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Club Fabio Belli

20 aprile 1986, Roma-Lecce: indagine su una partita al di sopra di ogni sospetto

di Fabio Belli

Il fascino del calcio rispetto agli altri sport di squadra, è cosa abbastanza nota, consiste nella sua imprevedibilità. Difficilmente il pronostico può essere sovvertito quando il divario tecnico è troppo ampio: e così nel basket, nella pallavolo, nell’hockey e in tutte le altre discipline, si può assistere a finali olimpiche o lotte per il titolo all’ultimo sangue, ma difficilmente si può arrivare a vedere sciupare occasioni le squadre di testa opposte a formazioni destinate alla retrocessione.

Il 20 aprile del 1986 il calcio italiano ha fatto registrare uno dei più clamorosi testacoda della sua ormai ultracentenaria storia. L’Italia amante del pallone era sintonizzata sulle frequenze di “Tutto il Calcio Minuto per Minuto” con lo stesso stato d’animo di un lettore di gialli pronto a scoprire il nome dell’assassino. Il thrilling era garantito dall’incredibile rimonta che la Roma aveva messo in piedi ai danni della Juventus di Trapattoni. Un campionato a due strappi, quello della stagione 1985/86. La Juventus, inarrestabile, chiude il girone d’andata a 26 punti sui 30 disponibili. Secondo è il Napoli a -6, a otto punti di distanza seguono Inter e Roma. Già, i giallorossi: spettacolari e poco concreti come erano già stati sotto la guida di Sven Goran Eriksson nella precedente stagione, la questione-scudetto in inverno non sembrava proprio aperta.

E invece: nelle successive tredici sfide, la Roma ottiene 23 punti su 26, vincendone 11 (compreso lo scontro diretto contro la Juve con uno spettacolare 3-0 all’Olimpico), pareggiando a Firenze e perdendo solo a Verona. La Juventus avanza invece alla sconcertante media di un punto a partita. Un calo certificato anche dall’eliminazione in Coppa dei Campioni per mano del Barcellona. Si arriva alla penultima giornata con gli otto punti completamente rimontati. Il calendario recita: Roma-Lecce e Como-Roma per i giallorossi, Juventus-Milan e Lecce-Juventus per i bianconeri. Parlare di Lecce arbitro dello scudetto è però quasi roba da ridere: i salentini, al loro primo campionato in assoluto in Serie A della loro storia, di punti ne hanno messi insieme in tutto 14, e sono mestamente già retrocessi in cadetteria. Secondo gli esperti, non ci sono dubbi: saranno il Milan e il Como a decidere le sorti del titolo.

Il fattore psicologico però è da non sottovalutare: mentre la Roma è lanciatissima e col morale alle stelle per l’aggancio, la Juventus è evidentemente in affanno e affronta un Milan pronto a iniziare l’era-Berlusconi e a riacquistare quarti di nobiltà perduti ormai da oltre 15 anni di bocconi amari e cadute in B. Se sarà sorpasso, difficilmente i giallorossi perderanno l’occasione al “Sinigaglia” contro un Como coriaceo ma già salvo. Come detto, in questi calcoli della vigilia il Lecce non viene neppure considerato. Gli uomini di Fascetti scendono in campo in un Olimpico pavesato a festa: il Sindaco DC Nicola Signorello e il presidente giallorosso Dino Viola si esibiscono in un giro di campo quasi preludio di festeggiamenti ancora da conquistare. Chi in tribuna fa gli scongiuri, lo fa con la mente rivolta esclusivamente alla Juventus: se i bianconeri battessero il Milan, lo spareggio poi sarebbe comunque da giocare. Ma altri scenari funesti non vengono evocati, anzi anche uno spareggio, con la Roma in tali condizioni, da molti viene visto come una formalità, anche alla luce del 3-0 di poche settimane prima.

Graziani dopo 7′ porta in vantaggio la Roma, e non potrebbe essere altrimenti. L’Olimpico non esplode, si limita a proseguire nelle feste e nelle esultanze del prepartita, sperando di ricevere buone notizie dal “Comunale” di Torino. Impossibile preoccuparsi neanche quando Alberto Di Chiara, cresciuto nel settore giovanile giallorosso (al contrario del fratello Stefano, ex Lazio e anche lui presente in campo con la maglia del Lecce) beffa il fuorigioco di Eriksson e sigla il pareggio. Poco dopo, uno scellerato passaggio in orizzontale di Giannini, di quelli che fanno infuriare il Cruyff allenatore, regala il via libera a Pasculli atterrato da Tancredi. Barbas, dal dischetto, non sbaglia.

Cosa accada nell’intervallo non è dato sapere: c’è chi parla, ovviamente senza che mai arrivino conferme ufficiali, di ammiccamenti tra i due spogliatoi, col Lecce che se “incentivato”, non ci terrebbe a guastare la festa. Il pensiero indecente, se mai balenato nella mente di qualcuno, viene subito cancellato: troppo forte la Roma per non ribaltare comodamente il risultato, sugli spalti c’è chi è sicuro di una vittoria finale con vantaggio almeno doppio, come accaduto nella trasferta di Pisa una settimana prima, nella partita dell’aggancio. Parlando di scommesse però, il Totocalcio successivamente farà balenare un particolare quantomeno curioso: i tredici saranno 128 quella domenica, un’enormità se si pensa a quanto improbabile era considerata nel sentore popolare la vittoria del Lecce all’Olimpico.

Al rientro in campo, la Juventus sta comunque pur sempre pareggiando contro il Milan. La Roma riparte completamente proiettata all’attacco, e puntualmente la zona di Eriksson regala quegli spazi che permettono a Barbas, ancora lui, di firmare il 3-1. Impossibile ma vero: al “Comunale” i tifosi spingono letteralmente la Juventus verso la vittoria, e quando Laudrup porta in vantaggio i bianconeri, all’Olimpico inizia a consumarsi il dramma. La Roma spreca tanto, trova finalmente il gol a 8′ dalla fine con Pruzzo, ma ormai i cavalli sono proverbialmente scappati dal recinto.

Il Lecce, re per una notte, andrà ko all’ultima giornata, stavolta come previsto, contro la Juventus, mentre una Roma agghiacciata da quanto accaduto la settimana precedente sarà sconfitta anche dal Como. A distanza di quasi 30 anni, è davvero difficile ipotizzare cosa sia accaduto quel giorno. La storia di Davide e Golia stavolta è poco plausibile, considerando l’enorme differenza di motivazioni che intercorreva tra le due squadre, al di là dello scalino tecnico altrettanto ampio. Come sempre gossip, voci e veleni si rincorsero alla fine di una stagione che fu funestata dal secondo scandalo del calcioscommesse.

