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Calciatori Fabio Belli

Abe Van Den Ban: i baffi più esagerati della storia del calcio

di Fabio BELLI

Le figurine dei calciatori per i bambini restano il feticcio per eccellenza per tutti coloro che in tenera età si sono avvicinati alla magia del football. In Italia da oltre mezzo secolo la Panini di Modena rappresenta il totem attorno al quale tanti piccoli appassionati hanno vissuto campionati paralleli fatti di scambi e sogni, e inevitabilmente nell’immaginario collettivo certi personaggi sono entrati più degli altri, magari per una nota nel look più stravagante, soprattutto dalla seconda metà degli anni settanta in poi, quando l’immagine dei calciatori ha iniziato a divenire col tempo sempre meno impersonale.

vandebanxs51Quella delle figurine è un’abitudine estesa non soltanto al territorio italiano e, in quasi tutti i paesi europei, le stelle del calcio venivano immortalate e poi scambiate per finire negli album sulle pagine delle rispettive squadre. E mentre in Italia Pizzaballa diventava la figurina rara per eccellenza, a cavallo tra gli anni settanta ed ottanta in Olanda un personaggio stuzzicava la fantasia dei ragazzini dei Paesi Bassi. Si trattava di Abe Van Den Ban, centrocampista di grande grinta ma modesto spessore, capace però di diventare, per la lunga militanza nel club, una leggenda dell’Haarlemsche Football Club, meglio conosciuto semplicemente come Haarlem dalla città di appartenenza. Van Den Ban aveva una particolarità incredibile nel suo ritratto: due lunghissimi baffi stile anni venti, assolutamente anacronistici anche per i tardi ’70, in cui pure barba, baffi e capelli lunghi avevano cominciato a diventare d’ordinanza anche tra i calciatori.

Il look di Van Den Ban non aveva nulla a che vedere con il retaggio della contestazione giovanile sessantottina, con i volti volutamente trasandati di Gigi Meroni, Paul Breitner o tanti altri. Il modello di Abe poteva essere al limite l’investigatore Hercule Poirot, ma neppure il personaggio nato dalla fantasia di Agata Christie, pur provvisto di lunghi mustacchi, si sarebbe spinto a tanto. I baffi di Van Den ban erano oversize e lo sono stati per tutta la durata della sua carriera, consumatasi dopo un’ottantina di presenze tra del fila del FC Amsterdam (con tanto in incrocio in Coppa UEFA contro l’Inter) nell’Haarlem, formazione nella quale arrivò a collezionare quasi 150 presenze in Eredivisie. All’alba degli anni ’80, il ritiro che coincise con l’età d’oro del club, della quale fece parte come allenatore delle giovanili.

All’Harleem Van Den Ban aveva, anche per il suo carattere gioviale ed istrionico, un grandissimo ascendente e così rimase ad allenare i ragazzi di quello che all’epoca era un fiorente settore giovanile. E così nel 1982 il club arrivò fino alla ribalta europea del secondo turno di Coppa UEFA disputato contro lo Spartak Mosca, mentre Van Den Ban iniziava a curare la crescita calcistica di alcuni talenti cristallini del calcio olandese. Uno di essi, Ruud Gullit, era destinato a raggiungere i vertici massimi del calcio mondiale. Già conquistato dalla pettinatura afro con le caratteristiche treccine, Gullit si ritrovò a farsi crescere anche un paio di baffi, forse in contrasto con la sua capigliatura, ma in omaggio al suo maestro Van Den Ban, che ancora oggi è un’icona di stile in Olanda. Sono state prodotte maglie con la sua effige, è stato protagonista di “un venerdì coi baffi“, campagna che esortava gli uomini ad esibire i baffi come segnale di consapevolezza riguardo il cancro alla prostata ed ha allenato una squadra di blogger che portavano nello stemma sulla maglia la sua faccia baffuta. Che resiste nel tempo, con qualche ciuffo grigio in più.

