Tutti gli appassionati di calcio italiani sanno che gli anni ’80 sono stati l’epoca d’oro del nostro football. Ogni tifoso, se chiude gli occhi e riavvolge il nastro della memoria, può rivedere di fronte a sé le stesse, glorioseimmagini di allora. Il Milan degli olandesi, l’Inter tedesca dei record, il Napoli di Maradona o la Sampdoria di Vialli e Mancini. Squadre che hanno impresso il loro nome sui libri di storia, dopo aver trionfato a turno nelle più prestigiose competizioni europee. Campioni che, si dice, nascano una volta ogni 25 anni e che chissà quando si potranno mai rivedere. Tremerebbero i polsi (e non solo), se ci si dovesse confrontare con uno di questi squadroni e se la tua coppia d’attacco, invece di chiamarsi Van Basten-Gullit, rispondesse ai nomi di Cantarutti-Garlini e se le tue avversarie per un posto in paradiso non fossero gli squadroni sopra citati, ma la Lazio di Eugenio Fascetti o il Catanzaro di Vincenzo Guerini.
Invece, una volta ogni 25 anni, pressappoco, nasce una squadra che ha in sé qualcosa di magico, a prescindere dalla categoria e dal campionato che si trovi ad affrontare. Soltanto magica è l’aggettivo che potremmo affibbiare all’Atalanta della stagione 1987/88 e non potremmo trovarne altri, dal momento che la partecipazione alla Coppa delle Coppe era stata favorita dal Napoli di Ottavio Bianchi. Proprio quello del trio d’attacco Maradona-Giordano-Carnevale (Ma.Gi.Ca.), dopo la finale di Coppa Italia di qualche mese prima. Gli orobici, dopo una stagione deludente con Nedo Sonetti in panchina, sono precipitati nella serie cadetta, ma in città c’è grande entusiasmo per l’avventura europea che sta per iniziare con un allenatore che farà presto la storia di questo club: Emiliano Mondonico. Entusiasmante, ma nonsemplice, la stagione ormai imminente, visto che è sì affascinante giocare in Europa, ma l’obiettivo principale, per la società con uno dei migliori settori giovanili italiani, è quello del ritorno immediato nella massima serie.
Però, si sa, l’appetito vien mangiando, e dopo le non semplici qualificazioni contro i gallesi del Merthyr Tydfil ai Sedicesimi e i greci dell’Ofi agli ottavi, Stromberg e compagni si trovano tra le prime 8 del torneo a giocarsi un doppio e affascinante confronto contro i portoghesi dello Sporting Lisbona, già affrontato nella medesima competizione 24 anni prima. Parallelamente in campionato le cose vanno bene, anche se Catanzaro, Cremonese, Lecce e Lazio sono avversarie ostiche per il quarto posto utile a tornare in Serie A; fare una scelta tra le due competizioni, però, sarebbe un rischio troppo grande e un tradimento insopportabile per una tifoseria forse unica tra le provinciali.
Così, la terribile banda dei ragazzi di Mondonico, con tanto cuore e uno stadio memorabile, schianta l’avversaria portoghese per 2-0 nella gara d’andata, per poi controllare agevolmente la qualificazione al ritorno con un tranquillo 1-1. Tutto è perfetto. In quegli anni sembra che tutta Europa soffra le squadre italiane, a prescindere dai giocatori e dalle squadre che siano protagoniste. Piotti sembra Zoff, Osti e Pasciullo rappresentano una linea difensiva invalicabile, Bonacina corre per quattro a centrocampo, Daniele Fortunato in regia non ha rivali e Stromberg è il trascinatore svedese di una squadra che inizia a credere che il sogno possa davvero realizzarsi.
Purtroppo, però, non tutto va nel verso giusto, e una partita imperfetta in semifinale contro i belgi del Malines, poi vincitori della Coppa, dopo la finale con l’Ajax, risveglierà i nerazzurri da una splendida magia. La promozione in Serie A renderà comunque memorabile una stagione che a Bergamo ricordano ancora adesso. Con nostalgia mista a rabbia. Perché sarebbe giusto che ogni appassionato di calcio, oltre al Napoli di Maradona, al Milan di Sacchi, all’Inter di Matthaus e alla Sampdoria di Vialli e Mancini, ricordasse anche la magica Atalanta di Stromberg, Cantarutti, Garlini e Mondonico arrivata a un passo dal sogno.
Oltre le gelide statistiche, le guerre vinte e le battaglie lasciate al nemico, i numeri di unica eleganza e straordinaria complessità, esistono calciatori per cui non esiste un’epoca, perché figli di qualsiasi tempo. Se volessimo spiegare cosa è stato per il calcio – e per ogni tifoso di questo sport – Marco Van Basten, non potremmo che partire dalla fine, dal 17 agosto 1995. Una data triste, in cui illusione e disincanto lasciarono il posto a una crudele consapevolezza, riassunta in poche parole dal titolo della Gazzetta dello Sport del giorno successivo: “Dove troveremo un altro come lui?”. Adriano Galliani disse che “il calcio aveva perso il suo Leonardo”, e perfino Diego Maradona, uno storicamente poco incline ad elargire facili complimenti, disse di “non aver mai visto un giocatore più elegante di Van Basten; una macchina perfetta che si è rotta, quando stava per diventare la migliore di tutte”. Costretto ad appendere gli scarpini al chiodo a soli 30 anni, questo cigno meraviglioso aveva cantato per l’ultima volta oramai tre anni prima, in una gelida notte di Champions League contro il Goteborg a San Siro. E sempre a San Siro, quel 17 agosto, non con la maglia rossonera, ma con un paio di jeans chiari e una camicia rosa nascosta sotto ad una giacca di renna, uno straziante e lento giro di campo ne annunciava la sconfitta più dolorosa. I vari tentativi di rimettere in sesto cartilagini deteriorate non avevano dato l’esito sperato; così, il suo pubblico adorante era costretto a salutare commosso il figlio prediletto. Una brusca e definitiva frenata sul più bello, dopo appena 10 di carriera, quasi la metà rispetto alla media di qualsiasi altro calciatore. Sufficienti, comunque, a fargli vincere tutto e forse anche di più. A riuscire in imprese che nessun altro aveva compiuto, biglietto utile a raggiungere di diritto l’olimpo dei semidèi. Dopo essere partiti dalla fine, possiamo riavvolgere il nastro del tempo e iniziare la sua storia. Una galleria di perle e diamanti da vedere e rivedere, capaci di mettere d’accordo tifosi e spettatori, giornalisti e semplici appassionati, così perfette da ubriacare di meraviglia il palato del più severo tra gli esteti.
