Categories
Club Fabio Belli

Verona 1985: l’ultimo eroico scudetto della provincia

di Fabio BELLI

Lo scudetto del 1985 resta forse l’ultimo da un sapore antico, quando nel calcio le idee non sempre contavano più dei soldi, ma potevano farcela. Lo vinse il Verona, l’Hellas, quando ancora non c’era bisogno di specificarlo, perché il Chievo non era neanche mai stato tra i professionisti, e non giocava neanche al Bentegodi ma al Bottagisio, dove è ancora affissa la targa “campo parrocchiale“. L’Hellas era il Verona, per tutti, e vinse un campionato pazzesco, in una serie A, ancora a sedici squadre, che iniziava proprio allora a veder sbocciare quello che sarebbe stato un quindicennio di dominio mondiale del calcio italiano.

veronaIl Verona vinse il titolo nell’anno in cui in Italia arrivò Diego Armando Maradona, il più importante calciatore del mondo, che a Barcellona, complice un grave infortunio e una clamorosa rissa contro l’Athletic Bilbao, non ebbe tutta la fortuna che si aspettava. C’erano la Juventus di Platini, l’Inter di Rummenigge, la Fiorentina di Antognoni, la Roma di Falcao. Persino il Milan, dopo due anni di B, iniziava a rialzare la testa, mettendo le fondamenta per quella che sarebbe stata l’era-Berlusconi. Maradona giocò la sua prima partita di campionato in Italia proprio a Verona, con gli occhi del mondo puntati sul Bentegodi, quel 16 settembre del 1984: ma fu l’Hellas a vincere, tre a uno, giocando un calcio da favola.

Osservatori e commentatori non diedero troppo peso alla cosa: non lo fecero nemmeno quando i ragazzi di Osvaldo Bagnoli, tecnico abituato a mandare la provincia in Paradiso, mandarono al tappeto la Juventus alla quinta giornata, il 14 ottobre. A segnare un gol decisivo ci pensò un ragazzone danese, appena arrivato a Verona, che aveva un cognome tanto comune, Larsen, che per caratterizzarsi meglio nel mondo del calcio aggiunse quello della madre, e tutti lo conobbero come Elkjaer. Che segnò alla Juve con una delle sue caratteristiche galoppate, e tanta fu la foga che perse una scarpa, ma lui non fece una piega, continuò a correre e fece gol con un piede scalzo. Iniziarono a chiamarlo Cenerentolo, per la scarpa ma anche per ironizzare un po’ sul Verona, che uscì imbattuto dalle trasferte in casa di Roma e Inter, ma che tanto era destinato a crollare, ad andare al massimo in Coppa UEFA. Anche se la prima sconfitta in campionato arrivò a gennaio inoltrato, ad Avellino, il Verona fu campione d’Inverno, ma con l’Inter a un punto, ed il Torino a due, secondo gli esperti era solo questione di tempo e la sorpresa sarebbe rientrata nei ranghi.

E invece il girone di ritorno fu come il quello d’andata, perché gli scaligeri erano una macchina perfetta, sospinta dai gol di Elkjaer e Galderisi, dalle giocate di Pierino Fanna, imprendibile ala destra che sapeva far sognare solo in provincia, dalla concretezza del gigante tedesco Briegel, e dalle spettacolari parate di Garella. Il Verona uscì indenne dagli scontri diretti, non sbandò dopo l’unica sconfitta pesante della stagione, quella contro il Torino ancora lanciato all’inseguimento, ed i tifosi gialloblu, i butei, capirono che era fatta quando dopo Verona-Como 0-0, alla terzultima giornata, i giornali parlarono di festa rimandata, non di crollo imminente della cenerentola. Si erano convinti anche loro, ed il Verona festeggiò due volte: a Bergamo la matematica conquista del titolo, il 12 maggio del 1985. E davanti ai propri, impagabili tifosi la settimana dopo, battendo l’Avellino.

Lo scudetto dell’Hellas del 1985 resta unico perché è l’ultimo nato artigianalmente senza i favori del pronostico o una politica tesa esplicitamente a vincere. Il Napoli due anni dopo trionfò capitalizzando la presenza di un mito come Maradona, ma anche di una squadra costruita intorno a lui senza badare a spese. Quello della Sampdoria fu un progetto pluriennale, anzi in molti si aspettavano che la squadra costruita da Mantovani vincesse prima il titolo. Lazio e Roma, all’alba del 2000, videro concretizzarsi campagne acquisti miliardarie che nulla hanno a che vedere con quanto costruito a Verona in quegli anni: l’ultimo scudetto eroico di un calcio in cui tutto era ancora possibile.

