Categories
Calciatori Fabio Belli

Aleksandar Arangelovic: il “bomber profugo” di Cinecittà

di Fabio BELLI

A Roma le ferite della Seconda Guerra Mondiale, alla fine degli anni Quaranta, si potevano vedere agli angoli di tutte le strade. Dal centro crocevia di destini, fino alle periferie nelle quali si concentravano i pezzi di umanità che covavano i dolori più profondi, gli abitanti della Città Eterna cercavano disperatamente di ripartire aggrappandosi a brandelli di normalità. Tra di essi, il calcio è uno dei riti che ha saputo rimettersi in moto più in fretta e la rivalità tra Lazio e Roma tornava lentamente a dividere ma in un certo senso anche unire una città dalle mille anime.

Roma 1949/50
Roma 1949/50

Nel 1949 i soldi però scarseggiano, e non poco. A passarsela peggio in città è la Roma che, dal momento della sua fondazione, aveva vissuto un crescendo che aveva portato allo scudetto del 1942. L’essere però il frutto di più anime calcistiche, nato dalla fusione del 1927, ha portato il club ad una dispersione d’energie che si fa sentire soprattutto a livello economico. E’ l’anno della transizione tra il presidente dell’immediato dopoguerra, Pietro Baldassarre, e Pier Carlo Restagno, che resterà in carica tre anni conoscendo l’onta dell’unica retrocessione in Serie B ma anche il riscatto dell’immediata risalita. Ad ogni modo per tirare su una squadra in grado di affrontare il campionato 1949/50 occorre fare di necessità virtù e l’idea geniale per la Roma giunse da Cinecittà ed anche per i tempi non era di certo convenzionale.

Nel popolare quartiere Mecca del cinema italiano, infatti, tra i prati sterminati dell’epoca sono anche siti momentaneamente molti campi che ospitano profughi di guerra. E’ proprio lì che la Roma scova Aleksandar Arangelovic, all’epoca ventisettenne (anche se alcune note biografiche suggeriscono che poteva in realtà avere due anni in più). Jugoslavo apolide con una passione per il calcio sfiorita a causa delle miserie della guerra. Finito in fuga in povertà a Roma, Arangelovic era stato in realtà un calciatore di professione. Aveva giocato col Padova ed anche col Milan quando i tornei ufficiali erano stati però già stati sospesi e, si venne poi persino a sapere, aveva sostenuto un provino con la Lazio che non era però riuscita a superare dei problemi legati al suo tesseramento. Arruolato nella squadra giallorossa al minimo del salario, in attesa di riprendere un’adeguata forma fisica, Arangelovic divenne in men che non si dica un idolo della tifoseria giallorossa, tanto da diventare un vero personaggio ospitato anche da artisti come Mario Riva e la compagnia Dapporto durante spezzoni trasmessi nei cinegiornali.

arangelovic4
Arangelovic al Novara

La sua specialità era la “bomba“, ovvero il tiro micidiale che sapeva scoccare anche da fermo. Un vero e proprio tratto distintivo che ne faceva anche un mago delle punizioni. In quell’anno la Roma si guadagnò il soprannome di “ammazzasquadroni” perché, pur lasciando per strada punti contro molte squadre modeste, riusciva a collezionare scalpi di formazioni in lotta per il titolo. Arangelovic era l’arma segreta della squadra, capace di far ammattire il fuoriclasse svedese Gren in un Roma-Milan d’altri tempi. Concluse il campionato con l’eccellente bottino di undici reti e con quattro doppiette inflitte all’Atalanta, alla Lucchese, al Venezia ed al Palermo.

A fine partita, dopo aver compiuto prodezze nella massima serie, se ne tornava a Cinecittà negli alloggi per i rifugiati. Un simbolo della precarietà dell’epoca, ma anche della voglia di riscatto che pervadeva Roma e tutta l’Italia. “Ce pensa l’Arcangelo“, cantilenavano allo stadio i tifosi giallorossi riadattando il nome di quello slavo dallo sguardo misterioso che tenne a galla la squadra, salva alla fine per due punti, con i suoi gol. E la Roma aiutò a sua volta Arangelovic a rimettersi in pista: restò a giocare in Italia, al Novara, e poi riprese a girare il mondo, prima al Racing di Parigi e poi all’Atletico Madrid prima di intraprendere, da vero pioniere, la carriera di allenatore in Australia.