Quando il predestinato si affaccia sul palcoscenico del professionismo è il 1981. Il movimento calcistico olandese ha visto passare la più bella nazionale che si ricordi, spintasi a raggiungere le finali del 1974 e 1978, ma non in grado di battere Germania Ovest ed Argentina nei due atti conclusivi del Mondiale. In parallelo, a sancire l’epilogo di quel ciclo irripetibile, anche la carriera del simbolo di quella squadra, Johan Cruijff, sta per imboccare il viale del tramonto. Il nome di Marco Van Basten figura per la prima volta in una partita del campionato dei Paesi Bassi il 3 aprile del 1982, in una gara contro il Nec Nijmegen. La maglia è ovviamente quella dell’Ajax e il futuro campione subentra al posto del vecchio numero 14. Gol all’esordio e, a fine stagione, primo titolo nazionale conquistato con la maglia dei lancieri. Ne arriva un altro l’anno successivo, quando i gol diventano 9 e le partite giocate 20, ma è nella stagione 1983/84 che il tulipano sboccia definitivamente, e il mondo intero si accorge che l’Olanda ha partorito un nuovo fuoriclasse. Un calciatore che possiede i colpi del numero 10 e la media realizzativa del numero 9, visto che è capace di segnare 28 volte in 26 partite ad appena 19 anni. Non più il modello Ajax in blocco a far parlare di sé, ma il singolo calciatore ad emergere rispetto ad un collettivo organizzato ad arte. Parallelamente arrivano le prime apparizioni con la casacca arancione, ma sono anni di apprendistato prima del Grande Evento, visto che gli eredi della compagine degli anni ’70 non riescono a qualificarsi per il mondiale in Messico del 1986. I titoli olandesi abituano a vincere il giovane campione, ma sono le ultime due stagioni all’Ajax che lo proiettano nella dimensione di una caratura internazionale. Il 1986 è l’anno della Scarpa d’oro, frutto di ben 37 reti in 26 presenze, e, nell’ultima stagione in biancorosso, arriva la conquista della Coppa delle Coppe. E’ sua la marcatura in finale ai danni della Lokomotive Lipsia, per una consacrazione europea giunta sotto la direzione tecnica proprio di Johan Cruijff. Il primo trofeo continentale di una lunga serie, che gli apre le porte al campionato più competitivo al mondo.
Una colonia olandese di nome Milanello
2 milioni di franchi svizzeri, quasi 2 miliardi di lire. Questa è la cifra imposta dai parametri UEFA che il Milan deve sborsare per assicurarsi le prestazioni del nuovo fuoriclasse, nell’estate 1987. Un affare per quello che sembra essere il più forte centravanti europeo in prospettiva, se non nell’immediato. Valutazione di gran lunga al ribasso, probabilmente, per la poca fiducia che altre società – più blasonate del Milan di allora – avevano riposto nelle sue condizioni fisiche, dopo l’infortunio ad una caviglia avvenuto durante una sfida contro il Groeningen. In effetti, già dopo la gara di Coppa Uefa persa in casa contro l’Espanyol – che poteva far morire sul nascere le ambizioni di rivoluzione tattica di Arrigo Sacchi -, Van Basten è costretto a fermarsi. E’ l’altra caviglia a costringerlo al riposo forzato e alla conseguente operazione, con sei mesi di inattività dai campi di gioco. I rossoneri sono impegnati in una rincorsa che sembra impossibile contro il Napoli di Maradona, lanciato a bomba verso il secondo scudetto consecutivo. Per chi ha memoria di quella stagione, una delle più avvincenti nella storia del calcio italiano, capace di vivere un decennio di primavera ininterrotta, ricorderà che sarà quasi esclusivamente il gemello olandese Ruud Gullit ad occupare le prime pagine dei giornali. Dopo la vittoria nello scontro diretto nella gara d’andata a San Siro – uno schiacciante 4-1 per l’undici di Sacchi – alcuni giornalisti sportivi iniziarono ad avanzare l’ipotesi che il 10 rossonero potesse essere addirittura più completo del rivale argentino. Van Basten era diventato oramai l’altro olandese. Il fuoriclasse solo nella potenzialità, ma non nella sostanza; teoria supportata da una marcia trionfale di Baresi e compagni, laureatisi Campioni d’Italia con soli 3 gol portati in dote dal centravanti di Utrecht. A 24 anni la carriera inizia ad essere di fronte a un bivio, con i detrattori pronti ad emettere il timbro della sentenza. Ma è nell’estate del 1988, a metà strada tra Milano e l’Olanda, che il cigno ritorna a cantare.
Germania 1988. L’Europa intera ai suoi piedi
O l’anonimato assoluto, per via di problemi fisici, o il proscenio conquistato da numero uno con gol ai limiti dell’impossibile. Così si è sviluppata, fino a questo punto, la carriera della punta fiamminga. “Il più raffinato ed elegante centravanti del calcio moderno, l’unico che sapesse danzare sulle punte di un fisico ciclopico”. Lo descrive così, su Repubblica, Emanuele Gamba, giornalista sportivo e noto tifoso granata. E’ questa frase, probabilmente, a evidenziare meglio di qualsiasi altra la diversità di Van Basten. Un calciatore che non sente il peso dei suoi 188 centimetri di altezza, ma che li mette a servizio di piedi con una tecnica fuori dal comune. Agli Europei in Germania non è la sua Olanda a partire con i favori del pronostico, tanto che la prima partita viene persa per 1-0 contro l’Unione Sovietica. Si pensa a una competizione di rodaggio, per gli oranje, in vista del Mondiale da disputare in Italia due anni dopo. C’è da dire, però, che la formula a sole 8 squadre, con le prime 2 di ogni girone qualificate direttamente per le semifinali, può dare adito a qualsiasi tipo di impresa. Infatti, con 4 punti conquistati in 3 partite, i ragazzi di Michels accedono alla semifinale contro i padroni di casa della Germania Ovest, favoriti di diritto alla vittoria finale. Una rivincita a distanza di 14 anni dalla finale mondiale del 1974. Questa volta, però, nell’undici arancione c’è più consapevolezza e meno inesperienza, più voglia di arrivare al risultato oggettivo e meno interesse nei riguardi della perfezione estetica. Dopo il vantaggio di Matthaus su calcio di rigore, c’è la risposta, sempre dal dischetto, da parte di Ronny Koeman. Poi, a due minuti dalla fine, il cigno timbra il sorpasso, con un gol più da attaccante di rapina che da Michelangelo del calcio. Manca solo il muro sovietico da demolire in finale prima della gloria, in una gara che verrà ricordata come quella del gesto tecnico proibito. Un gol, quello di Van Basten, che oltre a suggellare il 2-0 di una sfida mai in discussione, si inserisce di diritto nelle classifiche delle reti più belle di sempre per bellezza del gesto e coefficiente di difficoltà. L’Unione Sovietica si sarebbe dissolta, a livello politico, due anni e mezzo dopo, mentre quella parabola paradisiaca segnerà la fine della Nazionale con la scritta CCCP sulla maglia. Ma, in quel momento, non solo nessuno lo poteva immaginare, ma nessuno se ne sarebbe potuto o voluto accorgere, perché rapito da troppa meraviglia.
