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Club Fabio Belli

Rayo Vallecano, i Matagigantes

di Fabio BELLI

Madrid è una città nella quale si respira calcio ventiquattro ore al giorno. Tanti sono i fattori concomitanti che portano a questa passione, di sicuro nella capitale spagnola la storia del football è stata scritta dalla leggenda del Real Madrid ma, alle spalle delle merengues, il cammino dell’Atletico parla di una squadra capace spesso di stravincere in patria ed anche in Europa. Tanto che Madrid è l’unica capitale europea a vantare la presenza di due squadre Campioni del Mondo per Club. In questo scenario fatto di decine e decine di titoli nazionali e internazionali conquistati dalle due formazioni, fa impressione pensare all’esistenza di un piccolo club, in uno stadio ancor più minuscolo che ricorda i catini sudamericani di provincia degli anni ‘70, che è riuscito a ritagliarsi il suo spazio nel calcio dei grandi.

Schermata 03-2456374 alle 19.08.39Il Rayo Vallecano è la terza squadra di Madrid per risultati, ma probabilmente la prima per determinazione e forza di volontà. Il soprannome dei giocatori del Rayo da sempre è “Matagigantes“, ammazzagrandi, coniato nell’anno della prima promozione nella Liga, stagione 1977/78. I giganti del calcio spagnolo cominciarono infatti a fare i conti con quella squadra che, con una maglia che si dice sia un omaggio a quella del River Plate ed il segno distintivo di un’ape disegnata sul petto (a volte anche grandissima, come negli anni ’80), con un budget mostruosamente inferiore a quello delle big, riusciva spesso ad ottenere risultati sbalorditivi. Come negli anni ’90, quando la squadra che vantava gioielli come Toni Polster e Hugo Sanchez, ex leggenda del Santiago Bernabeu, si divertiva ad impallinare Barcellona e Real Madrid. Storiche sono le vittorie casalinghe contro il Real, 2-0 nel 1992/93 e di misura il 19 febbraio del 1997, 1-0, fino al successo nell’ultimo scontro finora disputato in campionato contro le merengues, sempre per 1-0 nel 2019. Ancor di più lo fu però la prima vittoria di sempre al Bernabeu, stagione 1995/96, 2-1 per il Rayo, con gol decisivo rimasto nella storia del brasiliano Guilherme. Il Camp Nou venne invece espugnato per la prima ed ultima volta alla terzultima giornata del campionato 1999/00, il migliore della storia del Rayo con la qualificazione in Coppa UEFA, 2-0 e blaugrana ammutoliti.

Fuochi di gloria in una storia ricca anche di sofferenze, fino alla caduta in terza divisione dalla quale il Rayo si è poi risollevato tornando a giocare nella Liga, per poi retrocedere di nuovo in “Segunda” nella scorsa stagione. Sofferenze che vanno di pari passo con l’anima proletaria della squadra: l’ape sulla maglia del Rayo non è regina ma operaia, così come popolati da operai sono gli alveari di Vallecas, il quartiere dormitorio col reddito medio più basso di Madrid, dove sorge lo stadio Teresa Rivero, il catino di cui sopra intitolato alla madrepadrona del Rayo, tredici figli, trentasei nipoti ed un marito curiosamente esponente dell’ultradestra, in un ambiente assolutamente legato, dalla tifoseria in primis, all’estrema sinistra. Il “Teresa Rivero” nel 2001 ha visto i quarti di finale di Coppa UEFA, ma anche partite di terza divisione, retrocessioni e dure sconfitte contro le ricchissime formazioni rivali, così come il quartiere di Vallecas è fatto di orgoglio operaio, grandissima dignità ma anche povertà e disagio. Il fatto però che una realtà come il Rayo resista anche nel moderno calcio ultramiliardario, e che campioni come Cristiano Ronaldo e Messi siano stati costretti nella loro carriera farsi piccoli, ed entrare nei portoncini stile campetto di periferia del “Teresa Rivero” per strappare i loro faraonici ingaggi, resta uno degli aspetti più belli non solo del football, ma di tutto lo sport moderno.