 

Categories
Calciatori Fabio Belli

Il calciatore ed il poeta: l’amicizia tra Ezio Vendrame e Piero Ciampi

di Fabio BELLI

Il poeta e il calciatore, il poeta è il calciatore. Cambiando l’ordine degli… accenti, il risultato non cambia. Non cambia se ci riferiamo alla storia personale di Ezio Vendrame, il “George Best” del Tagliamento, magnifico talento sprecato del calcio dei primi anni ’70 (ne abbiamo già parlato qui) e a quella della sua amicizia con un cantautore, Piero Ciampi, simbolo dell’amore per l’arte e la decadenza. Nessuna sottovalutazione di sé, solo la consapevolezza che, al di là del pallone e della musica, i due erano uniti dall’idea che ci fosse qualcosa di più importante, quel “farabutto esistere” nel quale consumarsi, da anteporre a qualsiasi convenzione sociale.

Vendrame_chitarraL’incontro con Piero Ciampi cambierà Vendrame a tal punto da iniziarlo alla poesia: uno scrittore nato sui campi di gioco, quasi un “unicum” nel panorama dei calciatori di tutto il mondo, tra i quali il massimo della produzione letteraria si ferma nella stragrande maggioranza dei casi a biografie scritte per interposta persona. Dedito all’alcol Ciampi e alle donne Vendrame, due passioni che ne hanno consumato, probabilmente, i rispettivi talenti. Ma la loro amicizia, fino alla morte del cantautore livornese, ha sempre resistito alle bizze del loro genio e della loro conseguente sregolatezza. Vendrame aveva un tale rispetto di Ciampi che, quando l’amico una volta venne allo stadio Appiani di Padova per vedere una sua partita, lui fermò il pallone con le mani ed decise di interrompere d’imperio la partita per rendergli il giusto tributo. Perché, come spiegò in un’intervista: “Il gioco del calcio diventa una cosa volgarissima di fronte ad un poeta come Piero.”

A Vendrame le convenzioni legate al mondo del calcio bigotto, conservatore, ipocrita non sono mai andate giù. E la poesia diventava una via di fuga dalla realtà: non è un caso che una volta lui, originario di Casarsa della Delizia in Friuli, scelse come location per farsi intervistare la tomba di Pier Paolo Pasolini, seppellito in quella che era la terra natia della madre, definendolo “il mio compaesano più vivo“. L’amicizia con Ciampi fu l’approdo finale per questa esigenza di andare oltre la realtà precotta del mondo del calcio, anche se a volte esigeva un prezzo molto alto, col poeta/cantautore ormai alla deriva. “Certe sere”, raccontava Vendrame su Ciampi, “si doveva andarlo cercare, perché magari era qualche giorno che non tornava. Lo cercavamo nei luoghi più assurdi, tra le vie sperdute, o in chissà quali posti: poi te lo trovavi seduto su di un marciapiede che beveva dell’alcol denaturato, circondato dai topi”. Ma era in quei frangenti che l’artista livornese dava il meglio di sé e sapeva insegnare tutto sulla vita, l’amore e la morte, come spiegò il fantasista del Vicenza: “La definizione che mi diede Piero Ciampi sull’amore è capire la sofferenza di chi ti sta vicino. Talmente grande che ho quasi paura a dire di amare qualcuno. Di solito siamo egoisti quando amiamo”.

Ancora parole di Vendrame: “A Piero devo tutto. Quello che so l’ho imparato da lui. La sua morte mi sconvolse“. Si conobbero a Roma, nel ristorante di Marcello Micci, e litigarono furiosamente la notte prima della sua scomparsa. Ciampi morì nel gennaio del 1980, assistito da un altro cantautore che era però anche medico, Mimmo Locasciulli. Lo uccise un cancro alla gola, “dopo essersi preparato per tutta la vita a una morte per cirrosi epatica”, dissero. E appena prima di morire, come raccontato da Vendrame in uno dei suoi libri, era andato a casa sua in cerca di rifugio. Ma cominciò a bere, a sbraitare, con i suoi deliri non fece chiudere occhio per tutta la notte al calciatore che sbottò, cacciandolo via, insultandolo, dicendo che non aveva rispetto per gli amici. Ciampi non poté far altro che rispondere con una frase lapidaria, innocente e spiazzante al tempo stesso: “Ma Ezio, io sono un poeta!“.

