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Club Fabio Belli

Una genovese tra le stelle: la Samp e il volo di Icaro verso la Champions League 1992

di Fabio Belli

“Se mi avessero detto che un giorno una squadra genovese avrebbe disputato una finale di Coppa dei Campioni, gli avrei riso in faccia.” La frase di un vecchio giornalista del Secolo XIX, rende bene l’idea di quando la Sampdoria con due ali da Icaro, il 20 maggio del 1992 si fosse avvicinata a compiere un’impresa senza eguali nella storia del calcio. Wembley per metà blucerchiato, al culmine di un ciclo che aveva visto protagonista una delle squadre più belle e divertenti di tutta la storia del calcio italiano. Ma la Sampdoria, che solo dieci anni prima lottava in cadetteria per ritornare in Serie A, proprio la Sampdoria poteva toccare quasi con mano il Sacro Graal di quella coppa che in Italia solo le cosiddette “strisciate”, le tre grandi storiche del nostro football, sono riuscite ad ottenere.

Tentativi di exploit ce ne sono stati: squadre in grado di farsi rispettare in patria, che hanno provato la campagna europea. Il Toro di Puliciclone negli anni ’70 non ebbe fortuna, nemmeno poté provarci la Lazio, squalificata un anno prima per un’assurda partita di Coppa UEFA contro l’Ipswich Town. Negli anni ’80 il Verona si ritrovò scornato in un duello fratricida contro la solita Juventus che dominava la scena anche in Italia. E poi il Napoli di Maradona, che nella Coppa dei Campioni trovò il suo unico tabù, mentre l’Europa sorrise nell’anno della UEFA. Prima della Samp, in due si erano avvicinate così tanto al sole. Ai tempi della preistoria della Coppa, la Fiorentina invincibile in patria, che si trovò però di fronte la leggenda del Real. E otto anni prima della finale di Wembley, la Roma di Falcao, che visse uno psicodramma dal dischetto proprio sul prato dell’Olimpico.

Ma la Sampdoria era un’altra cosa: dimenticati gli anni a fare la spola tra la B e la A, Paolo Mantovani aveva costruito un gioiello: matti da legare ma fortissimi in campo, i vari Mancini, Vialli, Lombardo, Mannini, Pagliuca e compagnia bella forse avrebbero potuto anche raccogliere di più, se non avessero dissipato tante occasioni negli anni del loro massimo splendore sportivo. Sia chiaro, resta la Samp più vincente di tutti i tempi per una squadra che poteva ricordare la “crazy gang” del Wimbledon, ma che alla goliardia non faceva mai seguire l’indisciplina. Ma nel calcio italiano più competitivo di tutti i tempi, bastava poco per vedersi sfuggire il sogno più grande, lo scudetto.

Vedendo passare gli anni, i ragazzacci terribili misero la testa a posto dopo il Mondiale del 1990, una delusione per Vialli e Mancini, i due “gemelli del gol” blucerchiati. E allora la parola impossibile, scudetto, si materializzò in un dolcissimo pomeriggio di Primavera contro il Lecce. Un “Ferraris” così non si è mai più visto: ma c’era ancora un’idea che ronzava nella testa di una squadra folle ma capace di tutto. E vedere arrivare la Samp fino in fondo fece ancora più impressione perché quella fu la prima edizione della Champions League, che si avviava a diventare un torneo multimilionario e alla portata di pochi. Tra quei pochi, c’era un Barcellona che si presentò però a Wembley afflitto da una maledizione. Mai i blaugrana avevano messo le mani sul trofeo che era invece il maggior vanto degli acerrimi rivali di sempre, il Real Madrid all’epoca ancora a quota sette trionfi.

In panchina c’era Johan Cruyff, in campo Michael Laudrup, Zubizarreta, Koeman, Julio Salinas, Stoichkov, Bakero e un imberbe Pep Guardiola. Dall’altra parte, Vujadin Boskov si ritrovava a combattere l’ultima battaglia: lui stesso sarebbe passato alla guida della Roma, Vialli era già promesso alla Juventus, un’epoca si sarebbe chiusa quel giorno. Ma a discapito della solita leggenda di Davide e Golia, la differenza tecnica in campo non era di quelle incolmabili. E la Sampdoria rischiò di vincerla quella partita, eccome: sia Vialli che Mancini ebbero la chance epocale, in un match in cui comunque la maggiore esperienza internazionale del Barca si faceva sentire, e il numero delle occasioni da gol pendeva decisamente dalla parte dei catalani.