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Club Fabio Belli

Storia del “Tamudazo”. Ovvero: l’orgoglio di tifare Espanyol

di Fabio Belli

Tifare Espanyol a Barcellona non è affatto un supplizio come si potrebbe credere paragonandone il palmares con i rivali cittadini del Barca. E’ una scelta di orgoglio e distinzione in cui la voglia di rivendicare l’appartenenza alla Spagna, intesa come nazione, è forte ma non porta certo a rinnegare le radici Catalane. E’ la consapevolezza di appartenere ad una comunità che non si contrappone agli avversari di sempre ma si diversifica. Significa possedere uno stadio, il “Cornellà-El Prat” (o RCDE Stadium) ed un modello di settore giovanile invidiato in Europa oltre che in tutta la Spagna.

Certo, i vertici toccati dal Barca restano un sogno, ma le quattro Coppe del Re, le due finali di Coppa UEFA e le 84 stagioni di Primera Division disputate nella storia fanno dell’Espanyol uno dei principali club iberici. Questo nonostante la forbice a livello tecnico e soprattutto mediatico con i rivali blaugrana si sia allargata come non mai negli ultimi anni. Pochi anni fa il Barcellona di Guardiola è stato considerato da molti uno dei club più forti di tutti i tempi. Questo a torto o a ragione ma, comunque, si tratta di un livello sul quale il piccolo Espanyol non può neppure sognare di issarsi. Un divario che ha avuto anche le sue ripercussioni sui derby, con le vittorie dei biancazzurri sempre più rare e, per questo, ancor più gustose, come quella al Camp Nou (l’ultima ottenuta in casa del Barcellona, finora) contraddistinta da una doppietta di Ivan De la Pena.

In questo scenario anche “certi” pareggi possono valere come una vittoria. Come quello con il gol di Alvaro che ha impedito dal Barca di espugnare El Prat. O quello celebre nella stagione 2006/07 quando un gol di una delle bandiere dell’Espanyol, Raul Tamudo, costò al Barcellona di Rijkaard la Liga. Il famosissimo Tamudazo, col Real Madrid di Capello ed il Barca in lotta per il titolo e il Siviglia terzo incomodo ma alla fine leggermente staccatosi nelle ultimissime giornate. Il Madrid pur con qualche fatica pareggiò con il Saragozza grazie alle prodezze di Van Nistelrooy mentre al Camp Nou era in programma il derby. Il Barcellona si portò avanti anche grazie ad un contestatissimo gol di Messi (effettivamente realizzato con una mano) e sul 2-1 era più che mai in lotta per il titolo.

All’Espanyol l’irregolarità non andò giù: spianare la strada verso il titolo ai rivali di sempre è già un boccone amaro da digerire, farlo subendo un’ingiustizia, poi… E allora la storia finì col compiersi quasi allo scadere della partita: palla tagliata dalla destra, Tamudo elude il fuorigioco e con un delizioso tocco brucia il portiere in uscita. “Que locura!” commentarono i cronisti spagnoli visto che il pari dell’Espanyol arrivò contemporaneamente al pari di Van Nistelrooy a Saragozza, mantenendo inalterate le distanze tra Real e Barcellona a favore dei Blancos. E’ il gol che appunto passerà alla storia come il “Tamudazo”, che fece esplodere la gioia non solo dei tifosi Pericos ma anche dei madridisti che videro materializzarsi a un passo la vittoria nella Liga che soffiarono al Barca allora Campione d’Europa in carica. E in un solo gol venne dunque racchiuso tutto il gusto di tifare Espanyol: essere il topolino che terrorizza e a volte atterra l’elefante.

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Allenatori

Juan Antonio Pizzi: il “Pichichi” del Tenerife diventato CT (VIDEO)

di Alessandro IACOBELLI

La globalizzazione del calcio è ormai consuetudine. Nella multi etnicità di questo meraviglioso sport può allora capitare di vedere un argentino, anzi spagnolo, in Arabia Saudita. Il suo nome è Juan Antonio Pizzi. Certo, l’apparizione della nazionale bianco-verde ai Mondiali russi non è stata proprio entusiasmante. La perla del pedagogista De Cubertin risulta quindi più che mai adatta.

Eppure il buon Juan è stato capace di portare il Cile sul tetto della Copa America nel 2016. La gavetta è un suo marchio di fabbrica. Forse una scusa per girare il mondo. Guida in principio il Colon in Argentina per poi visitare gran parte del Sud America tra Perù e Cile. Allena con alterne fortune USM Porres, S. Morning e CD Universidad Catòlica. Nel 2011 il ritorno nella terra madre al timone di Rosario prima e San Lorenzo poi. Dal gennaio 2014 sposa il progetto del Valencia. Il ritorno in Liga dura però solo sei mesi con un feeling mai nato realmente. Torna in sella volando in Messico al comando del León.