Categories
Calciatori Club Fabio Belli

Ezio Vendrame: se lo mandi in tribuna, gode

di Fabio BELLI

Ma è proprio vero che una volta Ezio puntò la propria porta per protestare contro un pareggio già scritto in una partita contro la Cremonese e si fermò sulla linea di porta, causando però un infarto ad uno spettatore in tribuna? Ed è accaduto anche che quando i compagni di squadra non si smarcavano in zona d’attacco,polemicamente saltava a due piedi sopra il pallone e in quell’equilibrio precario scrutava l’orizzonte davanti a sé per capire dove lanciare, con la mano sopra la fronte tipo vedetta? Ed è vero che nella stagione trascorsa a Napoli approfittava delle mancate convocazioni del tecnico Vinicio per sgattaiolare via nei bagni, durante l’intervallo, per consumare un amplesso con qualche signora in vista della tribuna centrale del San Paolo?

D’altronde il titolo del suo primo libro autobiografico, “Se mi mandi in tribuna, godo“, è piuttosto eloquente in questo senso. Ma con i personaggi come Ezio Vendrame, poeta del gol ma non alla maniera di Claudio Sala perché lui la poesia la concentrava prevalentemente fuori dal campo, non capisci mai dove finisca la realtà ed inizi la leggenda. Da ex calciatore, dopo la grande amicizia consumata con Piero Ciampi (raccontò: “L’ultima volta che lo vidi litigammo furiosamente. Lui non voleva smettere di bere e pretendeva che rimanessi alzato con lui fino all’alba inoltrata.Alla fine, quasi per scusarsi del suo comportamento, mi disse: “Ma Ezio… io sono un poeta!” Purtroppo l’alcol era ormai per Piero fuori controllo … ma rimane pur sempre la persona migliore che io abbia mai incontrato“), oltre alla sua biografia calcistica si è prodotto nella composizione di poesie.

Al pallone ci ha pensato solo per allenare i ragazzini della Sanvitese, in Friuli, a pochi passi da dove è nato. Ovvero Casarsa della Delizia, terra materna di Pier Paolo Pasolini. La frase “Vorrei allenare una squadra di orfani” è sua, figlia dell’insofferenza verso le esasperazioni dei genitori dei piccoli calciatori. Lo stesso libro sopra citato è permeato da aneddoti reali mischiati a racconti che sconfinano nella barzelletta riadattata. Questo Vendrame lo sa e ci gioca sopra. Per lui il calcio non è mai stata una cosa da prendere sul serio.

Tutto il resto, donne comprese, assolutamente sì, invece: quando era una giovanissima promessa il presidente della Spal, Paolo Mazza, gliela giurò perché preferiva trascorrere il tempo con un'”amichetta” piuttosto che ad allenarsi. Andò al Vicenza e stupì tutti con una classe cristallina assolutamente naturale ed imprevedibile. Gli appiccicarono addosso l’etichetta di “George Best italiano” per la convergenza storica con il fenomeno del Manchester United che si abbinava ad una somiglianza fisica quasi perfetta. Ma Ezio si esaltava più per la perfetta incompiutezza di un gol sbagliato che per una sequela di palloni in fondo al sacco, tutti uguali. Una volta raccontò: “Nereo Rocco mi dava del pazzo e la cosa, non lo nego, mi faceva enormemente piacere. Più semplicemente io amavo giocare a pallone ma non mi piaceva fare il calciatore. Mi sentivo stretto, risucchiato, prigioniero anche perché i vincoli, non solo societari ma anche se vogliamo chiamarli così, ‘morali‘, erano ancora molto forti in quegli anni ’70. Hai voglia a dire che c’era stato il ‘68 e che la contestazione giovanile aveva cambiato il mondo… L’Italia era ancora un paese retrogrado e bigotto e il mondo del calcio lo era ancor di più“.

Nel 1969 a Siena regalò un cappotto da 70.000 lire, appena comprato, a uno zingarello che chiedeva la carità: “Aveva più freddo di me,” spiegò lapidario. Vicenza fu la sua pagina migliore: il suo più grande rimpianto? Non aver mancato il passaggio ad una grande del calcio italiano, come la Juventus o l’Inter, ma non aver resistito alla tentazione di rifilare un tunnel a Gianni Rivera: “L’ho vissuta come una mancanza di rispetto nei confronti di quello che era un mio idolo ma me lo ritrovai lì, mi venne incontro e aveva la gambe aperte. Subito dopo mi scusai con lui … anche se quando apri troppo le gambe qualche rischio lo corri sempre!

