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Francois Omam-Biyik, il salto del calcio africano oltre la propria storia

di Fabio BELLI

Il Mondiale del 1990 è stato un evento indimenticabile per gli appassionati di calcio. Un football all’epoca pieno zeppo di campioni, Maradona nell’Argentina, Roberto Baggio nell’Italia, l’Olanda di Van Basten e Gullit, i tedeschi, il Brasile dell’astro nascente Romario… insomma, un’epoca d’oro che andava a chiudere un decennio pieno di fantasia e di colori come gli anni ’80. E proprio al Pibe de Oro, in qualità di calciatore più forte del mondo e di campione iridato in carica, toccò aprire le danze del mondiale italiano nella partita inaugurale disputata al Meazza di Milano contro il Camerun.

Il calcio africano iniziava appena ad uscire dall’aspetto “pittoresco” che ne aveva contraddistinto la sua permanenza nelle competizioni internazionali dei precedenti vent’anni. Il Camerun era alla seconda partecipazione ai Mondiali e nel 1982 fece tremare gli azzurri poi Campioni del Mondo, uscendo imbattuto dal girone eliminatorio di Vigo dopo un 1-1 da batticuore contro l’Italia. Ma le prime vere squadre-sensazione del continente africano ai Mondiali furono l’Algeria nel 1982, trascinata dal “tacco di Allah” Madjer ed estromessa da un vero “biscotto” tra Austria e Germania ed il Marocco nel 1986, esaltato dai numeri degli estrosi Timoumi e Bouderbala nonché prima squadra del Continente Nero capace di superare il primo turno in un Campionato del Mondo. Il Camerun, sempre guidato in campo dall’ormai trentottenne Roger Milla, sembrava dunque la vittima sacrificale contro l’Argentina di Dieguito e Caniggia poi destinata ad arrivare di nuovo all‘atto finale della competizione.

Eppure proprio da quella partita gli sportivi di tutto il mondo inizieranno ad amare e sostenere i “Leoni Indomabili“, una generazione di calciatori che trovò le sue espressioni più talentuose nel portiere Tomas N’Kono, forgiato da anni passati nella Liga spagnola, e dallo stesso Milla, uno dei più forti attaccanti africani di tutti i tempi. Ma saranno anche tutti gli altri elementi in rosa a farsi conoscere e a conquistare le folle. A partire da quella di San Siro assolutamente incredula, dopo il fischio d’inizio, nel vedere Maradona e compagni stentare di fronte alla straripante forza atletica e alle accelerazioni devastanti del Camerun. Il tifo si schiera ben presto a favore dei “leoni indomabili”, ma la legge del più forte e del pronostico sembra compiersi inesorabilmente quando André Kana-Biyik si fa espellere lasciando il Camerun in inferiorità numerica.

Ma è a questo punto che si compie uno di quei miracoli che rendono unico il calcio: Makanaky scodella un pallone in area sul quale Francois Omam-Biyik si avventa saltando oltre le umane possibilità, come sembra evidente agli spettatori che in tutto il mondo seguono l’evento. Il portiere Pumpido, sorpreso quando ormai pensava che l’avversario non sarebbe mai arrivato all’impatto sul pallone, si lascia beffare ed il pallone si insacca in rete. E’ il gol che cambia il calcio internazionale e che apre una nuova frontiera nella quale il Camerun diverrà la prima squadra africana a piazzarsi tra le prime otto del mondo e che, soprattutto, rende la Coppa del Mondo un evento di massa anche in Africa. Nella capitale del Camerun, Yaoundè, il delirio provocato dal gol di Omam-Biyik proseguirà tutta la notte visto che i Leoni Indomabili, nonostante la chiusura del match in nove contro undici, portano a casa la vittoria contro i campioni del mondo in carica.

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Calciatori Fabio Belli

Roberto Mancini e il colpo di tacco che fece la storia al “Tardini”

di Fabio Belli

“Ma che hai fatto? Che hai fatto???” L’entusiasmo di Bobo Vieri, quasi fanciullesco, faceva forse parte del carattere di un personaggio che, tra gli spigoli della sua indole, ha sempre mostrato di divertirsi, giocando a pallone. Ma quella sera, correndo incontro la compagno di squadra che aveva appena siglato il gol del vantaggio, non aveva fatto altro che esternare il pensiero di milioni di persone che, quel gol, l’avevano visto in diretta televisiva.