La chiamata della svolta deve ancora giungere. Nel febbraio 2016 ecco la federazione cilena. La seconda Copa America è un obiettivo non troppo nascosto. Il 4-3-3 è ordinato, aggressivo e pure spettacolare. Vidal, Vargas e Sanchez sono dei fattori a dir poco rilevanti. La finale con l’Argentina è una maratona. Pareggio a reti bianche nei tempi regolamentari. Si va spediti ai calci di rigore dove sbagliano Vidal e Messi e Biglia. Decisivo il penalty realizzato da Silva che porta in paradiso Bravo e compagni.

Una vita da bomber. Sì perché da calciatore riusciva ad incutere timore a tutte le difese avversarie. La stagione più esaltante risale al 1995-1996 con 31 autografi nel Tenerife. Il titolo del “Pichichi” vale quasi come un pallone d’oro nell’immaginario collettivo iberico. Tanta gloria portano Pizzi dritto verso il monumentale stadio Camp Nou per la causa del Barcellona. In squadra con Guardiola, Figo ed il “fenomeno” Ronaldo trovare visibilità non è una passeggiata di salute. Ciononostante Juan Antonio vede il campo ben 49 volte in totale (tra Liga, Copa del Rey, Coppa delle Coppe e Supercoppa) centrando il bersaglio in 16 circostanze.

La freschezza atletica abbandona il bomber nato Santa Fe nelle successive annate. Esplora, senza fortuna, altri lidi. Combatte la nostalgia dell’Argentina accasandosi al River Plate. Riscopre le radici con il Rosario Central per poi atterrare fugacemente ad Oporto. La patria del flamenco gli concede la passerella finale nel Villareal.

Ecco dunque la storia di Juan Antonio Pizzi, il “Pichichi” del Tenerife diventato Commissario Tecnico.

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Allenatori Enrico D'Amelio

Josep Guardiola: vincente, mai banale

di Enrico D’Amelio

Un suo storico rivale, Josè Mourinho, ha sempre sostenuto che “chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio”. Una frase sicuramente appropriata e calzante per far capire come anche in uno sport popolare, strumenti come cultura, apertura mentale ed esperienze di vita facciano la differenza per potersi distinguere dagli altri e raggiungere risultati superiori. In altre circostanze, il tecnico di Setùbal affermava che Pep Guardiola fosse capace di vincere “solo nel giardino di casa propria”, riferendosi ai successi ottenuti dallo stesso unicamente nella roccaforte catalana del Camp Nou. Meno male che il tempo è galantuomo, e che l’allenatore spagnolo stia iniziando a dimostrare quanto non sia stato tanto il Barcellona ad essere la sua fortuna, quanto l’opposto. Perché se arrivare primo al traguardo con la macchina più veloce può essere la norma per un pilota, riuscire a oltrepassarlo senza speculare sul risultato, ma fornendo ai propri interpreti dei mezzi basilari per essere migliori degli altri ad altissimi livelli, è un merito innegabile.