La nebbia di Belgrado nella nascita degli Invincibili
Agli albori di quelle che diventano pagine di Storia, il più delle volte, c’è sempre un punto di svolta senza il quale nulla sarebbe accaduto. Momenti in cui è il caso a farla da padrone, con le circostanze che si rivelano complici o nemiche dei personaggi in commedia. Se lo Scudetto del 1988 è stato il primo passo di una squadra che voleva scalare il mondo, il gradino successivo doveva essere, per forza di cose, la conquista dell’Europa che conta. Berlusconi e Galliani avevano costruito un gruppo troppo perfetto perché si potesse accontentare di vincere soltanto. I ragazzi di Sacchi dovevano per forza di cose aprire un ciclo, e farlo in un modo arrogante e inoppugnabile. La Coppa dei Campioni del 1988, però, non era la Champions League odierna con la formula a gironi. Allora bastava sbagliare una semplice partita per ritrovarsi estromessi già in autunno dall’obiettivo principale di stagione. Dopo un primo turno fin troppo agevole contro il Vitosha Sofia, che vide una quaterna di Van Basten nella gara di ritorno, i rossoneri dovettero spostarsi un’altra volta ad est della Cortina di ferro, per essere contrapposti alla Stella Rossa di Belgrado nel doppio confronto degli ottavi di finale. Il pareggio per 1-1 nell’andata di San Siro era un mezzo passo falso che non lasciava moltissime speranze per il ritorno, da giocare nell’inferno del Marakana. Le cose non si mettono bene per il Milan, visto che il primo tempo si chiude sull’1-0 per Savicevic e compagni, e, ad inizio ripresa, viene espulso Virdis per un fallo visto solo da un guardalinee. L’arbitro tedesco Pauli, però, a causa della nebbia fittissima che avvolge lo stadio jugoslavo, è costretto a sospendere il match e a rimandarlo al giorno successivo. Si ripartirà dallo 0-0 e dal primo minuto – allora le regole dicevano questo -, e, nonostante una direzione di gara non proprio favorevole, i rossoneri porteranno a casa la qualificazione ai calci di rigore grazie a un Giovanni Galli in stato di grazia. Da lì, una cavalcata trionfale fino alla finale di Barcellona, con uno stadio quasi totalmente rossonero, e un 4-0 ai danni della Steaua Bucarest, firmato dalle doppiette di Gullit e Van Basten. C’è il marchio indelebile del cigno in questa Coppa dei Campioni tornata a Milano dopo tanti anni, grazie alle 10 reti messe a segno nella massima competizione continentale per club che gli valgono il titolo di capocannoniere del torneo. L’anno dopo arriva il bis, nella finale di Vienna decisa dalla rete del terzo olandese, il centrocampista Frank Rijkaard, in una stagione macchiata solamente da un campionato perso al fotofinish, nell’assurda trasferta di Verona. Il Milan di Sacchi e degli olandesi, in ogni caso, a prescindere da uno Scudetto in più o in meno in bacheca, è diventato una squadra già leggendaria nel mondo. Capace di essere considerato uno spartiacque tra un ‘prima’ e un ‘dopo’, nella storia di un calcio, quello italiano, storicamente incline a un’impostazione tattica speculativa, più che di aggressività e pressing nella metà campo avversaria. In tutta questa serie di trionfi c’è la meraviglia di Van Basten. Un campione in continua evoluzione, che, anno dopo anno, migliora come il più pregiato dei vini d’annata. Come tutti i cicli, però, anche quello sacchiano giunge a conclusione. Forse per incapacità, da parte di giocatori troppo perfetti, di reggere allenamenti troppo maniacali per più anni consecutivi. Così, nella buia e controversa notte di Marsiglia, in cui Galliani ‘ritira’ la squadra dal campo a causa di un black-out momentaneo, c’è la definitiva crisi di rigetto. La società rossonera, a causa di questa decisione, viene squalificata per un anno dalle Coppe europee. Van Basten e il Diavolo, ancora una volta, si ritrovano a ripartire da zero.