All’apice della carriera passò al Napoli ma Luis Vinicio, allenatore azzurro nella stagione 1974/75, gli concesse solo tre presenze in quel campionato, allergico alla sua totale inaffidabilità. A soli 28 anni iniziò il declino di una carriera mai davvero sbocciata. Fino ad arrivare al Padova in C dove avvenne il fattaccio con la Cremonese: ribellatosi alla “torta” col punto a fine stagione che stava bene a entrambe le squadre dribblò la sua intera squadra da un lato all’altro del campo senza che nessuno potesse fermarlo. Fino a fintare il tiro davanti al proprio portiere che si tuffò inutilmente su di lui cercando di togliergli il pallone dai piedi. Vendrame lo scartò per poi fermarsi in prossimità della linea di porta e ritornare indietro. In quell’occasione un tifoso sugli spalti morì d’infarto e quando questo gli fu riferito, Vendrame rispose: “Mi chiedo come sia possibile che qualcuno debole di cuore ancora decida di venirmi a vedere giocare.”

Categories
#Contromondiali Fabio Belli

#Contromondiale 04: #Pepe, #Testata, #Müller, #Mehrdad, #GolVeloce, #USA, #CR7, #Messi, #Beckerman #Stoke

di Fabio Belli

Argentina – Bosnia 2-1

Messi si è presentato al Maracanà con un capolavoro
Messi si è presentato al Maracanà con un capolavoro

20. Che sia un segno del destino? Nei precedenti due Mondiali disputati, Messi aveva finora realizzato solamente un gol. La partita contro la Bosnia in verità è stata abbastanza pigra per il fenomeno argentino, ma il gol del momentaneo 2-0 è stato un autentico capolavoro, probabilmente con quello di Van Persie, il più bello della competizione fino a questo momento. E per di più, segnato al Maracanà, dove gli “hinchas” argentini si sono riversati in massa, facendo sentire praticamente a casa l’albiceleste. Leo sa che questa del Mondiale brasiliano è la montagna che deve scalare per entrare nella storia, e soprattutto vincere l’eterno confronto con un certo Diego Armando Maradona. Il primo passo, in barba agli scettici, è stato compiuto.

Germania – Portogallo 4-0

La testata di Pepe a Muller in versione Lego
La testata di Pepe a Muller in versione Lego

21. All’elenco delle “testate famose” si aggiunge quella di Pepe a Thomas Müller. Tutt’altro fascino, e soprattutto tutt’altra potenza rispetto alla testata per eccellenza, quella rifilata da Zinedine Zidane a Marco Materazzi nella finale del 2006. Ma tant’é: è bastata l’intenzione, ed il gesto ha fatto già il giro del mondo, tanto da meritarsi già una rappresentazione con i celeberrimi mattoncini lego. Il colpo non ha di certo influito sulle capacità di Müller, che ha realizzato la prima tripletta di Brasile 2014.

La stampa portoghese non usa giri di parole
La stampa portoghese non usa giri di parole

22. A onor del vero, la testata di Pepe ha scatenato una serie di polemiche sull’arbitraggio del serbo Milorad Mazic, inflessibile con i lusitani e con Pepe, che aveva appoggiato la sua testa su quella di Müller per invitarlo a rialzarsi per una presunta simulazione, e prima ancora nell’assegnare un rigore piuttosto dubbio ai tedeschi. La reazione della stampa portoghese non ha però alimentato le polemiche, ed anzi ha enfatizzato la delusione per la prestazione di Cristiano Ronaldo e compagni. Il primo confronto a distanza con Messi per CR7 è stato impietoso, e i dubbi sulla sua precaria condizione fisica, dopo una stagione massacrante con il Real Madrid, si moltiplicano.