Un predestinato della panchina, come tutti quei professori del centrocampo, che vivono per dare fosforo e geometria davanti alla difesa. Pochi i km percorsi negli anni da calciatore, meglio farli fare al pallone in tutte le zone del campo, con la mente che viaggia agli anni a venire, quando verrà il tempo di trasmettere ai più giovani tutto quello che hai maturato nel tempo. Dopo un finale di carriera non degno di una bandiera blaugrana, complici l’esilio in Italia a Brescia e Roma, e spiccioli di calcio inferiore tra Qatar e Messico, l’inizio di ciò che da sempre era scritto nel futuro. A 36 anni una stagione di apprendistato con la squadra B del Barcellona, ad attendere la conclusione fisiologica del quinquennio sotto l’egida di Frank Rijkaard (2003/2008). Poi, a soli 37 anni, la scommessa più rischiosa. Tornare ad essere profeta in patria con la squadra potenzialmente più forte al mondo. Da Rijkaard a Guardiola, da Ronaldinho a Messi. Rifondare una squadra che solo 2 anni prima era diventata Campione d’Europa, e farlo da giovane tecnico che deve imporre idee innovative, impedendo a fenomeni indiscussi di vincere con la sola anarchia. Non straordinari solisti, ma il Gruppo alla base dei successi, oltre al categorico rifiuto della banalizzazione delle vittorie. In un solo anno Guardiola è riuscito nella prima impresa impossibile conquistando il triplete, culminato con il trionfo all’Olimpico di Roma contro il Manchester United nella finale di Champions League 2009. Anche qui la distinzione dell’uomo speciale prestato al calcio, nei momenti della gloria: “Vorrei fare una dedica per questa vittoria al calcio italiano e soprattutto a Paolo Maldini, un esempio per tutti. So che ha avuto qualche problema nel giorno dell’addio, ma sappia che ha l’ammirazione di tutta Europa da venticinque anni, e che per lui le porte del Barcellona sono aperte in qualsiasi momento”. Da lì in poi, la nascita di un ciclo straordinario che profuma ancora di presente per poter essere giudicato dalla Storia. Tutto quello che c’era da vincere dal 2008 al 2012 è finito nella bacheca di Avinguda Aristides. Non sono stati, però, principalmente i trofei conquistati (14) a dare la dimensione di una squadra stellare, quanto la perfezione con cui si è arrivati allo scopo. Storica la risposta a chi gli chiedeva quale fosse il terminale offensivo di una squadra senza ‘numero 9’: “il nostro centravanti è lo spazio”. Nel moderno e consumistico calcio di oggi, però, anche nelle storie d’amore più belle è contemplata la parola fine. Prima che si potesse incrinare qualcosa, dopo un’ultima stagione in cui Liga e Champions League non erano arrivate, Guardiola dice addio (arrivederci?) alla Casa Madre. Troppo stress accumulato e una minor fame di vittorie gli hanno suggerito che era meglio staccare la spina per un anno, prima del nuovo monolite da costruire nel cuore del Vecchio Continente.

A Monaco di Baviera è riuscito addirittura a superare l’impossibile, andando a vincere una sfida ancora più improba. Dopo il triplete di Jupp Heynckes del 2012/13, ha ereditato una squadra ‘sazia’, spostandosi dal suo habitat naturale, ed è riuscito in poco più di un anno a costruire qualcosa di migliore dell’insuperabile. Nella prima stagione la vittoria in Bundesliga è stata una formalità, macchiata soltanto dall’umiliazione patita in semifinale di Champions League contro il Real Madrid di Carlo Ancelotti. Il punto più basso della sua carriera da allenatore, che già dava adito a detrattori un po’ prevenuti di non giudicarlo idoneo a vincere lontano dalla Spagna, e, soprattutto, in un calcio fisico come quello tedesco. I primi mesi della stagione in corso hanno dimostrato, qualora ce ne fosse stato bisogno, che questo Bayern Monaco è già diventato migliore di quello del 2013, e che può seriamente candidarsi ad insidiare il Barcellona migliore di sempre. La Coppa dalle grandi orecchie ritornerà sicuramente in Baviera, probabilmente già da quest’anno, e, cosa più importante, verrà vinta in modo diverso, perché diverse sono le squadre di Guardiola. E allora Mourinho dovrà rassegnarsi. Fino a riconoscere l’oggettiva grandezza di un allenatore speciale, destinato a prendersi in più Nazioni svariati “giardini di casa propria”. Come un vero cittadino del mondo, mai sazio di cercare nuove sfide.

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#Contromondiali Fabio Belli

#Contromondiale 17: #Messi, #Argentina, #Belgio, #Krul, #VanGaal, #Olanda, #Navas, #CostaRica, #Tacconi, #EdWarner, #Colombia

di Fabio Belli

Argentina – Belgio 1-0

Ci sono cose che non cambiano mai...
Ci sono cose che non cambiano mai…

110. Se l’Argentina sta provando a ricalcare Messico ’86, uno scontro con il Belgio non poteva mancare. Allora come ora, Maradona e Messi si sono ritrovati circondati da frotte di Diavoli Rossi, ma la vittoria dell’albiceleste è stata limpida. Per la prima volta però la “pulga” perde il confronto diretto con il mito di riferimento, che dopo aver eliminato da solo gli inglesi, fece il bis con i belgi in semifinale. La giocata che ha innescato il gol decisivo di Higuain è stata pregevole, ma stavolta il fenomeno del Barcellona è apparso un po’ affaticato dallo strapotere fisico degli avversari. L’Argentina torna comunque tra le prime quattro di un Mondiale dopo 24 anni: dopo Italia ’90, i quarti di finale si erano sempre rivelati un tabù.

