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Nazionali Valerio Fabbri

13 maggio 1990: la rivalità infinita tra Serbia e Croazia e la “miccia” del Maksimir

di Valerio Fabbri

Croazia e Serbia sono tornate ad affrontarsi per le qualificazioni al Mondiale del 2014 in una partita ufficiale dopo una pausa che durava dal 1999, quando la Serbia era ancora Jugoslavia, e sia Montenegro che Kosovo erano ancora ufficialmente parte del paese. Ma la memoria non può che andare al 13 maggio del 1990, quando nello stesso stadio Maksimir di Zagabria, stracolmo, la partita tra Dinamo Zagabria (Croazia) e Stella Rossa di Belgrado (Serbia) certificò al mondo intero, distratto dalla unificazione della Germania e dalla incipiente dissoluzione dell’Unione Sovietica, che la Jugoslavia era sul punto di esplodere. Quel giorno prese il largo, in maniera inarrestabile, la rabbia nazionalista, mentre gli ultrà distruggevano tutto, Zvonimir Boban, asso dei croati e futuro protagonista del calcio italiano (Bari e soprattutto Milan) prese a calci un poliziotto per difendersi. Violenti scontri tra le due tifoserie, guidate da capitifosi – forse pilotati dall’alto – che sarebbero diventati capi paramilitari, anticiparono il conflitto che si sarebbe scatenata di lì a poco. Quella volta non si giocò. Poi, la guerra civile.

zvonimir-bobanForse non esiste un esempio più calzante di questo quando si dice che “non è solo un gioco/solo una partita”, perché quel Dinamo Zagabria-Stella Rossa è la sintesi del significato del calcio: un gioco capace di accendere, ingigantire, a volte anticipare rivalità profonde, ma capace anche di restituire normalità alle relazioni dei gruppi che esso rappresenta. E nella recente partita, pur mantenendo intatto il valore simbolico dell’evento, l’ordine pubblico è stato rispettato, grazie ad un massiccio dispiegamento di forze di polizia e al divieto ai tifosi serbi di partecipare all’incontro. Ma il rancore profondo rimane. Nei giorni precedenti alla sfida tra Croazia e Serbia fu arrestato il direttore esecutivo della Dinamo Zagabria, Zdravko Mamic, per incitamento all‘odio etnico, dopo aver lanciato pesantissime accuse al ministro croato dello Sport, Zeljko Jovanovic, di etnia serba. Ha definito la sua nomina «un insulto al cervello dei croati».

È un peccato che si parli di quella partita per i violenti scontri, perché la storia di Croazia – Serbia è anche la storia della “generazione d’oro” jugoslava, della nazionale locale più forte di tutti i tempi – Boban, Šuker, Prosinečki, Mijatović, per citarne alcuni – quando gli jugoslavi era considerati i brasiliani d’Europa, e la Stella Rossa arrivava sul tetto del mondo, pur simbolo di un Paese che si stava sgretolando. Da qualche anno sta emergendo una nuova generazione di talenti che gioca sotto bandiere diverse, pur essendo nati, molto spesso, nello stesso paese.

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Club Fabio Belli

Una genovese tra le stelle: la Samp e il volo di Icaro verso la Champions League 1992

di Fabio Belli

“Se mi avessero detto che un giorno una squadra genovese avrebbe disputato una finale di Coppa dei Campioni, gli avrei riso in faccia.” La frase di un vecchio giornalista del Secolo XIX, rende bene l’idea di quando la Sampdoria con due ali da Icaro, il 20 maggio del 1992 si fosse avvicinata a compiere un’impresa senza eguali nella storia del calcio. Wembley per metà blucerchiato, al culmine di un ciclo che aveva visto protagonista una delle squadre più belle e divertenti di tutta la storia del calcio italiano. Ma la Sampdoria, che solo dieci anni prima lottava in cadetteria per ritornare in Serie A, proprio la Sampdoria poteva toccare quasi con mano il Sacro Graal di quella coppa che in Italia solo le cosiddette “strisciate”, le tre grandi storiche del nostro football, sono riuscite ad ottenere.