Nel libro di Oliviero Beha e Andrea Di Caro “Indagine sul Calcio”, il figlio del presidente giallorosso Viola, Ettore, dichiarò: ” Mio padre alla fine della partita era distrutto, incredulo, ma non sospettò mai nulla. Ai giocatori della Roma conveniva vincere. Mio padre aveva messo in palio per lo scudetto un premio clamoroso. La verità mai rivelata è che ci arrivarono voci insistenti di un premio a vincere o a pareggiare, che fu promesso al Lecce dalla Juventus. Giocarono la partita con una vis agonistica insolita per una squadra già retrocessa”. Ma nello stesso volume il bomber della Roma, Roberto Pruzzo, propone un’analisi che resterà per sempre quella ufficiale: “So che girarono voci, ma erano stronzate. Io ero un leader dello spogliatoio, non passava nulla che io non sapessi. E se qualcuno si fosse giocato la partita io l’avrei saputo. La verità è che nello spogliatoio non si giocava. Il Lecce rappresentò un incubo che può essere compreso solo se si considera quella partita come una follia isolata. Quella rincorsa ci causò un incredibile dispendio di energie fisiche e nervose. Avevamo finito la benzina,ecco la verità. Il calcio è bello anche perché esistono gare come quella. Purtroppo capitò a noi viverla”.

 

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Club Enrico D'Amelio

Roma-Liverpool: una notte di Coppe e di Campioni che per i tifosi giallorossi non è esistita davvero

di Enrico D’Amelio

C’è chi dice che una sconfitta rimanga impressa nel corso del tempo più di una vittoria. L’ebbrezza del successo contiene il brivido del momento, mentre il lutto sportivo di una disfatta fatica ad esser metabolizzato dal fluire degli anni. Alcune volte non ne bastano più di 30 per abituarsi al ricordo di una fine mai accettata. Una calda notte di Coppe e di Campioni di fine maggio, che avrebbe potuto proiettare la Roma sul tetto più alto d’Europa, è rimasta come l’emblema di quello che poteva essere e non è mai stato. Culmine di un percorso intrapreso anni prima, e coronato con la classica conclusione di un ciclo. Invece, visto che il corso della Storia non si modifica come lo scorrere di un fiume, neanche per una volta Davide ha potuto sentirsi Golia, nonostante l’appoggio di un pubblico amico, pronto a liberare un urlo rimasto strozzato in gola. Il 30 maggio del 1984, per i romanisti di ogni generazione, non è e mai sarà una data come le altre. E’ qualcosa di tragico e maledetto, che racchiude in una partita l’essenza di sofferenza e disillusione intrise in una maglia. La nemesi del fato, dopo che sempre contro una squadra britannica c’era stato un mese prima il regalo degli déi, con la rimonta riuscita in semifinale ai danni del Dundee United, a seguito di un 2-0 della gara d’andata che non lasciava presagire nulla di buono. Invece, visto che sempre il destino s’era divertito a designare la Città Eterna come sede dell’atto conclusivo di quella Coppa dei Campioni – il termine Champions League era ancora impensabile per un calcio troppo romantico -, tutto sembrava scritto per un finale differente.

Però c’era di mezzo un’altra squadra dalle magliette rosse, il Liverpool di Joe Fagan, già 3 volte Campione d’Europa, e che 7 anni prima aveva alzato la sua prima Coppa dalle grandi orecchie proprio all’Olimpico contro il Borussia Monchengladbach. Se il calcio fosse un racconto narrato invece che la cruda realtà degli eventi, qualsiasi sceneggiatore avrebbe concesso ai ragazzi di Liedholm il tributo dei gradini della gloria. Una Roma mai più vista, quella del 1983/84, secondo alcuni più forte di quella laureatasi Campione d’Italia l’anno prima. Con un Vierchowod in meno, ma un Cerezo in più, a formare con Conti, Falcao e Ancelotti un centrocampo di livello europeo. Questo sport, però, oltre a non essere un racconto narrato, è talvolta soggetto alle emozioni degli interpreti. Uomini non abituati a gestire certe tensioni, con una città spesso troppo calorosa e fagocitatrice nel trasmettere l’effetto contrario di troppo amore concesso. I più anziani ricorderanno che quel 30 maggio, allo stadio, c’erano già molte bandiere con la scritta ‘Roma Campione d’Europa’ impressa sulla stoffa giallorossa, con un tetro silenzio sul pullman dei calciatori per la troppa tensione, nel tragitto dall’hotel allo Stadio. Una tensione mai scaricata sul campo, che ha partorito una partita bloccata, come quasi tutte le finali. 120’ di assoluta parità, con bomber Pruzzo che aveva annullato il vantaggio iniziale di Neal, viziato, tra l’altro, da un evidente fallo su Franco Tancredi. Poi la scelta di calciare i rigori sotto la Sud, il primo errore degli inglesi e la bomba di Agostino Di Bartolomei, scelto dal Barone come primo rigorista in corsa al posto di Graziani, che voleva far entrare in porta con tutta la palla un portiere che faceva i versi della scimmia con estrema naturalezza. Roma avanti per la prima volta, e i nastrini giallorossi che iniziavano ad esser preparati sotto la Monte Mario attorno al trofeo. Poi, però, gli errori di due Campioni del Mondo, con due calci di rigore calciati alle stelle, e la pietra tombale su un sogno inseguito per anni.

Come ogni evento storico che si rispetti, Roma-Liverpool manterrà sempre intatti dei misteri mai svelati, alcuni anche tragici. L’ultima partita dei principali simboli di quella Roma (Liedholm e Di Bartolomei), il rifiuto di tirare un rigore decisivo da parte di Falcao, e il fatto che mai più si ripeterà un’occasione simile fanno di Roma-Liverpool qualcosa di altro rispetto a una semplice occasione persa. Per alcuni questa partita non è stata mai giocata, altri non hanno più voluto rivederla, altri ancora non ne vogliono parlare e la ricordano come la rottura di rapporti consolidati (Di Bartolomei-Falcao). Negli anni sempre più aneddoti e versioni divergenti sono serpeggiate riguardo a quanto successo quella notte, e in quello spogliatoio. Di certo si è rotto qualcosa nella ‘magia’ di quel gruppo, che s’è sfaldato a poco a poco, e nulla è più tornato come prima. La Coppa Italia conquistata pochi giorni dopo contro il Verona ha rappresentato la magra consolazione di una squadra chiamata ‘Rometta’ negli anni ’70 con Anzalone, e arrivata a due calci di rigore dall’essere Regina d’Europa. C’è un documentario di quegli anni in cui un giornalista della RAI domanda a un ragazzo del Commando Ultrà perché la Roma fosse considerata “magica” dai tifosi della Curva Sud. Allora il ragazzo, che avrà avuto sì e no 18 anni, rispose: “Penso che se una squadra è in grado di vincere a Milano, e poi rischia di perdere in casa contro l’Ascoli la domenica successiva può essere considerata soltanto magica”. Poi è venuta la Roma di Eriksson, l’altra bellissima rimonta del 1986 sfumata per una sconfitta contro un Lecce già retrocesso, la finale UEFA persa nel 1991 contro l’Inter sempre all’Olimpico, fino allo Scudetto del 2001 di Batistuta e Capello. In ogni caso, qualcosa di irripetibile come Roma-Liverpool non c’è più stato. Ma, probabilmente, quella partita non s’è mai realmente giocata, e i sogni restano magici e affascinanti solo se conservati all’interno di un cassetto.