Olanda – Costa Rica 4-3 dcr

La Mossa di Van Gaal
La Mossa di Van Gaal

111. Parlando di maledizioni, l’Olanda ha sudato freddo pensando a cosa era accaduto a tutte le squadre che nelle ultime quattro edizioni avevano eliminato il Messico negli ottavi di finale. Germania nel ’98, Stati Uniti nel 2002 e Argentina nel 2006 e nel 2010 erano sempre finite fuori ai quarti. Con tre legni, due dei quali al termine dei tempi regolamentari e supplementari, gli orange hanno iniziato a temere il peggio. A risolvere le cose ci ha pensato un’incredibile mossa di Louis Van Gaal…

Il Bullo Krul in azione
Il Bullo Krul in azione

112. … che prima dei penalty, ha sostituito Cillessen con Tim Krul, portiere del Newcastle, due soli rigori parati in carriera, nessuno nell’ultima stagione in Premier League su cinque tiri dal dischetto subiti. Mossa dunque psicologica? Forse, anche se Cillessen ha uno score in carriera anche peggiore sui rigori rispetto a Krul. Mai un portiere nella storia dei Mondiali era stato inserito appositamente per i rigori, mai l’Olanda aveva passato il turno non solo ai penalty, ma neanche dopo essere andata ai supplementari. Tutte “maledizioni” sfatate (compresa quella messicana di cui sopra…) dalla sfrontatezza di Van Gaal e del suo portiere di riserva, che assai poco elegantemente ha redarguito gli avversari prima di ogni tiro. Alla fine il “bullo” Krul ne ha neutralizzati due, garantendo un posto all’Olanda in semifinale, e a sé stesso nella storia.

Oltre a Krul, anche Tacconi poteva essere come Ed Warner
Oltre a Krul, anche Tacconi poteva essere come Ed Warner

113. A memoria d’uomo, l’unico portiere mai inserito appositamente per parare rigori in una partita di fase finale è stato Ed Warner nella semifinale con la Flynet. Peccato si trattasse del cartone animato “Holly e Benji”, ma spesso la realtà supera la fantasia. A molti però sarà anche venuta in mente una calda serata italiana al San Paolo di Napoli, quando gli azzurri non riuscirono a piegare le resistenze dell’Argentina. Ai rigori, in quella semifinale Mondiale, mezza Italia invocò l’ingresso di Stefano Tacconi al posto di Walter Zenga, all’epoca miglior portiere del mondo, ma che non godeva di fama di para-rigori. Scelta troppo anticonvenzionale per Azeglio Vicini, e le cose andarono come sappiamo. Chissà, se anche allora ci fosse stato Van Gaal…

Nonostante l'eliminazione, Keylor Navas è stato una stella di Brasile 2014
Nonostante l’eliminazione, Keylor Navas è stato una stella di Brasile 2014

114. Di sicuro i portieri a Brasile 2014 hanno recitato la parte del leone. Krul ha rubato la scena, ma nella serata dell’Arena Fonte Nova di Salvador di Bahia, Keylor Navas si è confermato un gigante. Al pari dello statunitense Howard, il numero uno della Costa Rica e del Levante (dove è stato segnalato come miglior portiere della Liga Spagnola) si è esibito in una serie di salvataggi al limite del possibile. A ventisette anni, potrebbe avere la maturità e l’esperienza giusta per giocarsi una carta importante nella sua carriera: vedremo se il mercato risponderà alle sue acrobazie tra i pali.

Rihanna tifa Olanda e si vede
Rihanna tifa Olanda e si vede

115. Abbiamo già segnalato come l’Olanda sia stata accompagnata da tanta bellezza nella sua avventura Mondiale finora. Al bullo Krul si aggiungono le pupe locali, ma non solo: prima della partita contro la Costa Rica si è schierata anche la popstar Rihanna, in uno scatto apprezzatissimo nella posa e nel soggetto come testimoniato dalle reazioni dei tifosi su Twitter, ma che non passerà certo alla storia tra i capolavori di photoshop…

 

Rimasugli di Brasile – Colombia 2-1

I media colombiani invitano alla moderazione
I media colombiani invitano alla moderazione

116. Spesso in Italia ci lamentiamo dell’immaturità e del vittimismo dell’ambiente calcio. Anche dopo l’ultima eliminazione, ancora fresca nei cuori e nelle menti dei tifosi azzurri, nonostante l’espulsione di Marchisio che appare ancora ingiustificabile, e il morso di Suàrez a Chiellini non visto, la stampa ha esortato a non scaricare, o almeno non farlo del tutto, la responsabilità delle scadenti prestazioni dell’Italia sull’arbitro. Bisogna ricordarsi però che tutto il mondo è paese, e nel leggere come i giornali colombiani hanno reagito all’arbitraggio dello spagnolo Carlos Velasco Carballo nel quarto di finale contro il Brasile, allora sembra evidente che c’è sempre chi prende le brutte notizie in maniera peggiore di qualcun altro.