L’arrivo di Capello e le ultime due stagioni da numero uno
Uno dei tanti luoghi comuni che gli addetti ai lavori utilizzano per identificare le caratteristiche di alcuni atleti è etichettarli come “il prototipo del calciatore moderno”. Una semplificazione dialettica spesso poco pertinente, visto che i fuoriclasse lo sono a prescindere dal periodo storico di riferimento. Nel caso di Van Basten, però, questo giudizio di forma assume i connotati della sostanza. Non necessariamente classico numero 9 da area di rigore, ma giocatore totale in omaggio alle proprie radici fiamminghe. Nell’estate del 1991, quando l’olandese è all’apice della maturità calcistica con i suoi 27 anni, Silvio Berlusconi sceglie Fabio Capello per riprovare a scalare il mondo. Giornalisti e addetti ai lavori, quasi all’unanimità, ritengono non più rianimabile una squadra che ha vinto per due volte consecutive Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale, il massimo per un club. La squadra appare arrivata alla fine di un ciclo con la naturalezza dello scorrere del tempo. Invece è proprio il fatto di trovare un tecnico non esasperato dal pressing e dalla difesa altissima, ma soltanto abilissimo gestore di spogliatoio, che consente di vivere una seconda giovinezza a calciatori ritenuti dai più sul viale del tramonto. Lo stesso Van Basten, in una recente intervista rilasciata proprio a Capello, ha dichiarato che fu importantissimo per il gruppo avere finalmente un allenatore che fosse stato calciatore, e che potesse così capire, a differenza di Sacchi, le esigenze dei singoli. Così, nemmeno a dirlo, il campionato 1991/92 vide il Milan conquistare lo Scudetto, e Van Basten mettere a segno 25 reti in 31 partite giocate, che gli valsero il titolo di capocannoniere per la seconda volta in Italia, dopo le 19 marcature nella stagione 1989/90. Sembrava il preludio ad una nuova ascesa, grazie a una società in grado di comprare giocatori per il solo gusto di sottrarli alle rivali. Lo fu per il Milan, in effetti, ma non per Van Basten. Durante il 1992/93, dopo il terzo Pallone d’Oro assegnatogli, a seguito dei due consecutivi del 1988 e del 1989, la caviglia comincia a dare nuovi segnali allarmanti, tanto da indurre il calciatore a sottoporsi ad una nuova operazione di pulizia. Due o al massimo tre mesi i tempi di recupero prospettati da parte dell’equipe medica di St. Moritz, dove il campione – in disaccordo con il Milan – decide di operarsi. Purtroppo le cose non vanno per il verso giusto, e, a giugno del 1993, si sottopone al quarto ed ultimo intervento, per tentare l’ennesima riabilitazione. Non sa che la finale di Coppa dei Campioni giocata contro l’Olympique Marsiglia, disputata in condizioni precarie e persa per il gol di Boli, è stata la sua ultima apparizione non solo con la maglia del Milan, ma da calciatore professionista in senso assoluto. La stessa squadra, quella francese, ironia del destino, che due anni prima aveva interrotto il dominio europeo del Milan di Sacchi. Nel medesimo stadio – quello di Monaco di Baviera -, peraltro, dove soltanto 5 anni prima Van Basten aveva portato al trionfo la Nazionale Olandese all’Europeo di Germania. Se per i ragazzi di Capello questa finale persa rappresenta soltanto un incidente di percorso, visto che dodici mesi dopo ci sarà l’epico 4-0 contro il Barcellona di Cruijff nella finale di Atene, per il calcio in generale si tratta di un punto di non ritorno. Per trasmettere alle nuove generazioni cosa abbia significato questa fine improvvisa e dolorosa, è sufficiente citare una frase di Carmelo Bene: “Il lutto per il ritiro di Van Basten non si è mai estinto e mai si estinguerà”. Non possiamo sapere se avrebbe potuto salire l’ultimo gradino che conduce alla perfezione e trascinare la Nazionale Olandese alla conquista del Mondiale che le manca; o se avrebbe incontrato, invece, un fisiologico declino sopraggiunto con l’avanzare dell’età. Quel che è certa è l’eredità di bellezza lasciata, a distanza di più di 20 anni da quel 17 agosto. Restano impresse in modo indelebile le immagini di giocate immortali, oltre al rammarico di essersi persi chissà quanta meraviglia rimasta ancora inespressa. E rimane anche, probabilmente, la consapevolezza che “uno come lui” ancora non lo abbiamo trovato.
128. La “finalina” per il terzo posto dei Mondiali è una strana bestia: in nessuna altra competizione sportiva il ko in semifinale lascia tanto amaro in bocca, e infatti alla vigilia nessuno sembra voglia giocare quella che appare come un’inutile passerella. Poi invece, in campo la sfida si riaccende, e almeno quella medaglia di bronzo si vuol provare ad afferrarla. Solitamente, chi arriva più scarico perde: accadde in tempi recenti a Bulgaria, Corea del Sud e Portogallo, già paghe della semifinale, è successo anche stavolta al Brasile, ma per motivi opposti. Dopo la più grande umiliazione di sempre per la Selecao, è arrivato un nuovo disastro di fronte agli orange alleggeriti dalla tensione della semifinale, e di nuovo micidiali in contropiede. L’immagine del portiere Cillessen seduto in stile giardini pubblici col supporto del palo, è indice di quel poco che è riuscito a creare il Brasile nelle due partite decisive, quelle che dovevano portarlo sulla strada dell’Hexa.
129. Non è stato “Maracanazo”, ma un’umiliazione ben diversa, che paradossalmente ha solleticato l’orgoglio della torcida, che per il senso del dramma tipicamente sudamericano, digerirà sempre meglio una profonda umiliazione che una sconfitta stile 1950, quando le mani erano già sulla coppa. E così al Maracanà, nonostante i tedeschi avessero inflitto loro la peggior sconfitta della storia, non ci sono stati dubbi. Il “nemico” era e restava l’Argentina, come testimoniato dal tifoso che non ha avuto paura di scatenarsi in mezzo agli “hinchas” dell’albiceleste.
130. L’Olanda ha piazzato un primato, facendo giocare tutti e 23 i convocati, prima squadra a mettere in atto una soluzione simile ai Mondiali. La squadra di Van Gaal partiva a fari spenti, l’impressione è che forse il bersaglio grosso si poteva afferrare più questa volta che 4 anni fa, quando la Spagna dava una sensazione di superiorità generale difficile da smentire. Ma un secondo e un terzo posto tra 2010 e 2014 dimostrano come la scuola dei Paesi Bassi sia sempre all’avanguardia. Da 40 anni il sogno è però sempre uno, e continua a sfuggire come una saponetta bagnata. Vedremo se dove non sono arrivati Cruijff, Van Basten e Robben, riusciranno finalmente ad arrivare i giovani fenomeni del futuro.