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Allenatori Enrico D'Amelio

Josep Guardiola: vincente, mai banale

di Enrico D’Amelio

Un suo storico rivale, Josè Mourinho, ha sempre sostenuto che “chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio”. Una frase sicuramente appropriata e calzante per far capire come anche in uno sport popolare, strumenti come cultura, apertura mentale ed esperienze di vita facciano la differenza per potersi distinguere dagli altri e raggiungere risultati superiori. In altre circostanze, il tecnico di Setùbal affermava che Pep Guardiola fosse capace di vincere “solo nel giardino di casa propria”, riferendosi ai successi ottenuti dallo stesso unicamente nella roccaforte catalana del Camp Nou. Meno male che il tempo è galantuomo, e che l’allenatore spagnolo stia iniziando a dimostrare quanto non sia stato tanto il Barcellona ad essere la sua fortuna, quanto l’opposto. Perché se arrivare primo al traguardo con la macchina più veloce può essere la norma per un pilota, riuscire a oltrepassarlo senza speculare sul risultato, ma fornendo ai propri interpreti dei mezzi basilari per essere migliori degli altri ad altissimi livelli, è un merito innegabile.

Un predestinato della panchina, come tutti quei professori del centrocampo, che vivono per dare fosforo e geometria davanti alla difesa. Pochi i km percorsi negli anni da calciatore, meglio farli fare al pallone in tutte le zone del campo, con la mente che viaggia agli anni a venire, quando verrà il tempo di trasmettere ai più giovani tutto quello che hai maturato nel tempo. Dopo un finale di carriera non degno di una bandiera blaugrana, complici l’esilio in Italia a Brescia e Roma, e spiccioli di calcio inferiore tra Qatar e Messico, l’inizio di ciò che da sempre era scritto nel futuro. A 36 anni una stagione di apprendistato con la squadra B del Barcellona, ad attendere la conclusione fisiologica del quinquennio sotto l’egida di Frank Rijkaard (2003/2008). Poi, a soli 37 anni, la scommessa più rischiosa. Tornare ad essere profeta in patria con la squadra potenzialmente più forte al mondo. Da Rijkaard a Guardiola, da Ronaldinho a Messi. Rifondare una squadra che solo 2 anni prima era diventata Campione d’Europa, e farlo da giovane tecnico che deve imporre idee innovative, impedendo a fenomeni indiscussi di vincere con la sola anarchia. Non straordinari solisti, ma il Gruppo alla base dei successi, oltre al categorico rifiuto della banalizzazione delle vittorie. In un solo anno Guardiola è riuscito nella prima impresa impossibile conquistando il triplete, culminato con il trionfo all’Olimpico di Roma contro il Manchester United nella finale di Champions League 2009. Anche qui la distinzione dell’uomo speciale prestato al calcio, nei momenti della gloria: “Vorrei fare una dedica per questa vittoria al calcio italiano e soprattutto a Paolo Maldini, un esempio per tutti. So che ha avuto qualche problema nel giorno dell’addio, ma sappia che ha l’ammirazione di tutta Europa da venticinque anni, e che per lui le porte del Barcellona sono aperte in qualsiasi momento”. Da lì in poi, la nascita di un ciclo straordinario che profuma ancora di presente per poter essere giudicato dalla Storia. Tutto quello che c’era da vincere dal 2008 al 2012 è finito nella bacheca di Avinguda Aristides. Non sono stati, però, principalmente i trofei conquistati (14) a dare la dimensione di una squadra stellare, quanto la perfezione con cui si è arrivati allo scopo. Storica la risposta a chi gli chiedeva quale fosse il terminale offensivo di una squadra senza ‘numero 9’: “il nostro centravanti è lo spazio”. Nel moderno e consumistico calcio di oggi, però, anche nelle storie d’amore più belle è contemplata la parola fine. Prima che si potesse incrinare qualcosa, dopo un’ultima stagione in cui Liga e Champions League non erano arrivate, Guardiola dice addio (arrivederci?) alla Casa Madre. Troppo stress accumulato e una minor fame di vittorie gli hanno suggerito che era meglio staccare la spina per un anno, prima del nuovo monolite da costruire nel cuore del Vecchio Continente.

A Monaco di Baviera è riuscito addirittura a superare l’impossibile, andando a vincere una sfida ancora più improba. Dopo il triplete di Jupp Heynckes del 2012/13, ha ereditato una squadra ‘sazia’, spostandosi dal suo habitat naturale, ed è riuscito in poco più di un anno a costruire qualcosa di migliore dell’insuperabile. Nella prima stagione la vittoria in Bundesliga è stata una formalità, macchiata soltanto dall’umiliazione patita in semifinale di Champions League contro il Real Madrid di Carlo Ancelotti. Il punto più basso della sua carriera da allenatore, che già dava adito a detrattori un po’ prevenuti di non giudicarlo idoneo a vincere lontano dalla Spagna, e, soprattutto, in un calcio fisico come quello tedesco. I primi mesi della stagione in corso hanno dimostrato, qualora ce ne fosse stato bisogno, che questo Bayern Monaco è già diventato migliore di quello del 2013, e che può seriamente candidarsi ad insidiare il Barcellona migliore di sempre. La Coppa dalle grandi orecchie ritornerà sicuramente in Baviera, probabilmente già da quest’anno, e, cosa più importante, verrà vinta in modo diverso, perché diverse sono le squadre di Guardiola. E allora Mourinho dovrà rassegnarsi. Fino a riconoscere l’oggettiva grandezza di un allenatore speciale, destinato a prendersi in più Nazioni svariati “giardini di casa propria”. Come un vero cittadino del mondo, mai sazio di cercare nuove sfide.

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Club Fabio Belli

Lazio-Bayern Monaco del 1974: Chinaglia contro Muller in una Coppa dei Campioni mai disputata

di Fabio Belli

Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi e D’Amico da una parte. Maier, Hanser, Rohr, Schwarzenbeck, Beckenbauer, Kappelmann, Hadewicz, Durnberger, Muller, Hoeness e Wunder dall’altra. La prima è una formazione ben conosciuta dai tifosi della Lazio, quella dello storico primo scudetto del ’74. Il secondo è un gruppo entrato a pieno diritto nella leggenda del calcio, quello che ha sdoganato il calcio tedesco di club ai massimi livelli a livello internazionale. Ovvero, il Bayern Monaco per tre volte Campione d’Europa tra il ’74 ed il ’76. Si tratta solo di un’amichevole, giocata all’Olimpico di fronte ad oltre 50.000 spettatori, ma il match assumerà una valenza simbolica importantissima, perché sarà l’unica passerella europea di un certo spessore da parte della “Banda del ’74”.