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Calciatori Jean Philippe Zito

Shalimov e Kolyvanov: quando la Foggia postsovietica incantò l’Europa

di Jean Philippe ZITO

La prima cosa che mi è venuta in testa è stata: questa è l’Italia, la Serie A. E a quei tempi era il campionato più importante d’Europa, dove giocavano grandi calciatori italiani e gli stranieri più forti del mondo. Ho deciso subito di accettare. Sono venuti due dirigenti da Foggia, abbiamo trovato l’accordo ed abbiamo parlato di come giocava la squadra: palla a terra, velocità e passaggi corti. Mi hanno detto che cercavano tre stranieri. Avevano già preso Petrescu e volevano due russi: Shalimov e Kolyvanov”. Igor Shalimov racconta di come nell’estate del 1991, abbia deciso convintamente di accettare le lusinghe del Foggia, ritrovandosi poi in squadra il connazionale Kolyvanov.

Sono arrivato a Roma e con il presidente Casillo siamo andati in ritiro con la squadra in montagna. Mi hanno assegnato la camera con Alessandro Porro, che mi ha aiutato molto ad ambientarmi. Subito dopo sono venuti a salutarmi tre giocatori. Petrescu che incredibilmente era arrivato due settimane prima ma già parlava perfettamente italiano, Signori e Baiano. Per me non è stato facile all’inizio perché non parlavo italiano e parlavo male l’inglese. Ma i ragazzi mi hanno aiutato. Era un buon collettivo ed al primo allenamento ho capito che c’erano buoni giocatori”.

Shalimov nasce a Mosca nel 1969 dal padre Mikhail, operaio, e dalla madre Ludmila, casalinga. Rispetta a pieno i canoni della classica narrazione famigliare sovietica, vivendo però l’adolescenza durante il principio del declino dell’epopea comunista. A sedici anni, terminati gli studi dell’obbligo, assieme al fratello Pavel, entra a far parte delle giovanili dello Spartak Mosca.

Il suo piede preferito è il mancino, esordisce come terzino sinistro, per poi essere spostato a centrocampo sempre sulla fascia sinistra. Dal 1986 all’88 gioca nelle riserve dello Spartak realizzando 17 gol in 51 presenze.

Nel 1987 Igor vince, a diciotto anni, la Coppa delle Federazioni Sovietiche. Dall’anno successivo è in pianta stabile in prima squadra. Il primo anno tra i professionisti sigla 8 gol, dimostrando da centrocampista di avere un ottimo feeling con la porta avversaria.

La prima rete la mette segno all’undicesima giornata il 22 maggio, davanti a 40.000 spettatori nell’1 a 1 finale contro l’Ararat. A fine stagione lo Spartak si piazza al quarto posto nella classifica della Vysšaja Liga.

Nell’1989 Shalimov vince il Campionato sovietico con lo Spartak, realizzando un solo gol nell’intera stagione, nel 3 a 3 contro il Metalist. La squadra di Mosca si guadagna anche l’opportunità di giocare la Coppa dei Campioni.

Esordisce con la nazionale dell’URSS ai mondiali di Italia ’90. Gioca titolare nel centrocampo sovietico contro l’Argentina di Maradona, perdendo per 2 a 0. Disputa, sempre dall’inizio, anche le altre gare del girone. Per questo motivo molti club europei iniziano a mettere gli occhi sul centrocampista mancino, dal piede vellutato e dall’ottima visione di gioco.

I cambiamenti derivati dalla caduta del muro di Berlino sono evidenti, la voglia di emanciparsi da una dittatura oppressiva e totalitaria sta contagiando i popoli dell’intera Unione fino ad arrivare a Mosca. Igor Shalimov a 22 anni inizia una nuova stagione con lo Spartak, quella della consacrazione. In campionato arriva a 2 soli punti dai cugini del CSKA che vincono la Vysšaja Liga. In Coppa di Campioni la cavalcata è (quasi) trionfale.

Ai sedicesimi di finale lo Spartak incontra (in una gara alquanto tesa a livello geopolitico) lo Sparta Praga. L’andata si gioca il 19 Settembre del 1990 proprio a Praga e la partita viene vinta dai russi per 2 a 0, il primo gol è proprio del centrocampista moscovita che segna con un tiro di potenza dal limite che bacia il palo alla sinistra del portiere e poi si insacca. Il tabellino della gara di ritorno del 3 Ottobre recita il medesimo risultato.