“Il gol più bello della storia”, fu il titolo dell’editoriale dell’allora direttore del Corriere dello Sport, Mario Sconcerti, il lunedì successivo alla partita. Forse iperbolico, ma senza mettersi a questionare sullo slalom di Diego Armando Maradona a Messico ’86 contro l’Inghilterra, sulla rovesciata del cigno di Marco Van Basten nella finalissima di Euro ’88, o sulle prodezze di Roberto Baggio, Pelè, Ronaldo, Messi o chi per loro, va detto che il colpo di tacco con il quale Roberto Mancini, con indosso la maglia della Lazio, ammutolì il “Tardini” di Parma in una sfida-scudetto del 1999, fu l’apoteosi del gesto tecnico in questione. Cross da calcio d’angolo ed impatto perfetto con il pallone, spalle alla porta, con sfera piazzata all‘incrocio dei pali, dove Gianluigi Buffon, allora estremo difensore degli emiliani e già della Nazionale, proprio non poteva arrivare.

In quegli anni Buffon aveva un conto aperto con la Lazio: neanche un anno dopo dal colpo di tacco di Mancini, subì un clamoroso gol da quasi 40 metri dal mediano biancoceleste Almeyda, una prodezza al volo irripetibile per l’interditore argentino, polmoni poderosi ma piedi poco nobili, ma forse per chiunque. Ma quel colpo di tacco fu una magia improvvisa, in una partita fino a quel momento equilibrata tra due squadre che si stavano giocando il primo posto. Una nuova scala del calcio, composta in quella stagione anche dalla Fiorentina allenata da Trapattoni, che si fece beffare sul filo di lana dal Milan di Zaccheroni, forse il più sparagnino della storia, ma trascinato da una forza irresistibile, quella della sorte, verso il suo sedicesimo scudetto.

La Lazio si riprenderà dalla delusione l’anno successivo, quello della pioggia di Perugia. Ma se si parla con la maggioranza dei tifosi biancocelesti, quasi tutti diranno che era quella squadra, quella che vinse a Parma con il colpo folle di Mancini, la più forte in assoluto della pur munifica gestione Cragnotti. In quella stagione e all’alba di quella successiva arrivarono due trofei europei a stretto giro di tempo, ma non lo scudetto, anche se la notte del “Tardini” sembrava spalancare a quella formazione qualunque possibilità. Mancini segnò il secondo gol laziale, ma quella partita finì tre a uno: il tris lo firmò proprio Vieri, conclusione di collo pieno, potentissima, alle spalle di Buffon nel finale di partita. Dopo quel gol, Bobo prese il pallone e se lo portò via, come per dire: dopo quello che vi abbiamo fatto vedere, questo ce lo portiamo a casa noi. E se non fu il più bello della storia, poco ci mancò…

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Allenatori Fabio Belli Nazionali

Il calcio universale dell’URSS di Valerij Lobanovski

di Fabio Belli

Dai tempi della mitica Olanda del ’74 fino alla rivoluzione sacchiana, il gioco a zona ha provato in più fasi a fornire nuovi modi per leggere il gioco del calcio. Un’epoca non sempre approfondita a dovere, nella prima metà degli anni ’80, è quella segnata dalla nazionale sovietica allenata da Valerij Lobanovski, il “colonnello” al quale hanno dedicato anche una statua, a Kiev. Una nazionale, l’ultima grande URSS prima dello scioglimento del colosso sovietico, che ha provato a rivisitare gli schemi classici del football attingendo a quello straordinario laboratorio che è stata la Dinamo Kiev allenata proprio da Lobanovski, prima dell’approdo in nazionale.

Lobanovski rimase alla guida della Dinamo anche quando fu chiamato per far ottenere alla selezione sovietica quegli allori che non era mai riuscita a conquistare in ambito internazionale, fatta eccezione per il titolo europeo del 1960, quando la rassegna continentale era ancora agli albori. La Dinamo nel 1975 era stata la prima formazione dell’URSS a conquistare un trofeo in Europa, la Coppa delle Coppe vinta in finale contro gli ungheresi del Ferencvaros. Quindi nella stessa competizione arrivò il bis nel 1986 contro l’Atletico Madrid, proprio alla vigilia del mondiale messicano che doveva consacrare l’URSS di Lobanovski agli occhi del mondo intero.

Quella squadra era stata costruita per vincere: un mix di una generazione d’oro di talenti russi ed ucraini, perfettamente amalgamati insieme dagli schemi del “colonnello”. Solo per citarne alcuni: il portiere Rinat Dasaev, strepitoso tra i pali, che per alcuni stava facendo rivivere il mito di Lev Jašin. Il talento cristallino di Oleh Blochin, Pallone d’Oro 1975, nel pieno della maturità. La potenza dirompente di Oleh Protasov, che si contendeva secondo molti il titolo di miglior centravanti europeo assieme all’allora astro nascente dell’Ajax, Marco Van Basten. E poi la velocità di Hennadij Lytovčenko, e l’imprevedibilità di Oleksandr Zavarov, che per molti incarnava il prototipo del fantasista moderno.