Wilson e Beckenbauer ad inizio partita (fonte LazioWiki - Vincenzo Cerracchio)
Wilson e Beckenbauer ad inizio partita (fonte LazioWiki – Vincenzo Cerracchio)

La partita si disputa di martedì il 17 settembre del 1974, una data scelta non a caso, perché il giorno dopo la Lazio, fresca del trionfo in campionato del 12 maggio, avrebbe dovuto esordire nella massima competizione continentale. Per giocare la prima sfida in Coppa dei Campioni la Lazio dovrà invece attendere altri 25 anni, quando il torneo si è già trasformato in Champions League, nella sua prima sfavillante edizione a 32 squadre. Questo perché i biancocelesti pagarono salatissimi gli incidenti dell’anno prima in Coppa UEFA, nel match di ritorno dei sedicesimi di finale contro l’Ipswich Town. Una situazione che portò alla squalifica dalle Coppe Europee la Lazio, che contava però sull’intercessione di Artemio Franchi, all’epoca potentissimo dirigente calcistico italiano e soprattutto presidente dell’UEFA, per vedersi rivolto un atto di clemenza, e poter essere presente all’appuntamento con la storia.

Probabilmente è stata però proprio la politica a chiudere l’ultimo portone tra la Lazio e l’Europa: la squadra di Maestrelli era vista come una magnifica meteora, e al momento degli incidenti contro l’Ipswich, nell’autunno del 1973, in pochi in Italia pensavano che l’exploit della stagione precedente, con lo scudetto perduto per il gol di Damiani a Napoli a 2 minuti dalla fine del campionato, avrebbe potuto essere ripetuto. L’assenza di una formazione italiana nella Coppa dei Campioni 1974/75 era vista come un danno di immagine anche dai vertici federali, che non si adoperarono da subito sul caso Lazio-Ipswich, proprio perché pensavano che al massimo i biancocelesti sarebbero stati assenti dalla Coppa UEFA dell’anno successivo.

E invece, verso l’aprile del 1974 fu chiaro che il miracolo sfiorato l’anno precedente, si sarebbe compiuto: un’ingerenza pesante di Franchi a quel punto sarebbe stata vista come ad uso e consumo della federazione italiana, e il tempo giocò semplicemente a sfavore di Chinaglia e compagni. Quell’amichevole del settembre ’74 fu dunque solo un flash di quello che poteva essere e non è stato. All’epoca la leggenda del Bayern era appena iniziata, con la conquista della prima Coppa dei Campioni dei bavaresi nell’incredibile finale di Bruxelles contro l’Atletico Madrid, e con il titolo Mondiale nella finale, disputata proprio a Monaco, contro l’Olanda di Crujyff. Proprio il modello al quale era accostata la Lazio di Maestrelli, capace di portare in Italia dinamismo, squadra corta, diagonali degli esterni difensivi e particolarità fino a quel momento sconosciute alla tattica della Serie A.

Quella squadra, ansiosa di confrontarsi contro formazioni come il Leeds di Bremner e Lorimer (poi finalista in quell’edizione proprio contro il Bayern), il Barcellona di Crujyff, il Borussia Monchengladbach di Gunter Netzer e con lo stesso Bayern, dovette accontentarsi di quella passerella con Franz Beckenbauer e Gerd Muller. Schwarzenbeck, l’uomo che aveva strappato con il suo gol nel recupero dei supplementari la Coppa all’Atletico Madrid garantendo la ripetizione del match al Bayern, portò in vantaggio i tedeschi, ma la Lazio rispose nel finale con Franzoni, attaccante di riserva ricordato soprattutto per un suo gol nel derby d’andata nella stagione dello scudetto. Rimase un flash, un rimpianto, forse la conferma della consapevolezza di potersi giocare qualcosa di importante al gran ballo delle Grandi d’Europa: ma l’invito, alla fine, non arrivò mai per quella squadra pazza e meravigliosa.

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Calciatori Fabio Belli

Alessandro Iannuzzi, il fascino discreto della meteora

di Fabio Belli

Ci sono giocatori destinati a lasciare il segno. Alcuni, campioni indimenticabili, ci riescono ovunque vanno, basti pensare a Zlatan Ibrahimovic e al suo straordinario record di dieci campionati vinti nelle ultime undici stagioni disputate, con sei casacche diverse, in quattro nazioni differenti. Ma i grandi campioni richiamano quasi sempre grandi squadre, e di conseguenza le grandi opportunità. Più curioso può essere considerato il caso di quella che, da promessa mancata, riesce comunque a entrare nella storia delle formazioni nelle quali milita. Invariabilmente, inesorabilmente.

Foto laziowiki.org
Foto laziowiki.org

Alessandro Iannuzzi risponde perfettamente a questo identikit. La sua carriera nel calcio che conta è stata una rapida fiammata, per poi proseguire comunque fino alle soglie dei quarant’anni nei campionati dilettantistici. Quello che colpisce di questo biondino dal piede fatato, è il suo cammino fino a quando era ancora un Under 23. Esploso in una delle formazioni Primavera più forti di sempre, la Lazio di Nesta, Di Vaio, Flavio Roma in porta e Daniele Franceschini a centrocampo, lo scudetto di quella formazione è indissolubilmente legato alla micidiale punizione in cui, di fronte a 40.000 spettatori allo Stadio Olimpico, consegnò il titolo a quel gruppo di giovani di talento.

Da una punizione all’altra: nella stagione successiva allo scudetto Primavera, Zdenek Zeman lo chiama in campo nell’ennesima partita messasi male per quella Lazio bella e incompiuta. 0-1 in casa contro il Torino (in quella stagione destinato alla retrocessione), a togliere le castagne dal fuoco ci pensa proprio il biondino con la sua specialità: micidiale botta a girare sotto l’incrocio dei pali, e corsa sotto la curva resa ancor più commovente dall’abbraccio con il fratellino raccatapalle, di cui a sua volta si dicevano meraviglie nelle giovanili laziali, senza che le promesse venissero poi mantenute.

Il ragazzo ha talento, ma nei rigidi schemi zemaniani le sue attitudini da attaccante-rifinitore finiscono con l’essere mortificate. Avendo bisogno di giocare, finisce nel Vicenza dei miracoli di Guidolin. In campionato è un’alternativa utilizzata a intermittenza, ma nella magica notte della finale di Coppa Italia contro il Napoli, firma all’ultimo minuto dei supplementari il gol della sicurezza, il 3-0 che fa esplodere di gioia il Romeo Menti e regala il primo titolo della sua storia centenaria al sodalizio berico. Un prestito di un anno, ma Iannuzzi a Vicenza non se lo scorderanno mai più. Torna a Roma nella più sfarzosa Lazio cragnottiana: l’arrivo di Cristian Vieri è sinonimo di ambizioni gigantesche, ma anche di poco spazio in attacco. Un ecatombe di infortuni ad inizio campionato regala una chance proprio contro il Vicenza a “Iannuzzino”, alle spalle di Roberto Mancini: un tempo e pochi minuti per capire che per lui non c’è margine nella SuperLazio. In prestito se lo prende il Milan, dove spazio ce n’é ancora meno: senza mai scendere in campo in campionato, Iannuzzi clamorosamente festeggerà lo scudetto a fine stagione proprio ai danni dei biancocelesti, in testa per metà campionato e poi beffati sul filo di lana dai rossoneri.