Germania – Argentina 1-0 dts
131. Come avviene ormai da Francia 1998, dire “ha vinto la squadra migliore” è consuetudine della finale. Dopo un secondo e due terzi posti, la Germania conquista il quarto titolo Mondiale, raggiungendo l’Italia e dando finalmente un senso a dodici anni di straordinaria continuità nella competizione. I tedeschi arrivavano in Brasile tra le favoritissime, ma hanno giocato un Mondiale un po’ col freno a mano tirato. Due strepitose prestazioni, contro il Portogallo (favorita però da un arbitraggio oltremodo severo con i lusitani) e soprattutto Brasile, la Partita della Storia di questo Mondiale, e un’eccellente prova contro la Francia. Ma il balbettare già visto contro Ghana ed Algeria si è ripetuto al cospetto degli argentini, in tre diverse occasioni capaci di graziare Neuer a tu per tu. Ha vinto quella che nell’ultimo decennio si è imposta come una scuola capace di arrivare sempre tra le prime quattro tra Mondiali ed Europei, dal 2006 in poi. Mancava la vittoria, ed è arrivata. Facendo cadere anche l’ultimo tabù: mai un’europea aveva vinto nel continente americano.
132. A decidere la partita, Mario Gotze, classe ’92, talento della new wave tedesca quest’anno passato dal Borussia Dortmund al Bayern Monaco, un po’ discontinuo, ma l’unico forse in grado di spezzare l’equilibrio che gli argentini avevano imposto al match. Ha deciso la partita su un assist di Schurrle, anche lui subentrato dalla panchina: segno che chi ha le alternative e le fa valere, spesso mette le mani sul piatto.
133. Dopo una stagione opaca nella Lazio, in molti pensavano che Miroslav Klose sarebbe stato un’alternativa di lusso per la Germania del “falso nueve” Muller. Invece il centravanti di origini polacche si è imposto da titolare, con la sua presenza come riferimento in avanti capace di far girare tutta la squadra. E’ arrivato anche il record di gol nei Mondiali, una storia fantastica se ci si pensa. Nel 2002, l’ultima finale giocata e persa dalla Germania, Klose era in campo. Quella partita fu vinta dal Brasile con doppietta di Ronaldo, lanciato a sua volta verso il sorpasso a Gerd Muller. Nel 2014, Klose si prende il primato come marcatore di tutti i tempi del Mondiale segnando il gol del sorpasso in semifinale al Brasile sotto gli occhi di Ronaldo… e in finale, conquista anche la Coppa, chiudendo un cerchio lungo dodici anni.
134. Non ci siamo dimenticati naturalmente di uno dei leit-motiv di questa rassegna iridata. Messi vs Maradona, un cavallo di battaglia che è venuto spontaneo cavalcare dopo l’eccellente girone eliminatorio disputato dalla “pulga”. Mai il quattro volte Pallone d’Oro aveva avuto un tale approccio ai Mondiali, e si era pensato che la prospettiva di riportare l’Argentina sul tetto del mondo nella tana del Brasile fosse troppo ghiotta per non sfruttarla. E invece, dopo la giocata ammazza-Svizzera nei supplementari degli ottavi, l’asso del Barcellona si è eclissato, sprecando il match-ball col Belgio, facendosi imbrigliare dalla gabbia di Van Gaal in semifinale, ed infine senza prendere per mano la squadra nell’appuntamento decisivo, con tanto di clamorosa occasione fallita a tu per tu con Neuer. L’occasione irripetibile è perduta: in Russia Messi potrà provare di nuovo, con ogni probabilità, a diventare campione del Mondo, ma difficilmente le porte dell’Olimpo, quello vero, dove solo cinque-sei calciatori sono stati finora ammessi, si apriranno per lui.
135. All’Argentina lo “scherzetto” di festeggiare al Maracanà non è riuscito davvero d’un soffio. Le occasioni mancate da Higuain, Messi e soprattutto Palacio agiteranno a lungo i sogni dei tifosi dell’albiceleste. Che si erano presentati dall’inizio dei Mondiali con questo irriverente coro verso i rivali di sempre: «Brasil, decime qué se siente; tener en casa a tu papá. Te juro que aunque pasen los años; nunca nos vamos a olvidar… Que el Diego te gambeteó, que Canni te vacunó; que estás llorando desde Italia hasta hoy. A Messi lo vas a ver, la Copa nos va a traer; Maradona es más grande que Pelé» (traduzione “Brasile, dimmi cosa senti ad avere in casa tuo papà / Ti giuro che anche se passano gli anni, non ci dimenticheremo mai / Che Diego ti ha dribblato, che Canni (Caniggia, ndr) ti ha infilzato, che stai piangendo da Italia ’90 / Ora vedrai Messi, la Coppa ci porterà, Maradona è più grande di Pelè“). Un tormentone che i giornali argentini hanno utilizzato anche dopo l’1-7 in semifinale: ovvio che dopo il gol di Gotze, sia arrivata la vendetta…
136. A proposito di tifo, cosa avrà mai fatto l’Argentina a Rihanna? In semifinale avevamo segnalato come la popstar si fosse schierata in favore degli olandesi, con un esperimento di photoshop riuscito solo in parte. I colori della bella cantante sono cambiati per la finale: presente al Maracanà, Rihanna ha tifato in maniera sfrenata per la Germania, con tanto di festeggiamenti finali con i giocatori. Difficile capire il perché, sono le stranezze della febbre-Mondiale.
137. Alla fine comunque, ha vinto questo signore qua. Grazie a tutti voi che avete seguito il “Contromondiale” di Storie Fuorigioco! Appuntamento in Russia, dai che tra 1419 giorni ci risiamo!
Il tempo è un narratore formidabile: col passare degli anni, alcuni aspetti delle varie vicende umane passano attraverso una lente deformante che porta a una vera e propria mitizzazione, spesso anche eccessiva, dei fatti. E’ perfettamente normale dunque che le imprese più recenti, anche nel calcio, abbiano bisogno di tempo per essere metabolizzate, e poi valutate secondo il loro giustopeso. Gli appassionati però sapevano benissimo che l’11 luglio del 2010, a Johannesburg, qualcosa nella storia del football sarebbe cambiato in maniera irreversibile.