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Club Fabio Belli

Osasuna, un brindisi in Navarro

di Fabio Belli

Ci sono club che riescono a racchiudere, spesso e volentieri a prescindere dai risultati, nella loro essenza la passione di un intero popolo. Succede in Grecia all’isola di Creta, dove la squadra del maggior centro abitato dell’isola, Iraklion, diventa OFI Creta perché racchiude l’orgoglio e le speranze non solo di una città, ma di una comunità intera. Lo stesso accade in Spagna in Navarra, al confine con i Paesi Baschi, dove l’Osasuna rappresenta un qualcosa che fa battere il cuore dei tifosi al di là dell’appartenenza che si può provare per qualsiasi società.

PARTIDO  OSASUNA  - RECREATIVO TEMPORADA 99-00 JUGADORES SALUDAN TRAS VICTORIA Y ASCENSO A PRIMERAL’Osasuna gioca a Pamplona, capoluogo della Navarra, ed il suo nome racchiude già in sé un inno di lode e un incitamento. In basco Osasuna è un modo di dire “Salute!, o “Forza!” intorno a un tavolo ricoperto di bicchieri di sangria. E’ ciò che si dice durante un brindisi, e si addice a pennello allo spirito corsaro di una squadra che, pur sempre con limitati mezzi economici, è una delle realtà più consolidate della Liga spagnola (anche se in questa stagione, dopo molti anni, potrebbe di nuovo concretizzarsi lo spettro della retrocessione in “Segunda”).

A dispetto di tanta passione, la bacheca Navarra è ancora all’asciutto di trofei maggiori. I migliori risultati nella Liga sono recenti, due quarti posti nel 1991 e nel 2006: quest’ultimo valse anche una qualificazione alla Champions League, un velocissimo giro sulla giostra dell’Europa dei grandi, durato il tempo del preliminare perso contro l’Amburgo. Ma se a Pamplona pensano alle scorribande continentali migliori, viene in mente la Coppa UEFA del 2007, quando i connazionali del Siviglia sbarrarono la strada verso quella che sarebbe stata una storica finalissima.

Sono stati questi gli anni d’oro, con l’incredibile primo posto del dicembre 2006 nella classifica mondiale dell’IFFHS, grazie a una straordinaria serie di risultati positivi tra Liga e competizioni internazionali. Ma le radici della passione per l’Osasuna affondano ben più nel profondo, per un club che nel 2020 festeggerà i suoi cent’anni nello stadio da sempre di proprietà del club, lo storico “El Sadar” diventato da circa dieci anni “Renyo de Navarra“. Così come il nome della squadra richiama un brindisi e un augurio, tutta la storia dell’Osasuna sembra essere un inno al futuro: il mito locale è Francisco “Patxi” Puñal, il giocatore che vanta più presenze in Navarra, avendo trascorso tutta la sua carriera in maglia “Rojillos”. Classe ‘75, è ancora in attività: se retrocessione sarà, dopo oltre cinquecento match ufficiali, toccherà a lui fare da trait d’union tra presente e passato. Perché “Osasuna”! è un grido che riecheggerà nell’eternità, nella buona e nella cattiva sorte.

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Calciatori Fabio Belli Nazionali

I Gudjohnsen: il calcio in Islanda di padre in figlio

di Fabio Belli

L’Islanda e il calcio si osservano con reciproca curiosità da anni, senza mai tentare però un deciso corteggiamento. In questi giorni, la nazionale dell’isola nell’estremo nord dell’Europa sta provando a raggiungere la vetta massima della sua storia, rappresentata dalla qualificazione ai Mondiali in Brasile del 2014. Quella che è considerata la terra adottiva per eccellenza del football (quella natale non può che essere l’Inghilterra), ospiterebbe per la prima volta le allegre orde nordiche di tifosi di una nazionale mai così giovane e brillante, Croazia permettendo.

gudjohnsenIn Islanda il calcio è un affare di famiglia, e non potrebbe essere altrimenti in un paese in cui, visto l’esiguo numero di abitanti, spesso le professioni, da quelle artigianali a quelle più moderne, si tramandano per dinastie. Ed anche l’arte del gioco più bello del mondo spesso viene trasmessa di padre in figlio, con alcuni casi eclatanti, uno dei quali rappresenta un vero e proprio primato assoluto. L’Islanda è infatti l’unica nazionale ad aver visto padre e figlio giocare nella stessa partita ufficiale. E si tratta peraltro di quello che può essere considerato, al di là delle preferenze personali, il miglior calciatore di sempre dell’Islanda, per palmares e militanza nei grandi club.