Negli ottavi di finale Shalimov e compagni se la devono vedere contro il Napoli (campione d’Italia in carica) del “Pipe de Oro” Diego Armando Maradona. L’andata si gioca il 24 Ottobre davanti ai 50.000 del San Paolo. Conclusasi a reti inviolate, la gara è caratterizzata dai legni colpiti da entrambe le formazioni (3 a 2 il computo totale per i padroni di casa). Il ritorno, che si gioca a Mosca davanti agli 86.000 dello Stadio Lenin, vede l’ennesimo palo colpito dal Napoli, in una gara equilibrata che termina nuovamente 0 a 0. Dopo i tempi supplementari, ai calci di rigore, i russi sono implacabili e vincono 5 a 3.

Lo Spartak arriva quindi ai quarti di finale e se la deve vedere contro il Real Madrid. Il 6 Marzo del 1991 allo Stadio Lenin di Mosca sono accorsi più di 80.000 tifosi. Gli 11 allenati da Oleg Romancev giocano una partita all’arrembaggio ma la difesa madrilena resiste, anche grazie ad un Pedro Jaro (riserva di Francisco Buyo) in stato di grazia.

Al Santiago Bernabeu il 20 Marzo si gioca il ritorno, i favori del pronostico sono tutti per il Real. Dopo 10 minuti Emilio Butragueño approfitta di un pasticcio difensivo dello Spartak e porta in vantaggio i padroni di casa. Ma dopo poco meno di mezz’ora una doppietta di Radchenko capovolge il risultato. Il 3 a 1 finale viene segnato da Chmarov al 63° minuto.

Lo Spartak ha dimostrato di essere un’ottima squadra, giocando palla a terra e in velocità, punendo il Real Madrid in contropiede. La partita si è conclusa tra gli applausi dei 90.000 del Santiago Bernabeu.

In Semifinale lo Spartak di Shalimov si deve però arrendere all’Olympique Marsiglia. Il 10 Aprile 1991 allo Stadio Lenin passano i francesi per 3 a 1 (a segno per lo Spartak proprio Shalimov), al ritorno al Velodrome il 24 Aprile, i padroni di casa si impongono per 2 a 1.

L’esperienza di Igor Shalimov in Coppa dei Campioni si conclude comunque positivamente, portando lo Spartak a sfiorare la finale.

A 23 anni la Serie A e il Foggia di Zeman l’aspettano a braccia aperte: “Quando mi hanno parlato di Foggia l’ho cercata sulla carta geografica: non avevo idea di dove si trovasse. È una città piccola, diversa da Mosca, ma io sono qui per lavorare e non per fare il turista”.

In Puglia trova un altro Igor: Kolyvanov. Attaccante proveniente dalla Dinamo Mosca, capocannoniere in carica della massima divisione sovietica con 18 reti ed eletto giocatore dell’anno nel 1991.

Moscovita come Shalimov, più grande di quasi un anno (classe 1968) Igor Kolyvanov a 16 anni, nel 1985, gioca nelle giovanili dello Spartak. Non diventa compagno di squadra di Shalimov perché già l’anno dopo passa alla Dinamo Mosca. Con i biancoazzurri della Capitale, celebri per essere stati la formazione di Lev Jašin (uno dei più grandi portieri della Storia del calcio) dal ’49 al ’70, Kolyvanov inizia l’avventura a 17 anni giocando tra le riserve.

Nel 1986 la Dinamo Mosca è in piena lotta per la conquista del titolo sovietico, ma Kolyvanov s’infortuna ed è costretto a rimanere a riposo per 2 mesi. Nonostante lo stop forzato riesce a mettere a segno 4 reti, una delle quali nello scontro diretto per il titolo perso contro la Dinamo Kiev per 2 a 1 il 7 Dicembre 1986.

Nel triennio successivo la Dinamo Mosca ottiene risultati deludenti (un 10°, 12° e 8° posto), ma Igor continua a segnare con una discreta continuità fino a raggiungere nel 1989 gli 11 gol. Nel 1990, con la Dinamo, Kolyvanov ottiene un ottimo terzo posto finale e la convocazione per gli Europei Under 21 dove inizia a giocare con Shalimov. Si laurea come migliore attaccante della competizione segnando 9 gol in 7 partite, 1 dei quali nella semifinale di ritorno contro la Svezia vinta per 2 a 0. L’URSS di Shalimov e Kolyvanov vince la competizione battendo in finale d’andata la Jugoslavia per 4 a 2 a Sarajevo, il 5 Settembre del 1990, e 3 a 1 nel ritorno del 17 Ottobre in Unione Sovietica.