Tentativi di exploit ce ne sono stati: squadre in grado di farsi rispettare in patria, che hanno provato la campagna europea. Il Toro di Puliciclone negli anni ’70 non ebbe fortuna, nemmeno poté provarci la Lazio, squalificata un anno prima per un’assurda partita di Coppa UEFA contro l’Ipswich Town. Negli anni ’80 il Verona si ritrovò scornato in un duello fratricida contro la solita Juventus che dominava la scena anche in Italia. E poi il Napoli di Maradona, che nella Coppa dei Campioni trovò il suo unico tabù, mentre l’Europa sorrise nell’anno della UEFA. Prima della Samp, in due si erano avvicinate così tanto al sole. Ai tempi della preistoria della Coppa, la Fiorentina invincibile in patria, che si trovò però di fronte la leggenda del Real. E otto anni prima della finale di Wembley, la Roma di Falcao, che visse uno psicodramma dal dischetto proprio sul prato dell’Olimpico.

Ma la Sampdoria era un’altra cosa: dimenticati gli anni a fare la spola tra la B e la A, Paolo Mantovani aveva costruito un gioiello: matti da legare ma fortissimi in campo, i vari Mancini, Vialli, Lombardo, Mannini, Pagliuca e compagnia bella forse avrebbero potuto anche raccogliere di più, se non avessero dissipato tante occasioni negli anni del loro massimo splendore sportivo. Sia chiaro, resta la Samp più vincente di tutti i tempi per una squadra che poteva ricordare la “crazy gang” del Wimbledon, ma che alla goliardia non faceva mai seguire l’indisciplina. Ma nel calcio italiano più competitivo di tutti i tempi, bastava poco per vedersi sfuggire il sogno più grande, lo scudetto.

Vedendo passare gli anni, i ragazzacci terribili misero la testa a posto dopo il Mondiale del 1990, una delusione per Vialli e Mancini, i due “gemelli del gol” blucerchiati. E allora la parola impossibile, scudetto, si materializzò in un dolcissimo pomeriggio di Primavera contro il Lecce. Un “Ferraris” così non si è mai più visto: ma c’era ancora un’idea che ronzava nella testa di una squadra folle ma capace di tutto. E vedere arrivare la Samp fino in fondo fece ancora più impressione perché quella fu la prima edizione della Champions League, che si avviava a diventare un torneo multimilionario e alla portata di pochi. Tra quei pochi, c’era un Barcellona che si presentò però a Wembley afflitto da una maledizione. Mai i blaugrana avevano messo le mani sul trofeo che era invece il maggior vanto degli acerrimi rivali di sempre, il Real Madrid all’epoca ancora a quota sette trionfi.

In panchina c’era Johan Cruyff, in campo Michael Laudrup, Zubizarreta, Koeman, Julio Salinas, Stoichkov, Bakero e un imberbe Pep Guardiola. Dall’altra parte, Vujadin Boskov si ritrovava a combattere l’ultima battaglia: lui stesso sarebbe passato alla guida della Roma, Vialli era già promesso alla Juventus, un’epoca si sarebbe chiusa quel giorno. Ma a discapito della solita leggenda di Davide e Golia, la differenza tecnica in campo non era di quelle incolmabili. E la Sampdoria rischiò di vincerla quella partita, eccome: sia Vialli che Mancini ebbero la chance epocale, in un match in cui comunque la maggiore esperienza internazionale del Barca si faceva sentire, e il numero delle occasioni da gol pendeva decisamente dalla parte dei catalani.

La Samp arrivò ferocemente determinata a giocare quella finale, superando di slancio i primi due turni ad eliminazione diretta, e senza farsi irretire dall’allora inedito meccanismo della fase a gironi, domando in una partita leggendaria la fortissima Stella Rossa campione d’Europa in carica. E c’era da vendicare la sconfitta nella prima finale europea della storia blucerchiata, la Coppa delle Coppe del 1989, perduta a Berna contro quasi gli stessi avversari. Coppa poi vinta l’anno successivo con una doppietta di Vialli contro l’Anderlecht, ma il destino i suoi piani li aveva già scritti forse già in quella tiepida serata svizzera di tre anni prima. Anche le più belle realtà hanno le loro nemesi, e quando a 8′ dalla fine dei supplementari Ronald Koeman prende la sua caratteristica rincorsa, forse tutti i tifosi della Samp sanno già cosa sta per succedere. Le mani di Pagliuca si piegheranno, il Barca spezzerà un tabù quarantennale, e la Samp dopo aver sognato per quasi un decennio, dovrà cominciare a ricordare. Ma quella finale è stata giocata, goduta, la vittoria solo sfiorata, ma Genova ha avuto la sua notte di Coppe e di Campioni. E nessuno ha mai più riso, al riguardo.

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