Stiamo parlando di Eidur Gudjohnsen, l’unico calciatore islandese ad aver vinto campionati come la Premier League (con il Chelsea), la Liga e ad aver fatto parte della rosa che nel 2009 ha conquistato la Champions League (con il Barcellona). Una storia iniziata ad appena sedici anni, nel Valur di Reykjavik, dove si distinse tanto da guadagnarsi un ingaggio nel PSV Eindhoven, quando a metà degli anni novanta era ancora una rarità vedere un calciatore islandese in un importante campionato europeo. L’Eredivisie fu il primo di tanti successi di prestigio per quello che inevitabilmente è diventato anche il capitano della sua nazionale.

E proprio nella nazionale islandese Gudjohnsen si è guadagnato un primato finora imbattibile: il 24 aprile del 1996, nell’amichevole disputata dall’Islanda contro l’Estonia, Eidur ha fatto il suo esordio nella selezione locale entrando a partita iniziata. La particolarità che rende unico questo episodio è che a cedergli il posto in campo fu il padre Arnor, attaccante classe 1961 che a sua volta fu un pioniere come ambasciatore del calcio islandese nel mondo, nonché stella dell’Anderlecht, club con il quale si fregiò del titolo di capocannoniere del campionato belga nel 1987. Di casi di calciatori di parentela stretta in campo, anche nelle varie nazionali, ce ne sono molti, ma si tratta quasi sempre di fratelli.

E dire che i Gudjohnsen senior e junior avrebbero dovuto fare coppia d’attacco in un impegno successivo dell’Islanda, se Eidur non avesse subito un infortunio molto grave alla caviglia, che rischiò anche di stroncarne sul nascere la carriera. Che invece si è prolungata fino ai giorni nostri, tanto che nell’andata dello spareggio Mondiale contro la Croazia a Reykjavik, è sceso in campo nella speranza di regalare un contributo decisivo ai suoi, a trentacinque anni da poco compiuti. Se il sogno islandese si trasformerà in realtà al ‘Maksimir‘ di Zagabria, allora il Mondiale brasiliano potrà diventare per Gudjohnsen il coronamento di una straordinaria carriera.

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Calciatori Fabio Belli

Il record di Messi? Lo zambiano Chitalu lo ha già stracciato. E Zico…

di Fabio Belli

Da un crack al top a un flop: non è un elenco di suoni onomatopeici stile Topolino, ma la parabola vissuta a Lionel Messi negli ultimi giorni. Quello che è quasi unanimemente considerato il calciatore attualmente migliore al mondo, stava per chiudere l’anno solare con l’ennesimo record a livello planetario. L’aver stracciato il primato di Gerd Muller, il miglior bomber di tutti i tempi della nazionale tedesca e del Bayern Monaco, che aveva realizzato 85 reti in un anno solare, nel 1972. Un primato stracciato dalla “pulce” del Barcellona ad una ventina di giorni dalla fine del 2012, con l’approdo a quota 88. Questo dopo la grande paura della settimana precedente, quando Messi nella sfida di Champions League (peraltro ininfluente ai fini della classifica) contro il Benfica è stato costretto a lasciare il campo in barella dopo un contrasto di gioco, in preda a grandi dolori.

WCENTER 0REDACERXZ -Si temeva una frattura o una lesione dei legamenti, si è rivelata essere solo una contusione che ha permesso a Messi di essere in campo già nella partita di campionato contro il Betis Siviglia, e di superare il leggendario record di Muller con una magnifica doppietta. Ennesima storia a lieto fine per il fenomeno argentino? Neanche per sogno, visto che quando si parla di record, il campanilismo è sempre di casa, anche se non è mancato lo stupore quando a levarsi è stata la voce della federazione calcistica dello Zambia. La nazione neocampione d’Africa, ha infatti rivendicato lo straordinario record di Godfrey Chitalu (che sarebbe stato realizzato, particolare curioso, nel 1972, lo stesso anno di quello di Muller), capace di andare a segno per ben 107 volte con la maglia del Kabwe Warriors.