Iran – Nigeria 0-0

Mehrdad: nome profano, cuore da poeta
Mehrdad: nome profano, cuore da poeta

23. E’ stato necessario attendere la tredicesima partita ed il quinto giorno dei campionati del mondo per assistere a un pareggio, per giunta a reti bianche. In una competizione inizialmente spettacolare come non mai, una mosca bianca. Il gioco difensivo dei persiani ha pagato (37% di possesso palla contro il 63% nigeriano), ma a rischiare tantissimo sono stati gli africani su palla inattiva. A rubare la scena in Italia, per la curiosa assonanza del cognome, è stato Mehrdad Pouladi. La sua dichiarazione premondiale è stata, poeticamente: “Il calcio è fatto per essere amato da me e mi ricambia con uguale spinta”. Per la serie, dai diamanti non nasce niente, da Mehrdad nascono i fior…

Ghana – Stati Uniti 1-2

Prima del gol di Dempsey al Ghana, la classifica delle reti più veloci di tutti i tempi ai Mondiali
Prima del gol di Dempsey al Ghana, la classifica delle reti più veloci di tutti i tempi ai Mondiali

24. Clint Dempsey segna al 28”: è il gol più veloce di questi Mondiali, come è facile immaginare, ed il quinto in assoluto più rapido in 84 anni di competizione. Il più veloce resta Hakan Sukur, in gol dopo 11” nella finale per il terzo posto del Mondiale 2002. Nella tabella dei gol-lampo dei Mondiali, Dempsey affianca Bryan Robson.

A Chicago la folla attende Ghana-Stati Uniti
A Chicago la folla attende Ghana-Stati Uniti

25. Del crescente interesse per il calcio negli USA si parla ormai da circa quarant’anni, e non sempre con cognizione di causa. I primi caroselli risalgono al mondiale nippocoreano del 2002, nel quale gli yankee raggiunsero il miglior risultato dell’era moderna e per valore assoluto, considerando “sperimentale” l’edizione del 1930: i quarti di finale. I ragazzi del soccer non sono comunque più un passatempo per

Il più grande americano dai tempi di Abrahm Lincoln?
Il più grande americano dai tempi di Abrahm Lincoln?

eccentrici: a Chicago e nelle maggiori città, il rito di ritrovarsi per seguire la partita in pubblico, all’europea, prende sempre più piede. Entusiasmo dimostrato anche da come la pagina dedicata al match winner contro il Ghana, John Anthony Brooks Jr., è stata modificata dai supporters USA su Wikipedia.

Beckerman, stella del team USA
Beckerman, stella del team USA

26. I nostri consigli per gli acquisti continuano con un centrocampista a dir poco pugnace. Kyle Beckerman colpisce per il look, con i lunghi dreadlocks che gli ballonzolano sulla schiena e volano in aria ad ogni tackle. Ma oltre alle treccine c’è di più: sulle orme di Alexi Lalas, già noto al pubblico italiano per il suo passaggio al Padova, la vera passione di Beckerman sono la musica (non si separa mai dalla sua chitarra, portata anche come bagaglio ai Mondiali) ed i viaggi, ma rispetto al difensore degli anni ’90, la sua sostanza calcistica è ben più tangibile. Dominatore della zona mediana, è al massimo della maturità professionale, come dimostra il suo ormai eccellente senso della posizione. Unica perplessità con l’età: a trentadue anni non può essere considerato un investimento a lungo termine, ma i club che fossero interessati ad un acquisto già pronto e maturo, farebbero bene a bussare alla porta della sua squadra, il Real Salt Lake, nello Utah.

Verso Russia 2018

Dopo Qatar 2022, ci saranno Inferno 2034 e Stoke 2038?
Dopo Qatar 2022, ci saranno Inferno 2034 e Stoke 2038?

27. Il tweet del giorno è quello di un certo “Jon”, che ironizzando sulle scelte recenti delle sedi Mondiali da parte del massimo organismo calcistico internazionale, si è guadagnato oltre 2000 retweet ipotizzando: “Se la FIFA continua di questo passo, ci saranno: Russia 2018, Qatar 2022, Iran 2026, Corea del Nord 2030, Inferno 2034 e Stoke 2038”. Chissà se i cittadini di Stoke-on-Trent, e di conseguenza i tifosi del City, l’hanno presa a ridere.

Categories
Calciatori Enrico D'Amelio

Francesco Statuto: quando Anthony Boggi gli tolse un peso dalle spalle…

di Enrico D’Amelio

A volte la vita è come un film. Un momento, una decisione o una fatalità possono cambiare per sempre i nostri destini. Se Robert Anthony Boggi, arbitro della sezione di Salerno, ma nato a New York, non avesse convalidato il gol di Balbo nel derby di ritorno Roma-Lazio della stagione 1996/97, cosa ne sarebbe stato di Francesco Statuto? Per chi non sapesse di cosa stiamo parlando, o avesse la memoria ingiallita da 15 anni di calcio, facciamo un tuffo nel passato.