Nel 1991, come già detto, è capocannoniere della Vysšaja Liga con i suoi 18 gol in 27 partite, decisivo per la conquista della qualificazione in Coppa UEFA della Dinamo Mosca. Appena eletto giocatore dell’anno accetta anche lui l’offerta del Foggia di Zeman. A 23 anni vuole diventare un calciatore completo grazie anche ai consigli del tecnico boemo: “Ognuno mi ha fatto crescere e ha insegnato qualcosa. Zeman, ad esempio, mi ha fatto conoscere il 4-3-3. In Russia giocavamo sempre 4-4-2 o al massimo 3-5-2. Questo modulo l’ho conosciuto per la prima volta a Foggia. Ed ho avuto qualche problema per capirlo, ma quando ci sono riuscito tutto è diventato più facile”.

Zemanlandia apre i battenti il 1° Settembre 1991: la scala del calcio attende la matricola pugliese, va in scena Inter-Foggia. Shalimov è titolare nel terzetto di centrocampo, partendo da destra. Kolyvanov invece è ancora a Mosca, gioca con la Dinamo fino a Novembre in Coppa Uefa. La partita è inaspettatamente equilibrata, vedendo addirittura passare in vantaggio il Foggia con un gol di Baiano. Il risultato finale è 1 a 1, ma è appena nato quello che da lì a poche giornate viene ribattezzato il Foggia dei miracoli.

Nessuna squadra giocava in Serie A un calcio così. Palla a terra, passaggi non più lunghi di quindici, venti metri e tre o quattro giocatori che attaccavano sempre alle spalle i difensori avversari. Avversari che diventavano matti perché questo modo di giocare durava tutta la partita. Guardavamo poco dietro, andavamo sempre avanti. E poi il Foggia Calcio non mollava mai. Era divertente guardare quella squadra, faceva spettacolo. Per gol fatti eravamo secondi dietro al Milan, però anche per gol subiti eravamo secondi…”. Igor Shalimov ricorda così l’unico anno a Foggia, nel quale segna 9 gol e partecipa all’incredibile stagione dei “satanelli” che si conclude al nono posto, miglior risultato della storia per il club pugliese.

Igor Kolyvanov esordisce in Serie A il 1° Dicembre 1991, nella sconfitta in trasferta per 1 a 0 contro il Verona. La prima delle 3 reti segnate durante la stagione del suo debutto arriva nel pareggio interno contro il Torino per 1 a 1 del 1° Marzo 1992. “Ricordo il mio primo giorno a Foggia. Trovai una città piccola ma carina, ma il caldo…” L’attaccante russo non dimentica l’affetto dei tifosi: “Devo tanto a loro. La gente mi a voluto subito bene, mi ha dato il cuore, mi ha aiutato”.

Con i satanelli Kolyvanov gioca 4 campionati di Serie A (segnando 18 reti complessive) e l’ultima, nel 95/96, in Serie B (4 gol in 29 presenze). La sua avventura in Puglia è influenzata da un brutto infortunio al ginocchio; la rottura dei legamenti: “Era un periodo poco esaltante per me ma mi fece immenso piacere ricevere la visita di due fratelli foggiani che partirono dall’Italia solo per venirmi a trovare (in Colorado n.d.r.) e sostenermi!”.

A 27 anni, nel 1996, passa al Bologna dove gioca le sue ultime 5 stagioni da professionista (26 gol in 87 presenze totali). Il fato vuole che dopo aver giocato nell’Inter (dove ha vinto la coppa UEFA nel 93/94), nel Duisburg, nel Lugano e nell’Udinese, anche Igor Shalimov viene acquistato dal Bologna. I due Igor giocano nella città emiliana per due stagioni, qualificandosi insieme per la Coppa Intertoto 1998/99 che viene vinta dai rossoblù.