Uno scudetto e una Coppa Italia, entrambe lontano da Roma, già nel palmares a 23 anni. Restando nella Capitale Iannuzzi aggiungerebbe un titolo, visto che nel 2000 arriverà finalmente il Giubileo laziale, ma sarà invece girato in prestito alla Reggina nella squadra di Baronio e Pirlo, giovani fenomeni capaci di regalare meraviglie. La terza stella, quella di Iannuzzi, non si accenderà: troppi problemi fisici, che lo tormenteranno fino all’approdo in B in Messina, nel 2002. Dall’altra parte dello Stretto, Iannuzzi troverà finalmente due stagioni di continuità, e la promozione nella massima serie che i peloritani attendevano da quasi quarant’anni, anche e soprattutto grazie alle sue magie e i suoi assist. Ancora un passo nella storia, l’ultimo: a 28 anni non ancora compiuti, nelle cinque successive annate Iannuzzi disputerà solo una stagione (quasi) intera, a Gualdo Tadino nel campionato 2005/06. Poi i dilettanti, e il bagliore, nel suo caso accecante, dei ricordi: calciatori con centinaia di presenze in più tra i professionisti, non hanno vissuto altrettanti momenti di gloria.

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Emiliano Storace Le Finali Mondiali

1990: Germania Ovest-Argentina 1-0. Tris tedesco nel Mondiale delle mille storie

di Emiliano Storace

Cinquantasei anni dopo l’edizione voluta fortemente da Benito Mussolini e dal regime nel 1934, il Mondiale di calcio tornava in Italia. Stavolta però ad attenderlo c’era un paese in grandissimo sviluppo, dove il calcio era una religione e la Serie A forse il campionato più bello del Mondo. Non si può certo dire che l’edizione numero 14 della massima competizione calcistica del nostro pianeta sia rimasta negli annali per il gioco espresso e per la spettacolarità delle sue partite. Le “Notti Magiche” di Italia ’90 sono rimaste nel cuore e nella mente di un popolo italiano che 24 anni fa riusciva ancora a sognare.

Germania tricampione nella "Notte Magica" dell'Olimpico
Germania tricampione nella “Notte Magica” dell’Olimpico

Oltre 50 milioni di italiani hanno accompagnato con caroselli e notti in bianco una nazionale di ottime qualità che Azeglio Vicini seppe assemblare con cura e intelligenza. E se le istituzioni italiane, fossero state altrettanto perfette come lo furono i nostri azzurri in campo, magari adesso ci ricorderemmo di un Mondiale in più e di qualche debito o scandalo in meno. Se non ci furono colpi di genio o Fenomeni da imitare, certamente il Mondiale italiano ha regalato storie e personaggi di cui il calcio si è innamorato col passare del tempo. Il Camerun di Roger Milla, trentottenne stella dei Leoni Indomabili e successivamente nominato calciatore africano del secolo, che tornò in nazionale solo per giocare il Mondiale in Italia. Il Costa Rica di Bora Milutinovic, che si qualificò per la prima volta agli ottavi di finale di un Mondiale sorprendendo anche gli stessi abitanti del piccolo stato centroamericano. L’Egitto dei miracoli, che nella sua storia si presentò solamente a due edizioni dei Mondiali entrambe in Italia: 1934 e 1990.

Al sole di Sicilia e Sardegna, i “Faraoni” non passarono il girone ma si tolsero molte soddisfazioni pareggiando contro Irlanda e Olanda e perdendo solo di misura contro l’Inghilterra. Fu l’edizione anche della prima e unica partecipazione ad un Mondiale degli Emirati Arabi Uniti, squadra materasso ma che strappò applausi e consensi a tutto il pubblico italiano con la RAI che volle esaltarne la partecipazione dedicandogli tanti speciali televisivi in tarda serata con un Piero Chiambretti scatenato nell’intervistare sceicchi ed emiri al seguito della squadra.

Oltre alle prime volte e alle imprese calcistiche, fu anche l’edizione di un’Italia esaltante (che perse in semifinale contro l’Argentina a Napoli in una notte stregata) e di una Germania Ovest nettamente superiore a tutte le altre squadre. Dopo due finali perse nell’82 e nell’86 contro Italia e Argentina, la “Nationalmannschaft” era riuscita a presentarsi nuovamente ad un Mondiale da favorita insieme all’Italia paese ospitante. Alla guida c’era ancora Franz Beckenbauer (che di lì a poco avrebbe lasciato la guida della Nazionale) mentre la squadra era composta da tantissimi calciatori militanti nella nostra Serie A, al tempo la terra promessa per ogni calciatore tedesco.

La Germania arrivò in finale senza nessun affanno, vincendo sei gare su sette tra cui un infuocato ottavo di finale contro l’Olanda a San Siro. Uno scherzo del destino volle che nella finalissima di Roma ci fu ad attenderla ancora una volta l’Argentina, proprio quella squadra che quattro anni prima gli aveva tolto la gioia del terzo titolo mondiale con un gol di Burruchaga nel finale. Per la prima volta nella storia dei Mondiali, andava in scena un remake della stessa finale a soli quattro anni di distanza, una sorta di vendetta o di maledizione a seconda della squadra vincitrice. La partita era la stessa ma il divario tra le due squadre era nettamente cambiato in favore dei tedeschi.

Andreas Brehme calcia il rigore Mondiale
Andreas Brehme calcia il rigore Mondiale

I biancocelesti Campioni del Mondo non erano infatti all’altezza della spedizione messicana, con un Maradona in fase calante e non più in grado di trascinare da solo un’intera nazione. In una delle finali più noiose mai giocate che la storia ricordi, l’unico sussulto lo regalò il solito Diego Armando Maradona quando apostrofò con un sincero “Hijos de Puta” , l’intero pubblico dell’Olimpico che fischiava il suo inno. Ci pensò l’interista Andreas Brehme a rompere l’equilibrio tra le due squadre, trasformando un dubbio calcio di rigore concesso (anche qui lo zampino dispettoso della storia) dall’arbitro messicano Codesal che pochi istanti prima non ne aveva concesso un altro ancor più netto stavolta su Dezotti. La Germania conquistò così il terzo titolo mondiale della sua storia eguagliando i successi di Brasile e Italia. Una Germania tosta in difesa con Berthold, Brehme, Augenthaler e Kohler, veloce e letale in avanti con Voeller, Klinsmann, Hassler e Lothar Matthaus. Un successo meritato e neanche tanto a sorpresa, visto il livello di una nazionale che era scesa in Italia per prendersi il titolo vendicando la finale dell’Azteca.

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Andrea Rapino Le Finali Mondiali

1934: Italia-Cecoslovacchia 2-1 dts. Il record ineguagliabile di Luisito Monti

di Andrea Rapino

Lothar Matthäus si gustò la sua bella rivincita nella notte magica dell’Olimpico, così come fece Ronaldo a Yokohama nel 2002. L’elenco di giocatori che hanno alzato al cielo la Coppa del Mondo al secondo tentativo è lungo. Nella lista ce n’è però uno solo che può vantare un record singolare.