Di fronte a giocarsi infatti il primo Mondiale africano della storia, c’erano due Nazionali abituate ad essere bollate come “eterne perdenti” nelle grandi competizioni nazionali. L’Olanda, a un passo dalla gloria già per due volte, nonostante sia stata capace a più riprese di fare scuola a livello internazionale, non è mai riuscita ad andare oltre una vittoria europea, quando la squadra di Van Basten, Gullit e Rijkaard era al massimo del suo splendore. Ancor peggiori i precedenti di una Spagna, abituata a dominare il calcio mondiale a livello di club sin dalla fine degli anni cinquanta, ma che rispetto agli olandesi non era mai neppure riuscita ad avvicinarsi al trionfo Mondiale. Il massimo, addirittura, fu il piazzamento tra le prime quattro nel ’50, incredibile per una nazione che, divisa da mille campanilismi, forse non si è maiidentificata al 100% nella “Roja“, troppo legata al potere centrale di Madrid, ma che vive da un secolo a pane e calcio, senza aver mai avuto una Nazionale davvero vincente.
Che qualcosa stia cambiando lo si era già capito due anni prima, quando all’alba del ciclo vincente del Grande Barcellona di Pep Guardiola, dopo 44 anni le furie rosse hanno rimesso le mani sul titolo europeo. Ma il Mondiale è un’altra cosa, e la Spagna mai è riuscita ad arrivare in finale. A Johannesburg è la prima volta, passando per delle soffertissime partite contro Paraguay e Germania, e persino una sconfitta all’esordio contro la Svizzera. Più deciso è stato il cammino degli orange, trascinati dalle prodezze di un Robben finalmente al 100% fisicamente, e di uno degli eroi del “triplete” dell’Inter, Wesley Sneijder. La vittoria contro il Brasile ha scatenato l’entusiasmo di una Nazione vendicando la sconfitta in semifinale del 1998, e gli osservatori concordano nel valutare come una squadra forte ma non eccezionale, potrebbe arrivare dove neppure Cruijff nel ’74 ed i tulipani milanisti all’alba degli anni ’90 sono mai riusciti ad arrampicarsi: in cima al mondo intero.
La finale dice però da subito che la cifra tecnica degli spagnoli è nettamente superiore, ma l’Olanda di Bert Van Marwijk ha preparato la partita nei più piccoli particolari. Il palleggio di Xavi, Iniesta, Xabi Alonso e Busquets viene soffocato sul nascere dal gioco duro degli olandesi, con un’entrata di Nigel De Jong su Xabi Alonso a gamba alta particolarmente impressionante. Per replicare il modello – Barcellona anche in Nazionale, a Vicente Del Bosque sull’altra panchina manca un Leo Messi (uno dei protagonisti mancati in Sudafrica, naufragato assieme a tutta l’Argentina allenata da Diego Armando Maradona). Pedro e Villa non riescono ad affondare come ci si aspetterebbe, e il destino della partita resta sul filo del rasoio.
Anzi, nel secondo tempo, come era prevedibile, è l’Olanda a trovare il contropiede giusto, con Robben lanciato verso Iker Casillas quasi a colposicuro. Il tentativo del fenomeno del Bayern Monaco si infrange però clamorosamente contro il portiere in uscita: è il momento in cui il destino decide di cambiare la storia calcistica della Spagna, e di mantenere immutata quella degli olandesi. Anche se comincia a farsi strada l’ipotesi rigori, visto che il risultato non si sblocca neanche ai tempi supplementari. Nei 10′ finali prima dei tiri dal dischetto, le certezze degli orange crollano: la squadra di Van Marwijk resta in dieci per l’espulsione di Heitinga, e al 116′ incassa la rete di “Don Andrés” Iniesta, uno dei migliori centrocampisti di tutti i tempi, penalizzato a livello “pubblicitario” dal suo carattere schivo. Scoppia una festa che per una volta unisce una Nazione dalla Castiglia alla Catalogna: la dedica finale di Iniesta a Dani Jarque, talento dell’Espanyol stroncato da un malore giovanissimo, è la celebrazione di una generazione che è riuscita a portare la Spagna dove neanche i grandissimi di cento anni di storia (e di sconfitte) l’avevano mai trascinata.
Nereo Rocco, Arrigo Sacchi e Massimiliano Allegri. Tre nomi di tecnici accomunati da un destino: quello di essere entrati nella storia del Milan grazie agli scudetti conquistati (ed anzi il “paròn” e il mago della zona hanno anche vissuto la consacrazione della Champions League), ma anche di essersi ritrovati di fronte a quella che per i tifosi rossoneri, è la nemesi per eccellenza: la “Fatal Verona“. E dire che con gli scaligeri assenti dalla Serie A negli ultimi undici anni, l’ultimo precedente era stato felice: anno 2002, gol di Andrea Pirlo alla penultima giornata che garantisce di fatto al “diavolo” la partecipazione alla Champions League dell’anno successivo: che il Milan vincerà. Fine di un incubo dunque? Neanche per sogno…
Tutto iniziò il 20 maggio del 1973: quattro giorni prima a Salonicco il Milan battendo il leggendario Leeds di Don Revie si era assicurato il trionfo europeo in Coppa delle Coppe, in una durissima finale. Ma la doppietta era alla portata: all’ultima giornata di campionato, in un Bentegodi invaso dai tifosi rossoneri, il Milan si presenta primo in classifica, con un punto di vantaggio su Lazio e Juventus. Una vittoria significherebbe scudetto. Ma i rossoneri sono agonisticamente sfiancati dalla battaglia greca, ed il Verona, sfrontato e per nulla demotivato dal non avere più obiettivi di classifica, si scatena andando in gol tre volte in mezz’ora, grazie a Sirena, un’autorete di Sabadini e Luppi. Rosato accorcia prima dell’intervallo, mentre l’Olimpico di Roma ed il San Paolo di Napoli, dove Juventus e Lazio stanno giocando, fremono alla possibilità di strappare un tricolore che sembrava già cucito sulle maglie rossonere.
Alla fine sarà cinque a tre, con gli ultimi due gol milanisti, segnati negli ultimi dieci minuti, a giochi già fatti. Uno psicodramma a tinte rossonere, mentre la Roma si fa arrendevolmente rimontare da una Juventus che aveva chiuso il primo tempo in svantaggio, forse per evitare complicazioni per uno scudetto che i rivali cittadini avrebbero comunque perso a causa del gol di Damiani a due minuti dal termine del match del San Paolo. Ed è la Juventus a festeggiare, così come diciassette anni dopo, toccherà al Napoli raccogliere l’inaspettato regalo in arrivo da Verona. Nell’anno dei Mondiali del 1990 il calcio italiano è al massimo del suo splendore, e il campionato è acceso dal testa a testa tra Napoli e Milan per il titolo. Le due squadre si presentano alla penultima giornata a pari punti, ma mentre il Napoli va a far visita ad un Bologna tranquillo, e vincerà senza problemi, il Milan si ritrova di fronte l’incubo Bentegodi ed una squadra nell’occasione affamata di punti salvezza.