Kolyvanov e compagni arrivano inaspettatamente alle semifinali di Coppa UEFA , mentre Shalimov, in Serie B a Napoli, viene trovato positivo al Nandrolone e (a soli trent’anni) decide di ritirarsi a seguito della lunga squalifica. Due anni più tardi Kolyvanov appende gli scarpini al chiodo a seguito dell’ennesimo problema fisico.

Oggi l’ex attaccante russo allena a Mosca: “Sto lavorando con i giovani, alleno la Torpedo Mosca (Serie C russa) e metto il cuore in quello che faccio”. Shalimov invece non nasconde le proprie ambizioni: “Un giorno vorrei allenare lo Spartak Mosca, perché è la mia squadra. Sono di Mosca, lì ho giocato da piccolo ed è l’unico club dove ho giocato in Russia. E poi…vorrei diventare l’allenatore del Foggia Calcio”.

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Fabio Belli Stadi

Mosca, 1982: la strage dello stadio Lenin

di Fabio BELLI

Una strage dimenticata: spesso si ricordano tragici eventi negli stadi che hanno riguardato la Gran Bretagna o squadre inglesi, in cui la folla senza controllo ha provocato disastri come le stragi di Ibrox, Sheffield o dell’Heysel. Ma in pochi conoscono quella che in termini di numero delle vittime potrebbe essere stata la più grande tragedia mai avvenuta in uno stadio. Stiamo parlando della Strage del Luznihki.

I fatti accaddero il 20 ottobre del 1982, secondo turno di Coppa UEFA. Il Luzhniki è lo stadio principale di Mosca, allora conosciuto come stadio Lenin e l’anno scorso teatro della finale Mondiale tra Francia e Croazia. Quando l’URSS era ancora una potenza mondiale, le partite principali delle Coppe Europee si giocavano allo stadio Lenin, e lo Spartak Mosca, che nel primo turno della Coppa UEFA 1982/83 aveva eliminato i forti inglesi dell’Arsenal, doveva affrontare un outsider, la formazione olandese dell’Haarlem. Un club ora discioltosi, che rappresentava la piccola omonima cittadina che si era qualificata per la prima volta nella sua storia alle Coppe Europee l’anno precedente, vantando in rosa un giovane di grande valore chiamato Ruud Gullit.

Si gioca davanti a circa 15mila spettatori, una discreta affluenza considerando come Mosca, in quel mercoledì d’ottobre, era totalmente avvolta dal gelo. I supporters olandesi sono invece circa 100, una notevole prova di coraggio per raggiungere in un giorno feriale l’Unione Sovietica in un giorno di neve. In ogni caso, 15mila persone sono poche in un impianto che supera le 80mila come capienza massima, e vengono tutte convogliate nella Tribuna Est.

Al fischio d’inizio ha smesso di nevicare, ma il campo è ghiacciato e con esso anche le gradinate. I giocatori stanno in piedi a fatica e lo Spartak, più abituato a certe condizioni atmosferiche, passa in vantaggio con un gol del fantasista Edgar Gess. Il match è avaro di emozioni e a pochi minuti dalla fine il pubblico inizia a defluire progressivamente, per andare finalmente a ripararsi dal gelo. La sorte però ha deciso quella sera di accendere la miccia a qualcosa di terribile. Quasi allo scadere, il difensore dello Spartak Shvestsov realizza la rete del raddoppio.

“Maledico ogni giorno di aver segnato quel gol,” dichiarò in un’intervista, e c’è un perché: i gradini e i corridoi dello stadio, sugli spalti, sono ghiacciati: al momento del gol del 2-0 molti tifosi provano a tornare indietro per vedere cosa stia accadendo in campo, ma la polizia che presidia l’impianto ha l’ordine di non far rientrare chi ha già lasciato lo stadio. La gente inizia dunque ad accalcarsi e scivolando sul ghiaccio, cade schiacciandosi reciprocamente. Si parla di decine e decine di tifosi e chi è rimasto sugli spalti parla di urla terribili, indimenticabili, provenire dagli ingressi che danno sugli spalti.

Avendo convogliato i tifosi verso l’unica uscita, il bilancio sarà pesantissimo. Compresa la situazione, la polizia si unisce alle ambulanze che arrivano a soccorrere le persone schiacciate, ma in mancanza di ordini da parte dei superiori, la situazione allo stadio è nel caos. Quello che avviene da quel momento in poi, a 37 anni di distanza è ancora avvolto nel mistero.