La Samp arrivò ferocemente determinata a giocare quella finale, superando di slancio i primi due turni ad eliminazione diretta, e senza farsi irretire dall’allora inedito meccanismo della fase a gironi, domando in una partita leggendaria la fortissima Stella Rossa campione d’Europa in carica. E c’era da vendicare la sconfitta nella prima finale europea della storia blucerchiata, la Coppa delle Coppe del 1989, perduta a Berna contro quasi gli stessi avversari. Coppa poi vinta l’anno successivo con una doppietta di Vialli contro l’Anderlecht, ma il destino i suoi piani li aveva già scritti forse già in quella tiepida serata svizzera di tre anni prima. Anche le più belle realtà hanno le loro nemesi, e quando a 8′ dalla fine dei supplementari Ronald Koeman prende la sua caratteristica rincorsa, forse tutti i tifosi della Samp sanno già cosa sta per succedere. Le mani di Pagliuca si piegheranno, il Barca spezzerà un tabù quarantennale, e la Samp dopo aver sognato per quasi un decennio, dovrà cominciare a ricordare. Ma quella finale è stata giocata, goduta, la vittoria solo sfiorata, ma Genova ha avuto la sua notte di Coppe e di Campioni. E nessuno ha mai più riso, al riguardo.

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Allenatori Enrico D'Amelio

Josep Guardiola: vincente, mai banale

di Enrico D’Amelio

Un suo storico rivale, Josè Mourinho, ha sempre sostenuto che “chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio”. Una frase sicuramente appropriata e calzante per far capire come anche in uno sport popolare, strumenti come cultura, apertura mentale ed esperienze di vita facciano la differenza per potersi distinguere dagli altri e raggiungere risultati superiori. In altre circostanze, il tecnico di Setùbal affermava che Pep Guardiola fosse capace di vincere “solo nel giardino di casa propria”, riferendosi ai successi ottenuti dallo stesso unicamente nella roccaforte catalana del Camp Nou. Meno male che il tempo è galantuomo, e che l’allenatore spagnolo stia iniziando a dimostrare quanto non sia stato tanto il Barcellona ad essere la sua fortuna, quanto l’opposto. Perché se arrivare primo al traguardo con la macchina più veloce può essere la norma per un pilota, riuscire a oltrepassarlo senza speculare sul risultato, ma fornendo ai propri interpreti dei mezzi basilari per essere migliori degli altri ad altissimi livelli, è un merito innegabile.