Per questa squadra Lobanovski aveva studiato una rivisitazione del calcio totale, nel vero senso della parola. Una zona a tutto campo libera dalla schiavitù dei ruoli, che permetteva sortite offensive ai difensori ed efficaci ripiegamenti anche per gli uomini d’attacco. Un moto perpetuo che rese l’URSS la migliore formazione della prima fase del Mondiale 1986, forse la più seria candidata al titolo, anche più della Germania Ovest, dell’Argentina a detta di molti troppo dipendente da Maradona e della Francia, spumeggiante e guidata da Platini, ma troppo incostante negli appuntamenti che contavano.

La doccia fredda arrivò negli ottavi di finale, in una partita di strepitosa bellezza contro il Belgio, ma viziata da un arbitraggio che penalizzò in maniera scandalosa i sovietici, che si videro convalidati a sfavore due gol in clamoroso fuorigioco. La polemica fu grande, ma le prodezze di Maradona fecero dimenticare in fretta quello che l’URSS aveva saputo proporre. Quella squadra, ancora al pieno della potenza, sfiorò la gloria agli Europei del 1988, eliminando l’Italia in semifinale ma cadendo a Monaco di Baviera nel match per il titolo contro la favolosa Olanda di Gullit, Rijkaard e Van Basten, che segnò in quella sfida a Dasaev il gol più bello della sua carriera. Il canto del cigno arrivò con i Mondiali del 1990: l’utopia di Lobanovski e quella dell’URSS si spensero quasi contemporaneamente, ma il “colonnello” trovò nuova gloria ancora con la Dinamo Kiev, lanciando alla fine degli anni ’90 l’ultimo fenomeno della sua carriera: Andrij Ševčenko.

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Prima di Maradona, Leo Messi ha un mito in casa da inseguire: Paulino Alcantara, il recordman degli albori del Barcellona

di Fabio Belli

I numeri di Leo Messi stanno sbalordendo il mondo, e la conquista di tre Palloni d’Oro di fila è abbastanza eloquente riguardo le capacità dell’asso argentino. Che Messi stia inseguendo il  di Diego Armando Maradona non è al tempo stesso un mistero, e se alla pulce manca forse solo la consacrazione in nazionale per affiancarsi all’icona assoluta del calcio mondiale che il Pibe de Oro rappresenta, va detto che sono invece ancora circa un centinaio le reti che lo separano dal totem da inseguire all’interno del suo club, il Barcellona.

In pochi infatti sanno che nonostante Messi sia ormai lanciato verso la polverizzazione di ogni primato in blaugrana, meglio di lui e di chiunque altro abbia mai indossato la casacca culè ha fatto un mito del calcio spagnolo dei primordi, negli anni addirittura antecedenti alla nascita di un vero campionato nazionale spagnolo, attualmente ancora conosciuto come la Liga. Stiamo parlando di Paulino Alcantara, che oltre allo strepitoso primato di 356 reti in 357 apparizioni con la maglia del Barcellona (praticamente, un gol a partita), ha anche dalla sua il fatto di essere stato il primo calciatore asiatico ad aver giocato a calcio in un club professionista europeo.

Eh già, perchè Paulino è nato in realtà ad Iloilo, nelle Filippine, alla fine del diciannovesimo secolo, nel 1896. Di sangue catalano da parte di padre, un militare di stanza nelle isole che allora erano colonia spagnola, è ricordato dunque per essere il miglior marcatore di tutti i tempi del Barcellona, avendo realizzato le sopracitate 357 reti tra il 1912 ed il 1927. Come se non bastasse, detiene il primato di debuttante e marcatore più giovane nella storia del Barcellona, avendo realizzato tre gol all’esordio con la squadra azulgrana, quando aveva appena 16 anni, 7 mesi e 26 giorni.

Nonostante la Liga sia iniziata ufficialmente solo nel 1928, un anno dopo la fine della sua attività agonistica, Paulino Alcantara ha potuto alzare al cielo in maglia blaugrana ben 5 Coppe di Spagna, ed ha trionfato in dieci campionati catalani. Un palmares di tutto rispetto, rimpinguato anche dalle presenze nella nazionale filippina, e poi, dopo la definitiva naturalizzazione spagnola, anche tra le Furie Rosse, delle quali fu anche Commissario Tecnico all’inizio degli anni ’50. Un simbolo autentico dei tempi dei pionieri del calcio spagnolo, con buona pace dello straordinario Leo Messi, che prima di dedicarsi alla scalata al trono di Maradona, deve ricordarsi di avercelo anche in casa, il mito da inseguire.

(si ringrazia Gian Marco Ventura)