Le squadre vengono frettolosamente fatte uscire dal campo e lasciano lo stadio senza avere notizie, con l’Haarleem addirittura portato a forza all’aeroporto, come in una evacuazione di massa. Il giorno dopo un solo giornale, “Il Vespro di Mosca”, parlerà di “Incidenti allo stadio e lesioni per alcuni tifosi” a margine della partita di Coppa UEFA. Nell’URSS degli anni 80 queste notizie vengono tenute segrete oltre ogni logica e buonsenso: basti pensare che il moribondo segretario del PCUS, Breznev, venne segnalato come malato di “raffreddore” fino al giorno della sua morte. Il suo successore, Andropov, istituì una commissione d’inchiesta che stabilì che allo stadio Lenin persero la vita circa 67 persone.

Testimoni oculari parlano però di almeno 300 morti, versione mai confermata: alcune persone decedute quella sera vengono segnalate come morte a chilometri da Mosca, quando in realtà le famiglie affermavano si trovassero allo stadio: segno che probabilmente alcuni certificati vennero contraffatti. Un testimone in particolare, Andrej Chesnokov, che diverrà un tennista di fama mondiale, affermò di essere presente a tifare lo Spartak quella sera, e rilasciò una dichiarazione agghiacciante, in cui affermò di aver visto tanti cadaveri da riempire due campi da tennis, quella sera.

La verità come detto non fu mai portata alla luce. Venne solo eretto un monumento davanti allo stadio, poi divenuto Luzhniki, in ricordo alle vittime di quella sera: e per commemorarle, nel 2007 a 25 anni dalla strage i giocatori di Spartak e Haarlem in campo quella sera si ritrovarono per disputare un’amichevole che facesse uscire, almeno per un giorni, i terribili ricordi dall’abisso della censura.

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Andrea Rapino Calciatori

Lucas Correa: per un giorno, l’ultimo erede di Maradona in Nazionale

di Andrea Rapino

Quello che oggi è un qualsiasi buon giocatore di serie C con i capelli rasati a zero, e per i tifosi della Lazio resta uno dei più anonimi numeri 5 della storia del club, per l’Argentina ha rischiato di diventare un numero 10 storico: il caso ha infatti voluto che Lucas Alberto Correa Belmonte, nel 2012-2013 centrocampista del Bassano Virtus (Seconda Divisione), stesse giocando un Mondiale Under 17 con il numero di Maradona, proprio nei giorni in cui la federazione argentina chiese alla Fifa di non assegnarla più a nessun giocatore in nessuna competizione.

Per Correa, in quel momento protagonista di un discreto Mondiale a Trinidad e Tobago, fu un lampo di celebrità: fu bersagliato dalla domanda di rito su cosa si provasse nell’essere l’ultimodiez” nella storia del fútbol argentino, come racconta il portale sudamericano En una baldosa. Alla fine la Fifa però rigettò la proposta della federazione albiceleste, e quel torneo ai Caraibi il giovane Lucas lo ricorderà per una gol al Burkina Faso nel girone eliminatorio e per aver giocato in squadra con Carlos Tévez e Maxi López.

correaDopo l’esperienza iridata, Correa tornò nel club dove era cresciuto, il Rosario Central, quello che ha lanciato il capocannoniere del Mondiale del ‘78 Kempes e lo storico portiere del Boca Roberto Abbondanzieri. La celebrità gli fruttò anche un presunto interessamento del Barcellona, ma dopo una manciata di apparizioni nella massima serie argentina, attraversò l’Oceano per ritrovarsi nella settima serie italiana: nel 2004-2005 è la stella del Penne, club abruzzese con discreta tradizione a livello regionale; insieme a una nutrita pattuglia di italoargentini, Correa trascina la squadra al ritorno in serie D dopo dieci anni.

L’allora ventenne Lucas si guadagna così le attenzioni delle società abruzzesi di serie C, e nel 2005-2006 passa in C1: lo prende il Lanciano allenato da Francesco Monaco, storico capitano della Lucchese che esordisce tra i professionisti in panchina. Correa inizialmente paga lo scotto del salto di categoria, ma contribuisce alla salvezza di una formazione combattiva e infarcita di giovani di belle speranze (tra questi Salvatore Bocchetti, oggi allo Spartak Mosca).