Categories
Fabio Belli Nazionali Stadi

Malta – Germania Ovest 0-0, un sogno in pozzolana datato 1979

di Fabio Belli

L’enciclopedia Treccani riporta: “Pozzolana: Materiale piroclastico incoerente, emesso dal vulcano nella fase esplosiva e come tale costituito principalmente da piccolissimi granuli vetrosi, più o meno porosi, a cui si accompagnano piccoli cristalli di minerali diversi.” Parliamo di un materiale magico soprattutto per chi, anni fa, prima dell’avvento delle superfici sintetiche e del calcio onnipresente in televisione, faceva il pieno di partite nei campetti di periferia, o comunque nelle serie minori che non potevano permettersi un campo in erba naturale e la relativa manutenzione.

Il campetto in terra, classico e spesso contornato di tribune in legno, dove si respirava passione per un calcio non raffinatissimo tecnicamente, ma sicuramente vissuto col massimo trasporto. Abbiamo sottolineato l’avvento dell’erba sintetica, ma ancora oggi il campo in terra non è certo una rarità. Allora come ora, sarebbe quasi impensabile vedere i campioni del calcio internazionale misurarsi con una superficie del genere, se non per qualche sporadico evento di beneficenza.

E invece, nell’inverno del 1979, qualcosa di incredibile, agli occhi di chi il calcio lo segue oggi, accadde. Una partita passata già di per sé alla storia per il suo risultato: la piccola Malta ospita i colossi della Germania Ovest, nelle qualificazioni all’Europeo italiano del 1980. Una squadra che si appresta ad essere grandissima, che proprio in quell’edizione si laureerà campione d’Europa, e che nel 1982, nel 1986 e nel 1990 raggiungerà la finale dei Mondiali, vincendo nell’ultima occasione. In quella squadra è già titolare fisso Karl Heinz Rummenigge, che diventerà uno dei più forti attaccanti del calcio tedesco di sempre. Un mix tra vecchio e nuovo, con Sepp Maier in porta e il “bello” e talentuoso Hansi Muller in attacco.

Malta invece rappresenta l’estrema periferia del calcio, quando i microstati come Far Oer, Andorra e San Marino ancora non fanno parte dell’élite europea, e alle qualificazioni per la rassegna continentale sono maltesi, ciprioti e persino finlandesi a portare sulle spalle la nomea di squadra-materasso. Molto più di ora in cui ogni tanto arrivano punti in classifica e sconfitte più che onorevoli, come ad esempio quella che la nazionale maltese ha rimediato pochi giorni fa contro l’Italia di Antonio Conte.

Risultato consegnato alla storia, dicevamo, perché Malta riesce a bloccare sullo zero a zero i fortissimi tedeschi occidentali, e quello che accade sul campo di Gzira il 25 febbraio del 1979, resta nel mito del calcio maltese. Già, sul campo di Gzira: i fans di Malta ci perdoneranno se per una volta ci concentreremo non su cosa avvenne, ma su dove avvenne. Il pareggio in sé fu una sorpresa abbastanza clamorosa, detto del divario fra le due squadre, ma il cammino della Germania Ovest verso l’Italia era segnato in positivo, e quello non fu che un piccolo rallentamento nella vittoria del girone di qualificazione.

Lo zero a zero maturò però in uno stadio dove non c’era l’erba, particolare più unico che raro per una partita internazionale anche per quei tempi. E le foto che si possono ritrovare sono un fantastico anacronismo: i primi prototipi del calcio miliardario, i tedeschi occidentali che, con lo sbarco dell’Adidas e della Coca Cola nella FIFA a piedi uniti proprio a partire da Monaco ’74, hanno iniziato a girare il mondo guadagnando cifre da capogiro, costretti a guadagnarsi il ticket per l’Europeo (all’epoca ad otto squadre, e con il girone di qualificazione necessariamente da vincere) su un campetto simile a quelli che si trovano nei quartieri popolari di tutto il mondo.