Un predestinato della panchina, come tutti quei professori del centrocampo, che vivono per dare fosforo e geometria davanti alla difesa. Pochi i km percorsi negli anni da calciatore, meglio farli fare al pallone in tutte le zone del campo, con la mente che viaggia agli anni a venire, quando verrà il tempo di trasmettere ai più giovani tutto quello che hai maturato nel tempo. Dopo un finale di carriera non degno di una bandiera blaugrana, complici l’esilio in Italia a Brescia e Roma, e spiccioli di calcio inferiore tra Qatar e Messico, l’inizio di ciò che da sempre era scritto nel futuro. A 36 anni una stagione di apprendistato con la squadra B del Barcellona, ad attendere la conclusione fisiologica del quinquennio sotto l’egida di Frank Rijkaard (2003/2008). Poi, a soli 37 anni, la scommessa più rischiosa. Tornare ad essere profeta in patria con la squadra potenzialmente più forte al mondo. Da Rijkaard a Guardiola, da Ronaldinho a Messi. Rifondare una squadra che solo 2 anni prima era diventata Campione d’Europa, e farlo da giovane tecnico che deve imporre idee innovative, impedendo a fenomeni indiscussi di vincere con la sola anarchia. Non straordinari solisti, ma il Gruppo alla base dei successi, oltre al categorico rifiuto della banalizzazione delle vittorie. In un solo anno Guardiola è riuscito nella prima impresa impossibile conquistando il triplete, culminato con il trionfo all’Olimpico di Roma contro il Manchester United nella finale di Champions League 2009. Anche qui la distinzione dell’uomo speciale prestato al calcio, nei momenti della gloria: “Vorrei fare una dedica per questa vittoria al calcio italiano e soprattutto a Paolo Maldini, un esempio per tutti. So che ha avuto qualche problema nel giorno dell’addio, ma sappia che ha l’ammirazione di tutta Europa da venticinque anni, e che per lui le porte del Barcellona sono aperte in qualsiasi momento”. Da lì in poi, la nascita di un ciclo straordinario che profuma ancora di presente per poter essere giudicato dalla Storia. Tutto quello che c’era da vincere dal 2008 al 2012 è finito nella bacheca di Avinguda Aristides. Non sono stati, però, principalmente i trofei conquistati (14) a dare la dimensione di una squadra stellare, quanto la perfezione con cui si è arrivati allo scopo. Storica la risposta a chi gli chiedeva quale fosse il terminale offensivo di una squadra senza ‘numero 9’: “il nostro centravanti è lo spazio”. Nel moderno e consumistico calcio di oggi, però, anche nelle storie d’amore più belle è contemplata la parola fine. Prima che si potesse incrinare qualcosa, dopo un’ultima stagione in cui Liga e Champions League non erano arrivate, Guardiola dice addio (arrivederci?) alla Casa Madre. Troppo stress accumulato e una minor fame di vittorie gli hanno suggerito che era meglio staccare la spina per un anno, prima del nuovo monolite da costruire nel cuore del Vecchio Continente.

A Monaco di Baviera è riuscito addirittura a superare l’impossibile, andando a vincere una sfida ancora più improba. Dopo il triplete di Jupp Heynckes del 2012/13, ha ereditato una squadra ‘sazia’, spostandosi dal suo habitat naturale, ed è riuscito in poco più di un anno a costruire qualcosa di migliore dell’insuperabile. Nella prima stagione la vittoria in Bundesliga è stata una formalità, macchiata soltanto dall’umiliazione patita in semifinale di Champions League contro il Real Madrid di Carlo Ancelotti. Il punto più basso della sua carriera da allenatore, che già dava adito a detrattori un po’ prevenuti di non giudicarlo idoneo a vincere lontano dalla Spagna, e, soprattutto, in un calcio fisico come quello tedesco. I primi mesi della stagione in corso hanno dimostrato, qualora ce ne fosse stato bisogno, che questo Bayern Monaco è già diventato migliore di quello del 2013, e che può seriamente candidarsi ad insidiare il Barcellona migliore di sempre. La Coppa dalle grandi orecchie ritornerà sicuramente in Baviera, probabilmente già da quest’anno, e, cosa più importante, verrà vinta in modo diverso, perché diverse sono le squadre di Guardiola. E allora Mourinho dovrà rassegnarsi. Fino a riconoscere l’oggettiva grandezza di un allenatore speciale, destinato a prendersi in più Nazioni svariati “giardini di casa propria”. Come un vero cittadino del mondo, mai sazio di cercare nuove sfide.

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

2010: Spagna-Olanda 1-0 dts. Con Don Andrés fuori da un tunnel lungo cento anni

di Fabio Belli

Il tempo è un narratore formidabile: col passare degli anni, alcuni aspetti delle varie vicende umane passano attraverso una lente deformante che porta a una vera e propria mitizzazione, spesso anche eccessiva, dei fatti. E’ perfettamente normale dunque che le imprese più recenti, anche nel calcio, abbiano bisogno di tempo per essere metabolizzate, e poi valutate secondo il loro giusto peso. Gli appassionati però sapevano benissimo che l’11 luglio del 2010, a Johannesburg, qualcosa nella storia del football sarebbe cambiato in maniera irreversibile.