Nazionale_di_calcio_dell'Italia_-_Mondiali_1934Ovvero, Luis Felipe Monti, centromediano classe 1901, figlio di emigrati romagnoli in Argentina che nel 1930 s’è accontentato del secondo gradino del podio con la casacca dell’Albiceleste, e che nel 1934 si riscatta con la nazionale di Vittorio Pozzo.
Monti nasce a Buenos Aires, e si distingue soprattutto nel San Lorenzo, dove in otto anni gioca oltre 200 partite e porta a casa tre titoli nazionali. A farlo cedere al richiamo delle sirene italiane nel 1931 è la Juventus che sta infilando cinque scudetti consecutivi. Le porte della Penisola per gli stranieri sono chiuse, ma Monti e altri campioni sudamericani entrano dalla finestra grazie all’escamotage dell’italianizzazione sportiva. Nel 1931 disputa la sedicesima partita con la selezione argentina, e già l’anno successivo scende in campo nel primo dei suoi 18 incontri in maglia azzurra.

Non è il solo ad arrivare dall’altra sponda dell’Oceano tra i campioni del ’34. Di quella squadra si ricorda anche Enrique Guaita, attaccante non ancora 24enne da poco approdato alla Roma e subito stella giallorossa, in seguito “stroncato” dalla rocambolesca fuga notturna che nel 1935 lo riporterà in Argentina, spinto dalla paura per la chiamata alle armi per la campagna etiopica. C’è poi Raimundo Bibiani Orsi, che la Juventus ha condotto in Italia già da qualche anno, e che con l’Argentina ha perso la finale di Parigi del 1928, quando l’Olimpiade difatti assegnava la palma di selezione più forte del pianeta.

Luisito Monti in maglia bianconera
Luisito Monti in maglia bianconera

Monti però nei Mondiali italiani ha qualche motivo in più degli altri per essere assetato di rivincita, perché l’appuntamento col tetto del Mondo l’ha saltato due volte: ha perso sia la finale olimpica di Parigi ’28, sia quella del ’30 a Montevideo, dove tra l’altro è stato uno dei calciatori argentini che ha ricevuto minacce di morte alla vigilia della sfida con l’Uruguay. Inoltre si imbarcato per l’Italia bersagliato dalla stampa argentina che lo bolla subito come traditore, e torna a rinfacciargli proprio la scarsa verve nella sfida decisiva al Centenario.

L’italoargentino, che grazie alla prestanza fisica si ritrova il nomignolo “doble ancho“, cioè “armadio a due ante”, non delude il commissario unico che ne ha fatto il perno della mediana azzurra. Pozzo lo schiera in tutte e cinque le partite, compresa quella finale: con lui, nell’allora Stadio Nazionale del Pnf, sono grandi protagonisti gli altri “doppi connazionali”. La Cecoslovacchia fa tremare gli azzurri portandosi in vantaggio a un quarto d’ora dal termine con Puč, ma subito dopo Orsi pareggia sfruttando un assist di Guaita. Ai supplementari è di nuovo Guaita a servire la palla, stavolta girata alle spalle di Plánička da Schiavio, che vale la Coppa Rimet. Per l’Italia è festa. Luisito non lo immagina, ma lui è entrato nella storia anche come unico calciatore ad aver giocato due finali con due Nazionali diverse: un primato che, con le regole attuali, nessuno potrà togliergli.

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Calciatori Fabio Belli

Ginulfi parò il rigore a Pelè, e “Zigo” si sentì di nuovo “O Rey”

di Fabio Belli

Dietro la storia di “Zigo” che si crede meglio di Pelé c’è quella di Ginulfi che para un rigore a “O Rey”, come una matrioska di cialtronerie da bar che però, poi, scopri quasi per caso che sono vere. ‘Zigo’ è Gianfranco Zigoni, che a Roma in maglia giallorossa ha vissuto un capitolo di passaggio, per quanto significativo, della sua carriera. E’ stato prima di cucirsi davvero una maglia sulla pelle, quella dell’Hellas Verona, quando per i tifosi divenne un mito, per la capacità di portare in provincia tutti i comportamenti degli eroi del calcio anglosassone che da quella parte non erano mai transitati.

zigoniE così tutti i maggiori aneddoti della carriera di Zigoni sono legati al periodo veronese: da quando andò in panchina vestendo una pelliccia in polemica con l’allenatore, mandando in visibilio la curva, a quando per sfilare al presidente il premio per aver segnato più di dieci gol in campionato, strappò di mano un rigore all’ultima giornata al compagno che doveva batterlo, col patron che si sbracciava dalla tribuna. Ma quella faccia da schiaffi (a Roma dicevano da “impunito“) Zigoni ce l’aveva già quando esibiva genio e sregolatezza sul prato dell’Olimpico, in una Roma che all’epoca era solo “rometta” e che l’aveva accolto dopo l’occasione bruciata, in due riprese, alla Juventus.

Zigoni era un talento assoluto, ma giocava solo ed esclusivamente secondo le sue regole. Il che ne fece le fortune nell’ambiente veronese, ma in quello rigido e collegiale della Juventus della fine degli anni sessanta, e quello zeppo di tentazioni della Roma della dolce vita, non era destinato a fare strada. Eppure, guai a dirglielo: “Zigo” era consapevole della sua testa un po’ matta, ma se si parlava di pallone e solo di quello, allora era semplicemente il più forte giocatore del mondo. Lo raccontò anche in un’intervista, e così quando la Roma si trovò a dover disputare un’amichevole contro il Santos di Pelé, per Zigoni fu semplicemente l’opportunità per dimostrare al pianeta quello che lui già sapeva: “O Rey” al suo confronto non era nessuno.

Il problema è che poi sul campo le cose andarono un po’ diversamente. Zigoni si confronta con l’extraterrestre e ne rimane abbagliato dalla luce. Pelé ha un tocco di palla e movimenti da marziano: è il tre marzo del 1972, l’epopea del Mundial messicano si è già spenta e “O Rey” si prepara a salutare il “Peixe” e approdare nel soccer americano. Ma sul rettangolo verde è sempre lui, comanda il gioco d’attacco e il Santos vince due a zero. Per la prima volta, le sicurezze di Zigoni vacillano. Possibile che il mondo intero ruoti attorno ad un altro sole, e lui non sia altro che un satellite? Poi viene fischiato un calcio di rigore, sul dischetto va Pelé e qui entra in gioco Ginulfi, portiere di una Roma operaia, lontana dai circuiti del grande calcio, che para però quel penalty “a mano aperta“, come amerà raccontare in seguito. E Zigoni si rinfranca, spiegando sempre nelle interviste future: “Se quello si era fatto parare un rigore da Ginulfi, io me lo mangiavo a colazione“. E chissà, forse senza quell’episodio, Zigoni non avrebbe avuto dentro sé la sicurezza per diventare il re di Verona nei bollentissimi anni settanta.