Il 2006-2007 potrebbe essere l’anno del grande salto. Correa come allenatore ha ritrovato Andrea Camplone, ex terzino del Pescara di Galeone che lo aveva lanciato a Penne, che ne esalta le doti tecniche nel suo 4-3-3. Insomma, si è adattato alla categoria ed è diventato un top player della C1. Per questo su Lucas mettono gli occhi il Cagliari, il Chievo e la Lazio. Pare che alla fine Claudio Lotito abbia concordato direttamente l’acquisto con Paolo Di Stanislao, romano d’origini abruzzesi che aveva da poco rilevato il Lanciano (e presto lo avrebbe portato al fallimento). Nonostante entri in lista con la maglia numero 5, il biancoceleste però Correa lo vede poco o nulla: a parte ritiri estivi e qualche amichevole, per giocare deve riscendere in club della fascia medio alta della terza serie nazionale: Lucchese, Gallipoli, Pro Patria, Taranto e Ravenna. Quando nel 2011 affronta l’ultimo ritiro con la Lazio, ha racimolato solo un play off (perso col Padova) a Busto Arsizio, dove 12 gol con la squadra allenata da Franco Lerda restano il suo record stagionale.

Nel 2011 gioca in B col Varese, che tra l’altro arriva gli spareggi per la A, ma è il canto del cigno: dopo l’esordio tra i cadetti riscende in Lega pro, prima con l’Avellino e poi con il Bassano Virtus, dove retrocede e gioca anche in Seconda Divisione, e l’anno scorso comunque mette a segno una decina di reti. Così, dopo una dozzina di anni di serie C ad alti livelli, per l’ultimo aspirante pibe de oro l’unico campionato vinto in Italia resta quello di Eccellenza abruzzese.

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Club Valerio Fabbri

Spartak Mosca: la squadra della classe operaia nata dal patto dei quattro fratelli Starostin

di Valerio Fabbri

La storia dei fratelli Starostin – Aleksandr, Andrej, Pëtr e Nikolaj, nati fra il 1902 e il 1909 – è anche quella dello Spartak Mosca, squadra di calcio russa nata nelle strade del quartiere Krasnaja Presnja della capitale e celebrata anche dal poeta Vladimir Majakovskij. Perché l’epopea di questi fratelli riassume, per certi versi, la vicenda di un’ideologia, quella sovietica, e della sua dissoluzione.

urlÈ Nikolaj Starostin che decide di creare una polisportiva in grado di competere con il CSKA (dell’Armata Rossa) o la Dinamo (del commissariato degli interni/KGB). Nel 1935 – fondato nel 1922 come Krasnaja Presnja – nasce il club professionistico di calcio Spartak Mosca, dal nome del celebre Spartaco che guidò un’epica rivolta degli schiavi contro Roma. A suo modo, anche lo Spartak è espressione di una rivolta, essendo l’unica squadra sovietica nata per iniziativa di un gruppo di amici e non come emanazione delle potenti polisportive militari.

La classe operaia si identifica a tal punto nella squadra di calcio che, nel 1936, la Piazza Rossa diventa teatro di una partita dimostrativa fra la prima e la seconda squadra dei biancorossi davanti a Stalin in persona. Nemmeno la Dinamo aveva mai ottenuto tanto. Il passo è breve affinché lo Spartak Mosca finisca per rappresentare la squadra proletaria per eccellenza, nella quale si identificano i russi e non solo. Un perfetto modello sovietico, in teoria. Un pericoloso precedente “borghese”, in pratica. È l’inizio della fine.

Lavrentij Berija, capo dei servizi di sicurezza dal 1938, responsabile delle repressioni staliniane, appassionato di calcio e presidente della Dinamo, fa arrestare e condannare a 10 anni di lavori forzati i fratelli Starostin, colpevoli del proprio successo e rei di avere troppe volte sconfitto la sua Dinamo in campionato. Tutti e quattro i fratelli vivranno una seconda vita, ma chi rimarrà legato al club è Nikolaj, responsabile tecnico del club fino alla morte nel 1992. Lo Spartak ha continuato a far bene anche senza di lui, anche se la sua morte ha segnato la fine di un pezzo di storia del calcio russo, ora dominato da squadre nuove – Zenit San Pietroburgo, Anzhi Makhachkala, Rubin Kazan, per citarne alcune – spirito del tempo moderno.