Si trattava del vecchio Empire Stadium, che ospitava la nazionale in attesa che venisse approntato il National Stadium Ta’Qali a La Valletta, la capitale. Per una realtà come quella del calcio maltese, l’erba era un lusso, non certo un obbligo: e in via eccezionale, i giganti tedeschi si sarebbero adattati, considerando che il regolamento UEFA non prevedeva limitazioni sulla superficie, purché il campo fosse a norma. E così, quello 0-0 tra Malta e Germania Ovest, è rimasto nella memoria nonostante il gioco poco entusiasmante: per i maltesi, per il risultato. Per il resto del mondo, per aver visto campioni di livello assoluto disputare una partita ufficiale, forse l’ultima a livello europeo, sulla mitica pozzolana.

Categories
Fabio Belli Le Finali Mondiali

1986: Argentina-Germania Ovest 3-2. Un imprevedibile scherzo del destino

di Fabio Belli

Mai come il 29 giugno 1986, la finale del Campionato del Mondo di calcio ha avuto un protagonista così universalmente atteso. Diego Armando Maradona si è ritagliato il suo posto nei cuori di tutto il popolo argentino con l’incredibile performance nei quarti di finale contro l’Inghilterra. Raramente in oltre cento anni di storia del football, un solo calciatore è riuscito a caricarsi sulle spalle una partita così densa di significati. La vittoria su Lineker e compagni rappresenta una rivincita dell’orgoglio patrio per gli argentini dopo la guerra della Falkland, il cui risarcimento è rappresentato dal gol di mano realizzato dal “diez”, che sblocca il risultato di fronte a oltre 110.000 spettatori in delirio all’Azteca di Città del Messico. E’ la leggendaria “Mano de Dios“, condita dalla famosa frase maradoniana “se rubi a un ladro, avrai cento anni di perdono“.

Maradona alza al cielo la Coppa del Mondo all'Azteca
Maradona alza al cielo la Coppa del Mondo all’Azteca

Ma è anche la partita del “Barrilete Cosmico“, ovvero come il cronista Victor Hugo Morales chiamò Maradona dopo la realizzazione del “gol del secolo“, l’incredibile slalom tra gli inglesi considerato a tutt’oggi la più strabiliante prodezza della storia del calcio. Maradona è comunque in stato di grazia come mai nella sua carriera, e non sono solo le motivazioni extra contro gli inglesi a farlo volare. In semifinale contro la rivelazione Belgio, sigla una doppietta e riporta l’Argentina in finale dopo otto anni dal trionfo di Baires. Di fronte, ci sono i soliti tedeschi occidentali che ormai da venti anni, fatta eccezione per il 1978 quando persero il podio per una scelleratezza contro l’Austria, sono presenza fissa tra le prime quattro posizioni. Una squadra, la Germania Ovest, che mescola vecchio e nuovo, con un Rummenigge quasi al canto del cigno ma ancora competitivo, ed un attaccante come Rudi Voeller astro nascente del calcio europeo, e che presto diventerà un idolo della parte giallorossa di Roma. Parlando di italiani del futuro, anche Matthäus e Brehme, che vestiranno la maglia dell’Inter, sono diventati ormai un pilastro della squadra, che vede indossare il numero dieci ancora al trentatreenne Felix Magath, castigatore della Juventus nella finale di Coppa dei Campioni del 1983 con l’Amburgo.

Ma il punto è che nessuno dei tedeschi è Maradona, ed era dai tempi di Pelé che un giocatore non riusciva a catalizzare in questo modo l’attenzione in un Mondiale. L’Azteca si aspetta una magia “definitiva” dal fuoriclasse del Napoli, che sta trascinando verso il titolo un’Argentina tutt’altro che trascendentale, di sicuro inferiore tecnicamente a quella che pure fu letteralmente sospinta di forza alla vittoria nel Mondiale giocato in casa nel 1978. Diego è il giocatore migliore della competizione e forse di tutti i tempi, ma alle sue spalle ci sono solo un buon attaccante (Valdano), onesti portatori d’acqua (Burruchaga, Olarticoechea) e una difesa rocciosa ma tecnicamente non impeccabile. La quale ha dovuto fare anche a meno di Passarella, ufficialmente per un grave problema gastrico, ufficiosamente perché sembra che Maradona abbia cancellato l’unica altra possibile personalità ingombrante nello spogliatoio. Al suo posto gioca il “Tata” José Luis Brown, reduce addirittura da una stagione di inattività, con sole cinque presenze prima di Natale nel Deportivo Espanol di Buenos Aires.