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Club Fabio Belli

La “Fatal Verona”, da quarant’anni incubo rossonero

di Fabio Belli

Nereo Rocco, Arrigo Sacchi e Massimiliano Allegri. Tre nomi di tecnici accomunati da un destino: quello di essere entrati nella storia del Milan grazie agli scudetti conquistati (ed anzi il “paròn” e il mago della zona hanno anche vissuto la consacrazione della Champions League), ma anche di essersi ritrovati di fronte a quella che per i tifosi rossoneri, è la nemesi per eccellenza: la “Fatal Verona“. E dire che con gli scaligeri assenti dalla Serie A negli ultimi undici anni, l’ultimo precedente era stato felice: anno 2002, gol di Andrea Pirlo alla penultima giornata che garantisce di fatto al “diavolo” la partecipazione alla Champions League dell’anno successivo: che il Milan vincerà. Fine di un incubo dunque? Neanche per sogno

milanTutto iniziò il 20 maggio del 1973: quattro giorni prima a Salonicco il Milan battendo il leggendario Leeds di Don Revie si era assicurato il trionfo europeo in Coppa delle Coppe, in una durissima finale. Ma la doppietta era alla portata: all’ultima giornata di campionato, in un Bentegodi invaso dai tifosi rossoneri, il Milan si presenta primo in classifica, con un punto di vantaggio su Lazio e Juventus. Una vittoria significherebbe scudetto. Ma i rossoneri sono agonisticamente sfiancati dalla battaglia greca, ed il Verona, sfrontato e per nulla demotivato dal non avere più obiettivi di classifica, si scatena andando in gol tre volte in mezz’ora, grazie a Sirena, un’autorete di Sabadini e Luppi. Rosato accorcia prima dell’intervallo, mentre l’Olimpico di Roma ed il San Paolo di Napoli, dove Juventus e Lazio stanno giocando, fremono alla possibilità di strappare un tricolore che sembrava già cucito sulle maglie rossonere.

Alla fine sarà cinque a tre, con gli ultimi due gol milanisti, segnati negli ultimi dieci minuti, a giochi già fatti. Uno psicodramma a tinte rossonere, mentre la Roma si fa arrendevolmente rimontare da una Juventus che aveva chiuso il primo tempo in svantaggio, forse per evitare complicazioni per uno scudetto che i rivali cittadini avrebbero comunque perso a causa del gol di Damiani a due minuti dal termine del match del San Paolo. Ed è la Juventus a festeggiare, così come diciassette anni dopo, toccherà al Napoli raccogliere l’inaspettato regalo in arrivo da Verona. Nell’anno dei Mondiali del 1990 il calcio italiano è al massimo del suo splendore, e il campionato è acceso dal testa a testa tra Napoli e Milan per il titolo. Le due squadre si presentano alla penultima giornata a pari punti, ma mentre il Napoli va a far visita ad un Bologna tranquillo, e vincerà senza problemi, il Milan si ritrova di fronte l’incubo Bentegodi ed una squadra nell’occasione affamata di punti salvezza.

E’ il grande Milan di Sacchi e degli olandesi, ed il Verona ha un piede e mezzo in Serie B: quando nel primo tempo Marco Simone sblocca il risultato per i rossoneri, lo spareggio sembra messo in cassaforte. Ma al Milan saltano i nervi e le gambe, come diciassette anni prima. Sacchi protesta per un rigore non concesso a Van Basten e viene espulso, mentre nel secondo tempo Pellegrini e Sotomayor ribaltano clamorosamente il risultato, mentre il Milan in preda ad una crisi isterica finisce la partita in otto per le espulsioni di Rijkaard, Van Basten e Costacurta. Lo scudetto prende la via di Napoli, tra lo stupore generale. Il resto è storia dei giorni nostri, con Luca Toni capace di ritrovare lo smalto dei tempi del Mondiale 2006, ed affondare dopo oltre un decennio di assenza dal massimo campionato dell’Hellas la squadra di Allegri. A quarant’anni di distanza dal “peccato originale“, la Fatal Verona resta un’ossessione per la Milano rossonera.

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Club Fabio Belli

Roma-Gornik Zabrze: l’atroce beffa ai tempi della tv in bianco e nero…

di Fabio Belli

Uno dei luoghi comuni che gravitano attorno al calcio, è ripetersi quanto la televisione abbia ucciso quella visione romantica del football di una volta. Le partite raccontate dalla radio gracchiante, giocate solo immaginate ma per questo pervase ancor di più da un alone mitico, il bianco e nero, l’attesa della domenica sera per qualche fugace minuto di immagini. Ora, tra telecamere ad alta definizione e piazzate praticamente dappertutto, spogliatoi compresi, la fruizione casalinga del calcio è un’esperienza a 360 gradi, che ha perso però il fascino d’un tempo, finendo per giunta in alcuni casi (l’Italia ne è uno degli esempi più lampanti) per svuotare gli stadi.

6970romagornik_DSC07741Ma ogni medaglia ha sempre due facce, ed oltre alla comodità dell’HD e del calcio 24 ore su 24, la tv ha anche regalato una percezione più reale di quanto accade sul campo; soprattutto, ha evitato equivoci del passato destinati addirittura ad entrare nella leggenda. Ne sanno qualcosa i tifosi della Roma, che nella primavera del 1970 subirono una singolare beffa a scoppio ritardato. Lo scenario è quello europeo: la squadra giallorossa di allora non è trascendentale, e paga soprattutto la mancanza di un vero bomber, con lo spagnolo Peirò che chiuderà il campionato da centravanti titolare con sole cinque marcature all’attivo. In Italia le delusioni saranno molte, e la squadra allora allenata da Helenio Herrera chiuderà mestamente decima, dopo diverse stagioni anche alle spalle degli eterni rivali della Lazio.

In Europa però la Roma suona un’altra musica: disputando la Coppa delle Coppe grazie al successo nella Coppa Italia del 1969, i giallorossi arrivano in semifinale eliminando in serie i nordirlandesi dell’Ards, gli olandesi del PSV Eindhoven ed i turchi del Goztepe. Il sorteggio tra le prime quattro sembra sorridere alla formazione del “mago” Herrera. Due delle grandi favorite per la vittoria finale, il Manchester City e lo Schalke 04, si scontrano fra di loro. Alla Roma toccano in sorte i polacchi del Gornik Zabrze, temibili ma meno quotati di tedeschi ed inglesi. All’andata all'”Olimpico“, però, il primo aprile del 1970, i giallorossi non riescono a passare: si chiude sull’uno a uno (Banas sorprende Ginulfi nel primo tempo, la Roma risponde nella ripresa con Salvori), ed il match di quindici giorni dopo in Polonia, a Katowice, assume contorni insidiosi. La Roma, con davanti la prospettiva della possibile prima finale europea della propria storia, sfodera però una prestazione di carattere, imponendo il pari al Gornik ai supplementari, grazie ad una rete siglata ad un minuto dalla fine da Scaratti. Si chiude sul 2-2, e all’epoca i calci di rigore non sono previsti.

E’ necessaria la ripetizione, una settimana dopo, sul campo neutro di Strasburgo. Ed è lì che la nostra storia assume contorni incredibili, soprattutto per chi è rimasto a Roma per seguire la partita trasmessa dalla RAI. Il match si risolve infatti con un nuovo pareggio: al gol polacco di Lubanski risponde Fabio Capello su calcio di rigore, si va di nuovo ai supplementari ma il risultato non cambia ancora. Non è prevista però un’ulteriore ripetizione, ma il lancio della monetina, consuetudine a quei tempi, seppur crudele, per decidere chi deve andare avanti in una manifestazione calcistica. L’Italia raggiunse così la finale degli Europei del 1968 eliminando l’URSS in semifinale, e proprio la Roma negli ottavi di quella edizione di Coppa delle Coppe si sbarazzò grazie al sorteggio del PSV Eindhoven.