E’ il grande Milan di Sacchi e degli olandesi, ed il Verona ha un piede e mezzo in Serie B: quando nel primo tempo Marco Simone sblocca il risultato per i rossoneri, lo spareggio sembra messo in cassaforte. Ma al Milan saltano i nervi e le gambe, come diciassette anni prima. Sacchi protesta per un rigore non concesso a Van Basten e viene espulso, mentre nel secondo tempo Pellegrini e Sotomayorribaltano clamorosamente il risultato, mentre il Milan in preda ad una crisi isterica finisce la partita in otto per le espulsioni di Rijkaard, Van Basten e Costacurta. Lo scudetto prende la via di Napoli, tra lo stupore generale. Il resto è storia dei giorni nostri, con Luca Toni capace di ritrovare lo smalto dei tempi del Mondiale 2006, ed affondare dopo oltre un decennio di assenza dal massimo campionato dell’Hellas la squadra di Allegri. A quarant’anni di distanza dal “peccato originale“, la Fatal Verona resta un’ossessione per la Milano rossonera.
Ci sono storie che assomigliano a favole. Fasi della vita in cui l’apice del successo professionale e i drammi più crudeli coincidono nel volgere di pochi giorni. Torniamo indietro di quasi 21 anni e andiamo con la mente alla primavera del 1992. Oltre il mar Adriatico è in atto una guerra civile che sta dilaniando un popolo intero, oramai sbriciolato tra svariate etnie differenti. Gli Europei di calcio sono alle porte, ma la Jugoslavia si sta per dissolvere e una Risoluzione dell’Onu proibisce alla Nazionale di prendere parte a qualsiasi manifestazionesportiva.
Tocca allora alla Danimarca di Richard Møller-Nielsen subentrare a pochi giorni dal via, senza alcuna preparazione fisica adeguata e con i giocatori già in vacanza dopo la fine del campionato. Tra l’altro, non è uno dei periodi migliori per la rappresentativa scandinava, visti i non ottimi rapporti tra il tecnico e il giocatore più rappresentativo, Michael Laudrup, cha ha già lasciato la Nazionale da qualche tempo. Nonostante tutto, complice la vicinanza con la Svezia, paese ospitante della massima manifestazione continentale, la squadra si presenta per onorare l’impegno, conscia di andare a recitare, con ogni probabilità, un ruolo da Cenerentola.
Il girone in cui è inserita, tra l’altro, è di quelli di ferro: i padroni di casa svedesi, l’Inghilterra e la Francia a contendere i due posti utili d’accesso alle semifinali. Però, si sa, a volte il calcio riesce ad essere bizzarro, e dopo un pareggio a reti bianche contro gli inglesi al primo turno e una sconfitta di misura contro la Svezia nella seconda gara, è la vittoria per 2-1 contro i francesi a regalare l’accesso tra le prime 4 d’Europa. Essere arrivati a giocarsi la semifinale contro i Campioni d’Europa in carica dell’Olanda è già una conquista impensabile a inizio torneo, ma anche questo ostacolo viene superato, dopo una battaglia finita 2-2 ai tempi supplementari e vinta ai rigori grazie all’errore dal dischetto di un certo Marco Van Basten.
Una squadra con alcuni buoni giocatori, su tutti lo storico portiere del Manchester United Peter Schmeichel, Brian Laudrup e la punta Poulsen, e altri comprimari sconosciuti ai grandi palcoscenici, è arrivata a giocarsi il titolo contro la Nazionale Campione del Mondo in carica, la Germania. Ed è qui che la storia di questa splendida Cenerentola si intreccia con quella di un suo calciatore: il centrocampista Kim Vilfort. Un comprimario, appunto. Uno di quelli dai piedi non gentili, ma con i polmoni inesauribili e sempre pronto a scaricare il contachilometri alla fine di ogni partita. Uno che sta dando il 100% per la sua Nazione insieme ai propri compagni, ma che, personalmente, sta vivendo l’esame più atroce che la vita può porre di fronte ad un uomo: la perdita di un figlio.
Infatti, la piccola Line, di soli otto anni, è ricoverata in Danimarca a causa di una leucemia, e lui, al termine di ogni partita, non rinuncia a precipitarsi in Patria per assisterla. Nonostante il dramma, gioca regolarmente la finale di Goteborg, in cui segna la rete del 2-0, dopo l’iniziale vantaggio di Jensen, che mette fine alle speranze dell’armata tedesca. L’esultanza quasi timida per un gol irreale, con tutti i suoi compagni che gli corrono vicino come per proteggerlo, con un abbraccio tanto voluto, quanto infinito, rappresenta una delle fotografie più belle nella storia del calcio. Un solo momento di gioia in cui viene allontanata per un attimo un’atrocità che si consumerà di lì a poche settimane, con la scomparsa della piccola. Con una guerra civile sullo sfondo, lontana migliaia di chilometri, che ha fatto sì che una Cenerentola, per una notte, potesse diventare la Regina più bella d’Europa. E, soprattutto, per l’orgoglio di un padre al quale il caso ha concesso l’opportunità di una vita. Quella di raccontare una storia. Magica come le fiabe, ma vera come la realtà delle cose.
“Ma che hai fatto? Che hai fatto???” L’entusiasmo di Bobo Vieri, quasi fanciullesco, faceva forse parte del carattere di un personaggio che, tra gli spigoli della sua indole, ha sempre mostrato di divertirsi, giocando a pallone. Ma quella sera, correndo incontro la compagno di squadra che aveva appena siglato il gol del vantaggio, non aveva fatto altro che esternare il pensiero di milioni di persone che, quel gol, l’avevano visto in diretta televisiva.