300.000 occhi sono puntati su Maradona dagli spalti dell’Azteca, ma due in particolare un po’ più in basso: quelli di Franz Beckenbauer, che da CT tedesco vuole stupire il mondo con una gabbia in grado di fermare il fenomeno del Mùndial. Sull’altra panchina però Carlos Bilardo ha le sue idee, tutte abbastanza chiare. Se non lasciano giocare Diego, gli spazi per Valdano e Burruchaga si moltiplicano, e non di poco viste le energie necessarie per limitare il fuoriclasse. La sorte tende anche una mano non da poco agli argentini, visto che il portiere tedesco Schumacher, fino a quel momento impeccabile, esce a vuoto su un cross del “Burru”, permettendo a Brown di completare la sua favola con il colpo di testa del vantaggio. Ad inizio ripresa, Valdano sigla il raddoppio e l’epilogo sembra scritto.

I tedeschi però, lo hanno dimostrato a più riprese nella storia dei Mondiali, hanno questa caratteristica di non darsi mai per vinti che a volte trascende la logica. Sotto di due in un Azteca in delirio per gli argentini, mettono palla al centro e sfruttano il “braccino” degli avversari, e soprattutto la loro difesa non certo impenetrabile. Nel giro di 7′ Rummenigge e Voeller riportano il risultato in parità. Mancano dieci minuti al termine, i supplementari sembrano inevitabili ed ora tutti si aspettano Maradona, il sigillo finale su un Mondiale che mai ha avuto un padrone così chiaro.

La "gabbia" tedesca per Maradona: in mezzo a cinque avversari, Diego toccherà verso Burruchaga il pallone della vittoria
La “gabbia” tedesca per Maradona: in mezzo a cinque avversari, Diego toccherà in avanti verso Burruchaga il pallone della vittoria

Oltre ad essere proverbialmente irriducibili, però, i tedeschi sono bravissimi a prevedere tutto il prevedibile, ma si fanno anche sorprendere dall’imprevisto più di quanto sarebbe lecito aspettarsi. Appena tre minuti dopo il 2-2 di Voeller, Maradona si ritrova chiuso nel cerchio di centrocampo in un perimetro composto da cinque avversari. E’ la “gabbia” disegnata da Beckenbauer, che si rivolta clamorosamente contro la Germania. Perché a Maradona in quel momento non interessa la gloria personale: quella se l’è già guadagnata, in maniera indelebile, contro l’Inghilterra, e l’ha consolidata contro il Belgio. Ma Diego sa che senza la Coppa, quelle imprese sbiadirebbero. E allora non fa altro che toccare, in maniera deliziosa, in avanti per Burruchaga che è fuori dalla gabbia, e corre nella prateria che lo separa da Schumacher e dall’inevitabile gol del 3-2. E così, nel Mondiale di Maradona, la firma sulla vittoria in finale è del “Burru”: un imprevedibile scherzo del destino, che ha colpito i tedeschi nel momento peggiore. E Diego alzò la Coppa che lo rese Immortale.

Categories
Le Finali Mondiali Valerio Fabbri

1982: Italia-Germania Ovest 3-1. La vittoria più “italiana” di sempre

di Valerio Fabbri

Il Mondiale di Spagna 1982 è il Mondiale dell’urlo di Tardelli, del genio di Marazico, come fu soprannominato Bruno Conti per le sue magie sulla fascia, e dell’orgoglio di Bearzot, che riuscì a portare al trionfo gli azzurri creando un gruppo compatto, schermato dalla stampa e reduce dallo scandalo del calcio scommesse che aveva coinvolto tantissimi protagonisti di primo piano del calcio italiano.