I capitani si avvicinano al centro del campo, l’arbitro lancia la moneta, e la raccoglie. Sono attimi di tensione, in particolar modo per chi da Roma segue la diretta tv e vede arrivare dalla Francia immagini sfocate e poco chiare del sorteggio. Ma ad esultare, dopo che l’arbitro mostra la fatidica monetina, sono le maglie scure nel bianco e nero televisivo, ovvero quelle della Roma. Nei salotti della Capitale l’esultanza è sfrenata e dura per decine di secondi. Poi, piano piano, la voce del cronista che aveva lui stesso annunciato la festa delle maglie giallorosse, riporta tutti alla realtà: la moneta ha detto Gornik, saranno i polacchi ad affrontare il Manchester City in finale. Com’è possibile? Semplicemente, prima del sorteggio molti giocatori si erano scambiati la maglia: i calciatori con la divisa della Roma esultanti erano dunque in realtà quelli del Gornik. Una beffa atroce, e ancor di più lo è stata per i tifosi che, alla vista dei festeggiamenti giallorossi, hanno spento immediatamente il televisore per riversarsi in strada, a festeggiare il raggiungimento della finale. In un’epoca senza riscontri possibili con internet, televideo ed altri mezzi, fu il giornale del mattino a comunicare loro che la Roma, in verità, aveva perso

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Calciatori Enrico D'Amelio

Giuseppe Giannini: quel pomeriggio a Foggia che forse cambiò la storia della Roma… ma non la sua

di Enrico D’Amelio

Alcuni giocatori sono dei predestinati. Ogni tappa della loro carriera è scandita da una perfezione temporale che nemmeno il miglior regista sarebbe in grado di mettere in ordine. Esordio, primo gol, prima maglia azzurra, fascia da capitano. Tutte circostanze perfette, che incoronano precocemente come Campione un calciatore che più di ogni altro è destinato a lasciare un segno indelebile nella propria squadra d’appartenenza. Poi ci sono altri che rimangono, per una serie di motivi, nella terra di nessuno. Né comprimari, né fuoriclasse, sempre così a metà strada da non riuscire a mettere tutti d’accordo, quasi a spaccare un’intera tifoseria e gran parte della critica. Perché anche se si diventa presto Principe, non è detto che sia automatico il fatto di assurgere al ruolo di Re. Soprattutto se ti ritrovi a giocare nella Roma della metà degli anni ’80 e ad essere l’erede designato di uno che in quella squadra ha appena fatto la storia e che veniva chiamato ‘il Divino’.

gianniniCi sono state tante occasioni, in una storia d’amore lunga 15 anni e interrotta nel peggiore dei modi da un presidente ingrato, per far sì che Giuseppe Giannini potesse diventare quel che credeva e non è mai stato. Alla Roma decise di dedicare una carriera, anche dopo le più cocenti delusioni, nonostante la corte serrata che solo un erede al trono poteva ricevere dalle più prestigiose squadre italiane. Mai avrebbe potuto vestire quella maglia bianconera a cui era legato il ricordo del primo gol in A segnato con la casacca del cuore. Proprio al vecchio “Comunale”, lo stadio dove nel 1981 s’era consumato il furto d’uno scudetto arrivato solo due anni dopo. Un obbligo morale per un ragazzo romanista, a cui, nel frattempo, erano stati assegnati numero di maglia e fascia di capitano del poi compianto Agostino, che non poteva tradire una città intera. Il giallorosso nel cuore e nel destino, tant’è che la prima occasione di fare l’ultimo passo si presentò in un caldo pomeriggio di primavera del 1986. L’Olimpico vestito a festa e zittito inspiegabilmente da un Lecce già retrocesso, che spense i sogni di gloria della seconda Roma di Eriksson, una delle più belle di sempre.

A soli 22 anni, però, c’era tutto il tempo per rifarsi, soprattutto se si è entrati in pianta stabile in Nazionale e se sta per arrivare un Mondiale da giocare proprio nella tua città. Anche lì la sfortuna ci mise del suo, con una squadra che finì al terzo posto, imbattuta e con un solo gol subito in sei partite, purtroppo decisivo, segnato da Caniggia e causato da un infortunio dell’amico Zenga. Gli anni, a questo punto, sono 26, e qualcosa inizia a cambiare. Dino Viola, il presidente-papà, muore pochi mesi dopo e con Ottavio Bianchi in panchina il rapporto non sboccia mai. Pessima la stagione 1990/91 in campionato, ma esaltante nelle Coppe, con la terza Coppa Italia personale messa in bacheca e un derby italiano contro l’Inter in finale Uefa da giocare in 180’. Dieci minuti di follia a San Siro obbligano Giannini e compagni a rimontare un passivo di 2-0 nel ritorno in un Olimpico stracolmo. Coreografia da brividi e tifo incessante riescono a spingere in rete solo un gol, quello di Rizzitelli, che non basta alla Roma per alzare il trofeo. Sette anni dopo il Liverpool, ancora una volta sono gli altri a prendersi la Coppa.

Due anni di anonimato sotto la gestione Ciarrapico, fino all’avvento, nel 1993, di Franco Sensi alla presidenza e Carlo Mazzone in panchina. Inesistente il rapporto col presidente, difficile con l’allenatore, anche se, col tempo, diverranno una cosa sola. Per Giannini e per la Roma è una stagione da buttare, con una serie di prestazioni sconcertanti e il baratro della B sempre più vicino. Sono ben 14 le partite senza vittorie per una squadra allo sbando, che perderà il derby di ritorno, anche per un rigore sbagliato dal Principe sotto la Sud. La società ha già deciso di accomiatarlo, ma quindici giorni dopo, come nei migliori thriller, succede qualcosa. Si gioca a Foggia e i rossoneri dopo pochi minuti si portano in vantaggio. Qualcosa, però, è diverso. Soprattutto per il Capitano. Gioca, si diverte, detta i tempi. Come qualche anno prima. Mazzone getta nella mischia un giovanissimo Francesco Totti e al minuto 74, su respinta della difesa, il numero 10 scaglia un bolide di sinistro che si va a insaccare alle spalle di Mancini. 1-1 e corsa liberatoria sotto un settore ospiti impazzito, con tanto di lacrime per tutto quello che aveva dovuto sopportare. Un minuto. In un solo minuto ti passano davanti i sogni di una vita. Quelli mai raggiunti e gli altri gettati alle ortiche per la scelta di infilarti ogni domenica una maglia che è come una seconda pelle. Quella che hai sventolato più volte come una Bandiera sotto la tua Curva dopo tanti gol. Anche se sai che un presidente appena arrivato te la vuole e te la sta per togliere, che non sarai ricordato come altri e che qualcuno potrà sempre dire “però giocava bene solo in Nazionale”. Poco importa. Scudetti e Coppe Campioni da un’altra parte non t’avrebbero mai fatto vivere quel folle pomeriggio a Foggia. Con una maglia addosso, quella maglia. L’unica. Che nessuno potrà mai amare più di te.