La Roma del duo Liedholm-Sella, subentrati da qualche domenica al tecnico argentino Carlos Bianchi, voluto fortemente dal presidente Franco Sensi, ma mai amato dal popolo giallorosso, sta portando a termine una delle più nefaste stagioni della propria storia. 1 punto nelle ultime 5 partite e tanta voglia di conquistare al più presto quei risultati che le garantirebbero la matematica salvezza, per poi ripartire da zero l’anno dopo. Ultimo appuntamento allettante della stagione, nemmeno a dirlo, la stracittadina contro la Lazio di Dino Zoff, anch’egli subentrato all’esonerato Zdenek Zeman. Lo stadio è colorato per 3/4 di giallorosso, con una coreografia fantastica a dispetto degli ultimi disastrosi risultati, in un infuocato pomeriggio di inizio maggio. Il primo tempo scivola via abbastanza noioso fino al minuto trentacinque, quando Abel Balbo, lanciato in verticale da Jonas Thern, supera Marchegiani dopo un rimpallo. La palla scivola lentissima verso la fatidica linea bianca, con il centrale sudafricano Mark Fish che tenta un disperato recupero.

Il difensore laziale, in scivolata, scalcia via il pallone quando ha appena varcato la linea di porta. E qui interviene il nostro. Francesco Statuto, a poco più d’un metro dalla porta, anche se in posizione defilata, riceve la sfera, e, forse per eccesso di sicurezza, forse per paura, tenta un improbabile esterno destro con la palla che termina a lato. Inutile il tentativo di Tommasi di rimettere la palla nel sacco. Grazie al cielo per i romanisti e per Statuto, Boggi ha già convalidato la rete del vantaggio, su suggerimento del guardalinee. Il derby, come molto spesso in quegli anni, termina 1-1, grazie alla zampata di Protti a tempo scaduto. Una beffa che fotografa al meglio tutta la stagione romanista. L’ultima di Francesco Statuto, centrocampista dalle scarse doti tecniche, ma dalla buona sostanza, inficiata da un brutto infortunio al perone subito 2 anni prima, con la maglia della Roma. Cresciuto nel settore giovanile romanista, ha mosso i primi passi tra i professionisti con le maglie di Casertana e Cosenza, fino alla prima stagione in Serie A con la maglia dell’Udinese, nel campionato 1993/94. Deludente dal punto di vista sportivo, visto che la squadra friulana retrocesse, ma importante sotto quello personale, dal momento che la Roma si accorse di lui e lo riportò alla base.

Buono il primo anno, con Carlo Mazzone in panchina; 20 volte titolare e una discreta duttilità tattica che gli valse l’attenzione di Arrigo Sacchi e l’esordio in Nazionale maggiore. 3 presenze in maglia azzurra, poi il brutto infortunio che ne segnò definitivamente la carriera. A 26 anni fu costretto a fare un passo indietro e a ripartire da Udine, per poi approdare a Piacenza, dove, però, si tolse lo sfizio di prendersi la rivincita contro la “sua” Roma, segnandole un gol nella gara di ritorno del 1998/99, finita 2-0 per i biancorossi al ‘Garilli’. Una sfida che segnò irrimediabilmente il destino di Zdenek Zeman sulla panchina giallorossa, compromettendo le ultime speranze di agganciare il quarto posto, conquistato dal Parma di Alberto Malesani. Poi un passaggio a Torino tra le fila granata, 2 anni a Padova, fino alla conclusione della carriera vicino casa, con la maglia della Viterbese. Gli scarpini appesi al chiodo, la vita che ti obbliga a virare su altro e gli anni che iniziano ad avanzare. Però, ne siamo certi, ogni tanto gli tornerà alla mente quel caldo pomeriggio di maggio con la palla che scottava tra i piedi e non voleva saperne di entrare. Un pensiero, e poi il sospiro di sollievo racchiuso in un malinconico sorriso. Tanto Boggi, oramai, quel gol di Balbo non potrà più annullarlo.

