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Club Fabio Belli

Il West Ham degli anni ’60 e i gradini di Wembley

di Fabio Belli

Il calcio a Londra ha mille anime. Rivalità centenarie come quella tra Spurs e Gunners, vecchia e nuova aristocrazia come quella di Queens Park Rangers e Chelsea, realtà passate attraverso mille trasformazioni come il Crystal Palace. Ma ce ne sono altre più fortemente legate alla tradizione che, pur vantando una bacheca decisamente meno ricca di quella delle concorrenti, hanno accumulato un fascino destinato a non tramontare mai. Quella del West Ham è una storia legata a doppio filo agli anni d’oro del calcio inglese e al suo tempio per eccellenza: Wembley.

hammersIl West Ham non ha mai vinto il campionato: ha davvero lottato per il titolo in una sola occasione, nella stagione 1985/86. Fu l’apice del periodo, durato quindici anni, sotto la guida di John Lyall, con Tony Cottee in attacco ed Alan Devonshire a centrocampo a fare da leader in un gruppo partito dalla Seconda Divisione, ma ricco di talento. Alla fine, la vittoria sfumò nella tiratissima volata a tre con Liverpool ed Everton. Tuttavia, qualsiasi tifoso Hammers che si rispetti, identificherebbe l’epoca d’oro del club a cavallo degli anni sessanta, quando il West Ham era guidato da autentici campioni, e soprattutto formava la spina dorsale della Nazionale inglese più forte di sempre.

Era la squadra allenata da Ron Greenwood, maestro della panchina in grado di far sbocciare i talenti del sempre floridissimo settore giovanile degli Hammers. Non per niente uno dei soprannomi più noti del club è “The Academy“, per la sua capacità di portare alla ribalta giovani assi del football. Tra il 1958 ed il 1959, tra di essi emersero tre grandi protagonisti della finale vinta dall’Inghilterra contro la Germania Ovest nella finale del Mondiale giocato in casa nel 1966. Bobby Moore, il capitano, difensore capace di coniugare grinta ed eleganza; Martin Peters, implacabile incursore di centrocampo; ed il bomber Geoff Hurst, l’autore della storica tripletta di Wembley, e soprattutto del celeberrimo gol fantasma che spezzò l’equilibrio nei supplementari contro i tedeschi, in una delle finali rimaste nella storia del calcio.

Moore, Peters ed Hurst: un trio che per tre anni consecutivi fece la storia del West Ham e dell’Inghilterra, salendo per tre volte consecutive i gradini di Wembley per una premiazione. Nel 1964, quando la FA Cup finì per la prima volta tra le mani degli Hammers grazie al gol di Ronny Boyce a 5′ dalla fine del match, tiratissimo, contro il Preston North End. Nel 1965, quando nella finale di Coppa delle Coppe giocata a Londra, la doppietta di Alan Sealey regalò il primo alloro europeo al West Ham, nel 2-0 al Monaco 1860. In entrambi i casi, fu Bobby Moore ad alzare il trofeo, ma l’anno successivo per il capitano arrivò l’emozione più grande, visto che ricevette dalle mani della Regina Elisabetta la Coppa Rimet, quando fu lui con i suoi compagni Hammers, oltre a tutta l’Inghilterra, ad issarsi sul tetto del mondo. Oltre alla tripletta di Hurst che fece impazzire Wembley e tutto il Paese, infatti, fu Martin Peters a siglare l’altra marcatura nel 4-2 finale in favore dell’Inghilterra. Anni irripetibili, quando pensare West Ham significava dire mondo.

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Allenatori Calciatori Fabio Belli

Boxing Day, il giorno del destino di Brian Clough

di Fabio BELLI

Di Brian Clough, l’allenatore senza peli sulla lingua che portò la classe operaia inglese in Paradiso grazie alle vittorie ottenute alla guida di Derby County e Nottingham Forest, si è detto e scritto davvero molto. In parecchi da tempo lo giudicano l’antesignano di Josè Mourinho negli atteggiamenti, anche se “Cloughie” era profondamente diverso in molti aspetti, soprattutto era molto più rude e ruvido pur essendo stato il primo, alla stregua di quanto poi perfezionato dal portoghese, a comprendere l’importanza e il ruolo dei media e della comunicazione nel calcio.

clougMeno si conosce però del Clough calciatore, autentico flagello divino in linea con le sue caratteristiche fisiche, piccolo attaccante dalla grande rapidità e reattività e soprattutto dal controllo di palla sullo stretto capace di fare impazzire qualsiasi difensore. Del Clough calciatore Bill Shankly, il manager che diede vita alla leggenda del Liverpool, diceva: “E’ peggio della pioggia di Manchester, quella almeno ogni tanto smette.” Sotto porta Clough invece non conosceva soluzione di continuità: con la maglia del Middlesbrough arrivò a segnare 197 reti in 212 apparizioni in campionato e si assestò su quelle medie anche dopo il suo passaggio al Sunderland all’inizio degli anni ’60.