“Il gol più bello della storia”, fu il titolo dell’editoriale dell’allora direttore del Corriere dello Sport, Mario Sconcerti, il lunedì successivo alla partita. Forse iperbolico, ma senza mettersi a questionare sullo slalom di Diego Armando Maradona a Messico ’86 contro l’Inghilterra, sulla rovesciata del cigno di Marco Van Basten nella finalissima di Euro ’88, o sulle prodezze di Roberto Baggio, Pelè, Ronaldo, Messi o chi per loro, va detto che il colpo di tacco con il quale Roberto Mancini, con indosso la maglia della Lazio, ammutolì il “Tardini” di Parma in una sfida-scudetto del 1999, fu l’apoteosi del gesto tecnico in questione. Cross da calcio d’angolo ed impatto perfetto con il pallone, spalle alla porta, con sfera piazzata all‘incrocio dei pali, dove Gianluigi Buffon, allora estremo difensore degli emiliani e già della Nazionale, proprio non poteva arrivare.
In quegli anni Buffon aveva un conto aperto con la Lazio: neanche un anno dopo dal colpo di tacco di Mancini, subì un clamoroso gol da quasi 40 metri dal mediano biancoceleste Almeyda, una prodezza al volo irripetibile per l’interditore argentino, polmonipoderosi ma piedi poco nobili, ma forse per chiunque. Ma quel colpo di tacco fu una magia improvvisa, in una partita fino a quel momento equilibrata tra due squadre che si stavano giocando il primo posto. Una nuova scala del calcio, composta in quella stagione anche dalla Fiorentina allenata da Trapattoni, che si fece beffare sul filo di lana dal Milan di Zaccheroni, forse il più sparagnino della storia, ma trascinato da una forza irresistibile, quella della sorte, verso il suo sedicesimo scudetto.
La Lazio si riprenderà dalla delusione l’anno successivo, quello della pioggia di Perugia. Ma se si parla con la maggioranza dei tifosi biancocelesti, quasi tutti diranno che era quella squadra, quella che vinse a Parma con il colpo folle di Mancini, la più forte in assoluto della pur munifica gestione Cragnotti. In quella stagione e all’alba di quella successiva arrivarono due trofei europei a stretto giro di tempo, ma non lo scudetto, anche se la notte del “Tardini” sembrava spalancare a quella formazione qualunque possibilità. Mancini segnò il secondo gol laziale, ma quella partita finì tre a uno: il tris lo firmò proprio Vieri, conclusione di collo pieno, potentissima, alle spalle di Buffon nel finale di partita. Dopo quel gol, Bobo prese il pallone e se lo portò via, come per dire: dopo quello che vi abbiamo fatto vedere, questo ce lo portiamo a casa noi. E se non fu il più bello della storia, poco ci mancò…
Dai tempi della mitica Olanda del ’74 fino alla rivoluzione sacchiana, il gioco a zona ha provato in più fasi a fornire nuovi modi per leggere il gioco del calcio. Un’epoca non sempre approfondita a dovere, nella prima metà degli anni ’80, è quella segnata dalla nazionale sovietica allenata da Valerij Lobanovski, il “colonnello” al quale hanno dedicato anche una statua, a Kiev. Una nazionale, l’ultima grande URSS prima dello scioglimento del colosso sovietico, che ha provato a rivisitare gli schemiclassici del football attingendo a quello straordinario laboratorio che è stata la Dinamo Kiev allenata proprio da Lobanovski, prima dell’approdo in nazionale.
Lobanovski rimase alla guida della Dinamo anche quando fu chiamato per far ottenere alla selezione sovietica quegli allori che non era mai riuscita a conquistare in ambito internazionale, fatta eccezione per il titolo europeo del 1960, quando la rassegna continentale era ancora agli albori. La Dinamo nel 1975 era stata la prima formazione dell’URSS a conquistare un trofeo in Europa, la Coppa delle Coppe vinta in finale contro gli ungheresi del Ferencvaros. Quindi nella stessa competizione arrivò il bis nel 1986 contro l’Atletico Madrid, proprio alla vigilia del mondiale messicano che doveva consacrare l’URSS di Lobanovski agli occhi del mondo intero.
Quella squadra era stata costruita per vincere: un mix di una generazione d’oro di talenti russi ed ucraini, perfettamente amalgamati insieme dagli schemi del “colonnello”. Solo per citarne alcuni: il portiere RinatDasaev, strepitoso tra i pali, che per alcuni stava facendo rivivere il mito di Lev Jašin. Il talento cristallino di Oleh Blochin, Pallone d’Oro 1975, nel pieno della maturità. La potenza dirompente di Oleh Protasov, che si contendeva secondo molti il titolo di miglior centravanti europeo assieme all’allora astro nascente dell’Ajax, Marco Van Basten. E poi la velocità di Hennadij Lytovčenko, e l’imprevedibilità di Oleksandr Zavarov, che per molti incarnava il prototipo del fantasistamoderno.
Per questa squadra Lobanovski aveva studiato una rivisitazione del calcio totale, nel vero senso della parola. Una zona a tutto campo libera dalla schiavitù dei ruoli, che permetteva sortite offensive ai difensori ed efficaci ripiegamenti anche per gli uomini d’attacco. Un moto perpetuo che rese l’URSS la migliore formazione della prima fase del Mondiale 1986, forse la più seria candidata al titolo, anche più della Germania Ovest, dell’Argentina a detta di molti troppo dipendente da Maradona e della Francia, spumeggiante e guidata da Platini, ma troppo incostante negli appuntamenti che contavano.
La doccia fredda arrivò negli ottavi di finale, in una partita di strepitosa bellezza contro il Belgio, ma viziata da un arbitraggio che penalizzò in maniera scandalosa i sovietici, che si videro convalidati a sfavore due gol in clamoroso fuorigioco. La polemica fu grande, ma le prodezze di Maradona fecero dimenticare in fretta quello che l’URSS aveva saputo proporre. Quella squadra, ancora al pieno della potenza, sfiorò la gloria agli Europei del 1988, eliminando l’Italia in semifinale ma cadendo a Monaco di Baviera nel match per il titolo contro la favolosa Olanda di Gullit, Rijkaard e Van Basten, che segnò in quella sfida a Dasaev il gol più bello della sua carriera. Il canto del cigno arrivò con i Mondiali del 1990: l’utopia di Lobanovski e quella dell’URSS si spensero quasi contemporaneamente, ma il “colonnello” trovò nuova gloria ancora con la Dinamo Kiev, lanciando alla fine degli anni ’90 l’ultimo fenomeno della sua carriera: Andrij Ševčenko.