Chitalu è una leggenda dello Zambia e del calcio africano, perito nel tragico schianto dell’aereo che trasportava la Nazionale dello Zambia, della quale era diventato il Commissario Tecnico nel 1993. La federcalcio zambiana ha chiesto la certificazione della FIFA per il suo record, anche se il massimo organismo del calcio mondiale si è detto non competente per competizioni organizzate senza la sua diretta supervisione. Certo i numeri di Chitalu sembrano irraggiungibili per Messi, che per chiudere l’anno in bellezza potrebbe però togliersi la soddisfazione di scrollarsi di dosso la pressione dei brasiliani, che nell’ennesimo capitolo della rivalità calcistica con l’Argentina, si sono affrettati a specificare come Zico nel 1979 abbia comunque realizzato una rete in più di Messi: 89 gol, distribuiti in 81 con la maglia del suo club, il Flamengo, 7 con la Nazionale brasiliana e 1 durante la gara amichevole fra Argentina e Resto del Mondo (e non sembra un caso che il gol di più nella differenza del record Zico lo avrebbe realizzato proprio all’Albiceleste…). Per la serie, anche per uno come Messi, gli esami non finiscono mai

(si ringazia Enrico D’Amelio per la segnalazione)

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Allenatori Calciatori Club Fabio Belli Nazionali

Prima di Maradona, Leo Messi ha un mito in casa da inseguire: Paulino Alcantara, il recordman degli albori del Barcellona

di Fabio Belli

I numeri di Leo Messi stanno sbalordendo il mondo, e la conquista di tre Palloni d’Oro di fila è abbastanza eloquente riguardo le capacità dell’asso argentino. Che Messi stia inseguendo il  di Diego Armando Maradona non è al tempo stesso un mistero, e se alla pulce manca forse solo la consacrazione in nazionale per affiancarsi all’icona assoluta del calcio mondiale che il Pibe de Oro rappresenta, va detto che sono invece ancora circa un centinaio le reti che lo separano dal totem da inseguire all’interno del suo club, il Barcellona.

In pochi infatti sanno che nonostante Messi sia ormai lanciato verso la polverizzazione di ogni primato in blaugrana, meglio di lui e di chiunque altro abbia mai indossato la casacca culè ha fatto un mito del calcio spagnolo dei primordi, negli anni addirittura antecedenti alla nascita di un vero campionato nazionale spagnolo, attualmente ancora conosciuto come la Liga. Stiamo parlando di Paulino Alcantara, che oltre allo strepitoso primato di 356 reti in 357 apparizioni con la maglia del Barcellona (praticamente, un gol a partita), ha anche dalla sua il fatto di essere stato il primo calciatore asiatico ad aver giocato a calcio in un club professionista europeo.

Eh già, perchè Paulino è nato in realtà ad Iloilo, nelle Filippine, alla fine del diciannovesimo secolo, nel 1896. Di sangue catalano da parte di padre, un militare di stanza nelle isole che allora erano colonia spagnola, è ricordato dunque per essere il miglior marcatore di tutti i tempi del Barcellona, avendo realizzato le sopracitate 357 reti tra il 1912 ed il 1927. Come se non bastasse, detiene il primato di debuttante e marcatore più giovane nella storia del Barcellona, avendo realizzato tre gol all’esordio con la squadra azulgrana, quando aveva appena 16 anni, 7 mesi e 26 giorni.

Nonostante la Liga sia iniziata ufficialmente solo nel 1928, un anno dopo la fine della sua attività agonistica, Paulino Alcantara ha potuto alzare al cielo in maglia blaugrana ben 5 Coppe di Spagna, ed ha trionfato in dieci campionati catalani. Un palmares di tutto rispetto, rimpinguato anche dalle presenze nella nazionale filippina, e poi, dopo la definitiva naturalizzazione spagnola, anche tra le Furie Rosse, delle quali fu anche Commissario Tecnico all’inizio degli anni ’50. Un simbolo autentico dei tempi dei pionieri del calcio spagnolo, con buona pace dello straordinario Leo Messi, che prima di dedicarsi alla scalata al trono di Maradona, deve ricordarsi di avercelo anche in casa, il mito da inseguire.

(si ringrazia Gian Marco Ventura)