, verrebbe da dire, prima ancora che le battaglie potessero aver luogo. E quasi non serve recriminare quel 2 a 2 galeotto contro la Roma, che tanto fece parlare i tifosi giallorossi, perché “quel punto avrebbe potuto consegnarci un altro scudetto”: il Venezia subì fallimenti su fallimenti e ben presto si sarebbe ritrovata con un’altra icona tra le proprie fila (Paolo Poggi) a lottare per la salvezza in C1. Anche quell’illusione durò poco perché la permanenza nel professionismo venne minata del tutto quando l’SSC Venezia, sorto dalle ceneri dell’AC Venezia, dovette cambiare nome in FBC Unione Venezia e ripartire dalla serie D. In sovrannumero, peraltro, nel girone del nordest (C).

Giovanni Volpato, Jacopo Molin, Mirco Tessaro, Matteo Nichele, Simone Corazza, Marco Masiero, Mattia Collauto: una parte dell’organico in D della squadra di Venezia del 2009, compreso l’ultimo citato che, una volta approdato in laguna in serie B, ha vissuto una rapida discesa verticale fino al fallimento in D.

E tant’è, a dire che quella era stata una squadra raffazzonata, preparata all’ultimo e senza maglie fino al girone di ritorno, la favola veneziana era anche quella: senza niente ma con uno stadio centenario che cullava una società incerta, fragile e che si affacciava, perfino, all’azionariato popolare quando si sarebbe completata la ‘cordata’ comunale.

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Re Giorgio Corona e gli altri decani del calcio professionistico

di Marco Piccinelli

(tratto dalla Gazzetta del Lazio di venerdì 6 febbraio 2015)

In Lega Pro, nel girone della Lupa Roma, sono presenti i giallorossi del Messina, annaspando tra playout e salvezza.
La stagione non è certo facile e il girone unico non aiuta le squadre che si sono lasciate da poco alle spalle l’ultimo scoglio del dilettantismo italiano: la Lupa Roma, dopo un avvio costellato di vittorie e pareggi contro squadre ben più blasonate, si trova ora a metà della classifica seguita a un poco confortante +2 dal Messina.
Perché dovrebbe interessare una squadra siciliana al lettore di un periodico che è rintracciabile nelle edicole di Roma e del Lazio e che, non a caso, si chiama ‘La Gazzetta del Lazio’?
Perché in realtà parlare del Messina è un pretesto per scrivere di uno dei simboli della rinascita della squadra, dopo essere piombata dalla massima serie alla Serie D: si tratta di Giorgio Corona.
Attaccante, soprannominato ‘Re Giorgio’, non si è fatto molto benvolere – a dirla tutta – dal pubblico romano: nella sua lunga carriera, ancora in corso, ha vestito la maglia della Juve Stabia e il gol del 2 a 0 contro l’Atletico Roma – precisamente all’88’ – ha bruciato per non poco tempo sulla pelle dei tifosi capitolini, sebbene di lì a poco la compagine bianco blu sarebbe fallita e avrebbe cessato di esistere.
Tuttavia, Giorgio Corona ha una notevole carriera alle spalle, anche se qualcuno potrebbe obiettare che non ha mai vestito la maglia della Nazionale, né si è mai distinto per un così alto numero di reti in serie A (solo sette e con la maglia del Catania).

E’ vero: non ha mai alzato Coppe del Mondo né analoghi trofei per club ma i suoi gol sono più importanti sono quelli segnati negli ultimi anni con la maglia del Messina e, dunque, non in Serie A.
Dopo essere tornato al Taranto, concluso il periodo di prestito alla Juve Stabia, decide di rescindere il contratto coi pugliesi e di andare a giocare nella squadra peloritana.
 Corona torna a militare nel Messina nel periodo peggiore e dopo dodici anni che non indossava quella divisa: i giallorossi sono stati appena scaraventati in Serie D con quattro punti di penalizzazione, ma a ‘Re Giorgio’ non importa molto e, anzi, si carica la squadra sulle spalle traghettandola fino ai playoff.
 Nella stagione 2011/2012 il Messina verrà fermato alle fasi eliminatorie dei playoff e alla squadra siciliana sarebbe successivamente toccata un’altra stagione in serie D, così come stava analogamente succedendo al Venezia, fermata dal 3 a 2 contro il Sandonà Jesolo nella seconda stagione in D nel girone C degli arancioneroverdi. 
L’attaccante, nella stagione di ritorno al Messina e alla serie D, disputerà 34 presenze e collezionando 16 centri.