Categories
Allenatori Enrico D'Amelio

Franco Scoglio, un Professore in panchina

di Enrico D’Amelio

Uomo di mare, Professore e profeta del suo triste destino. Questo e tanto altro nella vita di Franco Scoglio, un po’ genio, un po’ pazzo, con una laurea in pedagogia messa nel cassetto per coltivare una passione ancor più grande e di una vita: quella della panchina. Nato a Lipari nel 1941, ha vissuto due carriere parallele da allenatore, fatte di innamoramenti, delusioni cocenti e ritorni di fiamma, nelle due città che più ha amato: Messina e Genova. 30 anni di carriera conditi da ben 8 esoneri e una dimissione, ma anche da imprese ai limiti dell’impossibile arrivate sui campi terrosi del profondo sud. Gentiluomo, Ronzulli, Papaleo, Rosaclerio, Geria, Polizzo, Babuscia, Arigò, Scignano, Sorace, Chiappetta era l’undici iniziale con cui condusse la Gioiese, nel lontano 1981/82, alla vittoria del campionato Interregionale, con un dominio del torneo dalla prima all’ultima giornata, che valse un ritorno in Serie C che mancava alla società calabrese dal 1948.

Non memorabili le prime due esperienze alla guida del Messina, con un sesto posto in C/1 e un esonero in C/2 nel corso degli anni ‘70. Al terzo tentativo, però, il Professore riuscì a scrivere la storia. L’anno era il 1984, la società giallorossa era stata appena rilevata da Salvatore Massimino e in rosa c’erano giocatori del calibro di Schillaci, Napoli e Catalano. Il primo anno arrivò il terzo posto, a soli 3 punti dalle vincitrici Catanzaro e Palermo. L’anno dopo, invece, nessuno poté fermare il cammino del Messina: trionfo con 45 punti e accesso al campionato di Serie B 1986/87. Altri due anni alla guida dei siciliani, per poi, dopo 17 anni vissuti tra Calabria e Sicilia, approdare in un’altra città di mare, questa volta lontano da casa: Genova.

Mai come allora, però, Franco Scoglio una casa la trovò davvero. “Morirò parlando del Genoa”, disse in un’intervista rilasciata negli anni ’90, a testimoniare quanto fosse indissolubile il suo legame con la città che l’aveva adottato. Mai, come a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, la Genova calcistica poté assurgere al ruolo di ‘Superba’, con i rossoblu condotti in A nel 1989 dal Professore e la Sampdoria a primeggiare in Italia e in Europa. Due anni indimenticabili sulla panchina della società più antica d’Italia, per poi tornare 3 anni dopo, nel 1993, con il tempo che sembrava essersi interrotto e un vero e sfortunato capitano, Gianluca Signorini, pronto a ricongiungersi col suo mentore. Lo stesso capitano che assieme ai suoi compagni aveva scritto forse la pagina più bella di storia del Genoa, andando ad espugnare Anfield nel 1992 in una gara di Coppa UEFA. Triste la fine del secondo passaggio in Liguria, con la retrocessione in Serie B nel 1995, dopo uno spareggio perso ai rigori contro il Padova. Poi, nel 2001, dopo un’esperienza di tre anni alla guida della nazionale tunisina, il ritorno. Tante le aspettative riposte in lui dalla sua gente, ma, questa volta, l’incantesimo sembra essersi rotto. Il Professore è oramai stanco e si congeda da Marassi dopo soli 4 mesi, regalando però ai suoi tifosi l’emozione più grande: battere la Sampdoria per 1-0 nel derby d’andata, con una commovente corsa sotto la Gradinata Nord a fine gara che sa di commiato. Quella notte, dopo anni di bocconi amari, la Genova rossoblu riesce a sentirsi padrona di una città che negli ultimi anni era stata troppo colorata di blucerchiato.

Lui, 4 anni dopo, morì d’infarto come aveva profetizzato, mentre litigava per il suo Genoa con il presidente Preziosi in diretta televisiva. Così aveva predetto e così è stato il suo destino. In panchina e nella vita, sempre il Genoa a scandire i titoli di coda di un uomo speciale, e, proprio per questo, geniale. Che ha avuto il merito, in trent’anni di carriera, di non fa capire a nessuno se si divertisse a prendere tutti in giro, dissacrando un mondo che si prende troppo sul serio, o che credesse davvero ad alcune frasi paradossali che amava ripetere: “Il Presidente non esiste, la società non esiste e la squadra non esiste: esistono solo tifoseria e tecnico”. Una volta in trent’anni, nella sua ultima ribalta, s’è avverato anche questo. Con i giocatori della Sampdoria che abbandonavano il campo con mestizia e con il popolo rossoblu intero a rendere omaggio al suo Profeta. Anche per questo, grazie, e buon viaggio, Professore.

“Sono un diverso perché non frequento il gregge; il sistema ti porta all’alienazione”.