Dopo decenni di amarezze, Spagna sul tetto del Mondo
Dopo decenni di amarezze, Spagna sul tetto del Mondo

Di fronte a giocarsi infatti il primo Mondiale africano della storia, c’erano due Nazionali abituate ad essere bollate come “eterne perdenti” nelle grandi competizioni nazionali. L’Olanda, a un passo dalla gloria già per due volte, nonostante sia stata capace a più riprese di fare scuola a livello internazionale, non è mai riuscita ad andare oltre una vittoria europea, quando la squadra di Van Basten, Gullit e Rijkaard era al massimo del suo splendore. Ancor peggiori i precedenti di una Spagna, abituata a dominare il calcio mondiale a livello di club sin dalla fine degli anni cinquanta, ma che rispetto agli olandesi non era mai neppure riuscita ad avvicinarsi al trionfo Mondiale. Il massimo, addirittura, fu il piazzamento tra le prime quattro nel ’50, incredibile per una nazione che, divisa da mille campanilismi, forse non si è mai identificata al 100% nella “Roja“, troppo legata al potere centrale di Madrid, ma che vive da un secolo a pane e calcio, senza aver mai avuto una Nazionale davvero vincente.

Che qualcosa stia cambiando lo si era già capito due anni prima, quando all’alba del ciclo vincente del Grande Barcellona di Pep Guardiola, dopo 44 anni le furie rosse hanno rimesso le mani sul titolo europeo. Ma il Mondiale è un’altra cosa, e la Spagna mai è riuscita ad arrivare in finale. A Johannesburg è la prima volta, passando per delle soffertissime partite contro Paraguay e Germania, e persino una sconfitta all’esordio contro la Svizzera. Più deciso è stato il cammino degli orange, trascinati dalle prodezze di un Robben finalmente al 100% fisicamente, e di uno degli eroi del “triplete” dell’Inter, Wesley Sneijder. La vittoria contro il Brasile ha scatenato l’entusiasmo di una Nazione vendicando la sconfitta in semifinale del 1998, e gli osservatori concordano nel valutare come una squadra forte ma non eccezionale, potrebbe arrivare dove neppure Cruijff nel ’74 ed i tulipani milanisti all’alba degli anni ’90 sono mai riusciti ad arrampicarsi: in cima al mondo intero.

La finale dice però da subito che la cifra tecnica degli spagnoli è nettamente superiore, ma l’Olanda di Bert Van Marwijk ha preparato la partita nei più piccoli particolari. Il palleggio di Xavi, Iniesta, Xabi Alonso e Busquets viene soffocato sul nascere dal gioco duro degli olandesi, con un’entrata di Nigel De Jong su Xabi Alonso a gamba alta particolarmente impressionante. Per replicare il modello – Barcellona anche in Nazionale, a Vicente Del Bosque sull’altra panchina manca un Leo Messi (uno dei protagonisti mancati in Sudafrica, naufragato assieme a tutta l’Argentina allenata da Diego Armando Maradona). Pedro e Villa non riescono ad affondare come ci si aspetterebbe, e il destino della partita resta sul filo del rasoio.

La dedica del match winner Iniesta a Dani Jarque
La dedica del match winner Iniesta a Dani Jarque

Anzi, nel secondo tempo, come era prevedibile, è l’Olanda a trovare il contropiede giusto, con Robben lanciato verso Iker Casillas quasi a colpo sicuro. Il tentativo del fenomeno del Bayern Monaco si infrange però clamorosamente contro il portiere in uscita: è il momento in cui il destino decide di cambiare la storia calcistica della Spagna, e di mantenere immutata quella degli olandesi. Anche se comincia a farsi strada l’ipotesi rigori, visto che il risultato non si sblocca neanche ai tempi supplementari. Nei 10′ finali prima dei tiri dal dischetto, le certezze degli orange crollano: la squadra di Van Marwijk resta in dieci per l’espulsione di Heitinga, e al 116′ incassa la rete di “Don Andrés” Iniesta, uno dei migliori centrocampisti di tutti i tempi, penalizzato a livello “pubblicitario” dal suo carattere schivo. Scoppia una festa che per una volta unisce una Nazione dalla Castiglia alla Catalogna: la dedica finale di Iniesta a Dani Jarque, talento dell’Espanyol stroncato da un malore giovanissimo, è la celebrazione di una generazione che è riuscita a portare la Spagna dove neanche i grandissimi di cento anni di storia (e di sconfitte) l’avevano mai trascinata.