L’anno dopo sarà quello dello scontro con ‘l’altro Messina’ (il ‘Città di Messina’) tra le cui fila militava anche quel Saraniti che ora veste la casacca della Viterbese Castrense: nella stagione 2012/2013 le presenze saranno 33 e i gol 17. L’anno è quello buono e il Messina compie il grande balzo approdando, nuovamente, al professionismo. Facilmente si sarebbe potuto pensare come le strade di Re Giorgio e quelle del Messina fossero destinate a separarsi. Neanche per sogno: a 39 anni gioca per altre 34 partite e mette a segno 11 gol.
Finita? Nient’affatto: nella stagione attuale, a quarant’anni, l’attaccante palermitano ha fatto gol per 7 volte in venti presenze. E il campionato non è ancora terminato.

Questa storia può, senza dubbio, far tornare alla mente qualche altro calciatore che ha appeso gli scarpini al chiodo solo una volta arrivato agli ‘–anta’: Hubner, Vierchowod, Zoff, Oliveira sono solo alcuni esempi.
Dino Zoff, arrivato ai quarant’anni, indossava ancora la maglia della Nazionale mentre Vierchowod contribuiva alle due salvezze del Piacenza tra il 1997 e il 1999; dall’altra parte Hubner, dopo aver militato in Brescia e Piacenza, torna in C1 nel Mantova di Poggi per poi concludere la carriera a 44 anni a Cavenago d’Adda (Prima Categoria bresciana).
C’è, poi, Luis Airton Barroso Oliveira, il brasiliano naturalizzato belga che, dopo aver vestito le maglie di Cagliari e Fiorentina in Serie A, gioca con il Foggia, con il Catania e infine con Venezia e Lucchese.
Lulù, così come lo chiamavano i tifosi della Fiorentina, torna per due anni in Sardegna con la neo promossa Nuorese e finisce la carriera vestendo i colori del Muravera di cui, ora, è allenatore.

Un percorso analogo, infine, l’ha intrapreso Marco Ballotta, il quale è volutamente posto alla fine di questo scritto, perché la sua carriera, a poco più di cinquant’anni, è ancora ‘in fieri’ e fa da contraltare a quella di ‘Re Giorgio’: dopo aver abbandonato la Lazio nel 2008 (43 anni, età in cui stabilisce il primato di calciatore più anziano ad aver mai disputato una partita di Champions League) disputerà un intero campionato come centravanti al Calcara Samoggia centrando 24 reti in 37 presenze. Ma non è tutto, anzi, è solo l’inizio: dopo aver rescisso il contratto con i biancocelesti è iniziata, se è consentito a chi scrive, la seconda vita di Ballotta in cui non c’è soltanto la difesa dei pali della propria squadra, ma anche la messa a segno di gol, posizionandosi in ruoli che lo vedono nella trequarti di campo.
Nel 2011, dopo due stagioni con il Calcara Samoggia, approda al San Cesario, dividendosi fra porta e attacco, così come tornerà a fare tra 2012 e 2014 – nuovamente – al Calcara. Sembra finita e Ballotta decide di assumersi l’incarico da dirigente del settore giovanile della neopromossa Castelvetro (Eccellenza Emiliana) ma vuole tornare fra i pali e ora è il primo portiere, a cinquant’anni e dieci mesi, della compagine modenese.