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Calciatori Club Fabio Belli

Dinamo Mosca, la leggenda del “Ragno Nero” vuole resistere nel tempo

di Fabio Belli

Nella guerra a colpi di decine di miliardi che i magnati russi stanno combattendo nel mondo del pallone senza esclusione di colpi, alcune leggende del calcio ex sovietico rischiano di uscire stritolate. Tra gli ingaggi fuori dalla realtà dell Anzhi, l’ombra di Roman Abramovich che accudisce il CSKA, i giganti del Tartastan del Rubin Kazan e la Gazprom che regala allo Zenit una propulsione valsa due scudetti di fila, gli ex potenti del calcio russo faticano a restare sopra la linea di galleggiamento. Spartak e Lokomotiv, tanto per citarne un paio, continuano a lottare per un posto in Europa, ma la loro egemonia sembra lontana.

Ma c’è un nome su tutti che manca da tempo al gran ballo della Champions League, e più in generale nel calcio europeo che conta, ma che non molla pur non avendo un vero e proprio colosso economico alle spalle, e che sta lottando per rientrare nelle Coppe dalla porta principale. E’ la Dinamo, la squadra del ministero degli interni di Mosca ai tempi dell’impero sovietico, ora senza titolo nazionale da 36 anni ma che di campionati dell’URSS ne può contare ben undici, quando a difendere la porta dei “poliziotti” c’era un certo Lev Jašin, il “Ragno Nero“, considerato unanimemente il più grande portiere di tutti i tempi, nonché l’unico estremo difensore capace di aggiudicarsi il riconoscimento individuale più ambito per un calciatore, il Pallone d’Oro.

Jašin è “la” leggenda della Dinamo Mosca, perchè ne incarna anche l’essenza polisportiva. Il club infatti vanta sezioni negli altri sport altrettanto vincenti nella storia rispetto al calcio. Innanzitutto l’hockey su ghiaccio, ma anche pallavolo e pallacanestro maschile e femminile, calcio a 5 e pallanuoto. In pochi sanno che Jašin, pur difendendo la porta della Dinamo dal 1949 al 1970, fino al 1954 fu anche il numero uno della squadra di hockey su ghiaccio, con la quale vinse il campionato nazionale nel 1953.

Il mito della Dinamo affonda comunque le sue radici a ben prima dell’arrivo di Jain. Il fatto di essere un club molto vicino al governo attirò molte antipatie in tutta l’URSS sulla squadra, che era comunque di gran lunga la più forte del paese già prima della Seconda Guerra Mondiale. Rimase impressa nella storia una tournèe nel Regno Unito nel 1945: completamente sconosciuti, i giocatori sovietici impressionarono la stampa e i tifosi inglesi, pareggiando per 3-3 contro il Chelsea, vincendo per 10-1 contro il Cardiff City, e battendo l’Arsenal, rinforzato dalla presenza di Stanley Matthews e Stan Mortensen per 4-3, per concludere poi con un pareggio per 2-2 contro i Rangers Glasgow.

Alla Dinamo è mancato l’alloro internazionale, sfumato nel 1972 a Barcellona in una tiratissima finale di Coppa delle Coppe proprio contro i Rangers. I tifosi della Dinamo dovettero assaggiare, tra i primi a livello continentale, la furia degli hooligans scozzesi: incidenti che non degenerarono ulteriormente proprio grazie all’abitudine dei tifosi moscoviti a non rispondere alle provocazioni. Attualmente, come detto, la stella della Dinamo non brilla più luminosa come un tempo, col club stritolato dalla potenza economica dei tycoon russi. Ma in questo 2012 la squadra, nel fortino all’inglese del “Dynamo Stadium” di Petrovski Park, sta lottando alla pari con i colossi che a colpi di milioni di dollari si sono guadagnati la ribalta delle cronache. La leggenda del “Ragno Nero” sta per tornare?