Bearzot in trionfo: l'Italia è Campione del Mondo dopo 44 anni
Bearzot in trionfo: l’Italia è Campione del Mondo dopo 44 anni

Paradossalmente, l’Italia gioca peggio che nel 1978, ma porta a casa la Coppa. Qualificata solo per un gol in più rispetto al Camerun, nel gironcino per le finali la nazionale pesca Argentina e Brasile, il meglio che c’è in giro. Un finale che sembra già scritto, ma anziché firmare il proprio epitaffio, Zoff e compagni risorgono. Contro l’albiceleste Tardelli e Cabrini ci regalano la vittoria (2-1, Passarella); la partita rimane memorabile per la marcatura asfissiante di Gentile su Maradona. L’epopea azzurra è appena iniziata. A Barcellona contro il Brasile all’Italia serve una vittoria, mentre ai verdeoro, su cui si concentrano tutti i favori del pronostico, basta un pari. Pagheranno caro la loro ostinata presunzione di voler stravincere e condurre le danze anziché fare calcoli. Paolo Rossi, coinvolto nel calcio scommesse, difeso strenuamente da Bearzot nonostante prestazioni opache e due anni di inattività, come per magia si sblocca. Una sua tripletta vanifica i gol di Socrates e Falcao, Zoff sigilla l’impresa con un salvataggio sulla riga di porta al 90’. E’ delirio a Barcellona, ma anche in Italia, dove la gente si identifica sempre di più con una Nazionale vincente.

La Germania Ovest arriva in finale dopo aver superato ai rigori – è la prima volta in un Mondiale – la Francia di Platini, in vantaggio 3-1 fino ad una manciata di minuti dal termine dei supplementari. L’ingresso dell’infortunato Rummenigge sposta gli equilibri: prima accorcia con una botta da fuori, poi assiste la rovesciata di Fischer che pareggia i conti. Sulla partita pesa l’inervento criminale, è il termine adatto, del portiere tedesco Schumacher su Battiston, che rimane a terra con due denti rotti e due vertebre incrinate. Un’azione che avrebbe meritato rigore ed espulsione, e molto probabilmente indirizzato la partita verso un altro esito. Così non è stato e la Francia saluta. A Madrid ci aspettano i tedeschi.

Il Bernabeu straripa di tricolori: è tanta la gente arrivata dall’Italia per vivere una notte magica, con bandieroni dell’ultima ora. Si riscopre un’appartenenza snobbata dal dopoguerra, rimarcata nel lodevole tentativo di cantare l’inno nel prepartita, però la voce è incerta poiché tale rituale é stato trascurato per quarant’anni. L’euforia nell’ambiente azzurro è contagiosa, eppure nessuno dimentica gli articoli scritti nei giorni caldi di Vigo, e Bearzot conferma il silenzio stampa. Il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, dopo essersi autonominato primo tifoso della nazionale, siede in tribuna insieme ai reali di Spagna. Come scritto da Montanelli, da buon ultimo è lì ad esprimere al meglio il peggio dell’indole nazionale.

Rossi travolto dall'esultanza dei compagni
Rossi travolto dall’esultanza dei compagni

Bearzot sorprende tutti. Un difensore puro, il diciottenne Bergomi, per Antognoni infortunato. E soprattutto tre marcature rigide: Gentile su Littbarski, Collovati su Fischer, e appunto Bergomi su Rummenigge. Centrocampo solido e ripartenze velocissime. I tedeschi commettono lo stesso errore del Brasile. Anziché lasciarci l’iniziativa, pretendono di dettare i ritmi della partita; per gli azzurri è un (altro) invito a nozze. Il primo tempo scorre senza sussulti, se non per il rigore sbagliato da Cabrini. Nella ripresa e’ l’apoteosi. Oriali si regala la più bella partita in carriera recuperando palloni su palloni, Conti, che l’anno successivo conquisterà con la Roma il secondo, storico tricolore, si conferma Marazico, Rossi, Tardelli e Altobelli firmano i tre gol azzurri, mentre quasi nessuno si accorge della rete di Breitner. Nando Martellini, storica voce della Rai, urla tre volte “Campioni del Mondo”, quasi una promessa per il futuro.

E’ l’inizio simbolico dell’età del benessere, dei soldi e delle tangenti facili. E’ una vittoria molto italiana: non premia i più forti in assoluto, ma chi si è meglio saputo adattare alle contingenze. Dopo un decennio di sangue e odio ci sentiamo tutti fratelli, come dimostra la storica immagine della partita a scopone sull’aereo presidenziale – Causio e Bearzot da un lato, Pertini e Zoff dall’altro, con beffa finale per questi ultimi battuti 15-14, e Zoff costretto a prendersi le colpe dell’errore fatale di Pertini per amor patrio. Magnifici rappresentanti dell’Italia fino in fondo: grazie al “passaggio” presidenziale, vengono aggirate le norme sull’importazione di valuta per il premio versato in Spagna dallo sponsor della Nazionale (Le coq sportif).