Ma la sua carriera da calciatore si spezzò di fatto quando non aveva ancora compiuto ventotto anni: Clough subì un gravissimo incidente nel giorno di Santo Stefano del 1962, il cosiddetto Boxing Day. Chiamato così perché in Inghilterra è tradizionalmente legato all’usanza, nata nell’Ottocento. di regalare doni ai dipendenti o ai membri delle classi sociali più povere. In particolare, era consuetudine delle famiglie agiate britanniche preparare delle apposite scatole con all’interno alcuni doni e avanzi del ricco pranzo di Natale, da destinare al personale di servizio a cui era concesso libero il giorno successivo al Natale, per far visita alle proprie famiglie. Il 26 dicembre segna ormai da decenni l’inizio della maratona calcistica che gli appassionati di calcio in Gran Bretagna possono gustarsi nel periodo delle feste, quando qualche giorno di ferie aiuta a pensare più spensieratamente al football. Un’atmosfera sempre festosa ma che nel Boxing Day del 1962 segnò la fine del talento di Clough che molti ritenevano avrebbe potuto trovare compimento negli imminenti Mondiali in Cile. Pur considerando che il futuro leggendario allenatore rimase sempre ai margini dei Leoni Bianchi, collezionando solo due apparizioni in Nazionale in carriera, vuoi per la feroce concorrenza dell’epoca, vuoi per un carattere già ai tempi sin troppo schietto.

Ad ogni modo in quel 26 dicembre 1962 era programmata la sfida tra Sunderland e Bury: uno scontro con il portiere della squadra dei sobborghi di Manchester e il legamento crociato salta, un infortunio che segna la fine della carriera, a quei tempi, nella maggior parte dei casi. E Clough non fa eccezione: dopo un anno e mezzo di tentativi andati a vuoto, l’idea del rientro in campo per lui si fa da parte. L’Inghilterra perde un formidabile, astuto attaccante, ma trova nel contempo un allenatore destinato a lasciare sui tempi un segno indelebile. Le rivincite per Clough saranno molteplici, dal portare il Derby County dal fondo della Seconda Divisione alla vetta d’Inghilterra, ed il Nottingham Forest per due volte consecutive sul trono d’Europa. Ma il cerchio col Boxing Day si chiuderà solo ventidue anni dopo, quando Clough farà esordire proprio in occasione del Santo Stefano in campo, alla guida di un Forest ormai affermatissimo, il figlio Nigel appena diciottenne. Il quale inizierà nel 1984 una brillante carriera che lo porterà a partecipare agli Europei del 1992 con la maglia dell’Inghilterra, per seguire infine le orme paterne come allenatore. Un classico, perfetto caso di giustizia poetica.

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Fabio Belli Football Mystery: la webserie

Football Mystery 3×01: l’ineffabile Bakhramov

di Fabio BELLI

Il terzo ciclo dei racconti di Football Mystery parte con quello che viene ricordato, probabilmente, come il gol fantasma più famoso della storia del calcio. Quello che decise il Mondiale del 1966, l’unico vinto dagli inventori del football, gli inglesi. Lo segnò il gioiello della West Ham Academy Geoffrey Hurst, ma la decisione che cambiò la storia di una Coppa del Mondo la prese un guardalinee azero: l’ineffabile Bakhramov.

I FATTI

Il 30 luglio del 1966 a Wembley Inghilterra e Germania Ovest si giocano il titolo. Gli inglesi hanno la spinta del pubblico di casa, ma anche la responsabilità di non deludere una nazione intera. E i tedeschi hanno evitato la sconfitta all’89’ con un gol di Weber, che ha portato la partita ai supplementari. 2-2 al 90′, l’Inghilterra vede all’orizzonte il rischio di una beffa come quella che ha schiantato i brasiliani nel 1950. La storia la cambia una bordata di un superbo centravanti, Hurst, col pallone che sbatte sulla traversa e rimbalza sulla linea. Dentro o fuori? Da 53 anni non c’è una risposta certa a questa domanda, ed è qui che entra in gioco il nostro protagonista: Tofiq Bakhramov.

IL PERSONAGGIO

Quando il pallone va a sbattere sulla traversa e poi sulla linea, tenendo col fiato sospeso i 100.000 di Wembley e, contestualmente, tutta l’Inghilterra e la Germania, l’arbitro della finalissima non è nella posizione migliore per capire. Si tratta dello svizzero Dienst, che immediatamente va a interloquire con il guardalinee meglio posizionato. Si tratta di Bakhramov, azero di
nascita ma sovietico di rappresentanza ai Mondiali del 1966. Passano alcuni interminabili secondi, ne nasce un dialogo paradossale con Dienst che parla solo tedesco e un po’ d’inglese, l’azero oltre alla lingua madre mastica il russo. Ma quello del calcio è un linguaggio universale e Bakhramov, come dimostrerà nel seguito della sua carriera arrivando a diventare segretario della federazione dell’Azerbaigian, ha un talento naturale per la diplomazia e sa prendere la decisione giusta al momento giusto. E’ gol! E l’Inghilterra sarà campione.

LE ACCUSE

Le voci si sprecheranno. I tedeschi accusarono Bakhramov di aver deciso per vendicare l’Unione Sovietica eliminata in semifinale proprio dalla Germania Ovest anche a causa della discussa espulsione, da parte dell’arbitro italiano Concetto Lo Bello. Inoltre, seppur i replay dell’epoca non chiarissero la situazione, i tedeschi lamentavano il fatto che una nuvola di gesso si fosse alzata al momento del rimbalzo della sfera prova inequivocabile che aveva toccato, e quindi non varcato completamente, la linea. Di sicuro l’esperienza non mancava a Bakhramov che non era neanche guardalinee, ma già arbitro Nazionale del 1964. Quella decisione lo rese l’azero più influente nella storia del calcio, tanto che oggi lo stadio della capitale Baku è dedicato a lui. Ma il pallone era entrato o no?

LE CONCLUSIONI

Come detto, la certezza assoluta ancora non c’è, anche se si propende quasi all’unanimità per il no. Nel 1995 uno studio dell’università di Oxford, il più approfondito sulla questione, stabilì con l’aiuto dei computer e della tecnologia come il pallone non avesse varcato completamente la linea. Bakhramov spiegò sempre di aver visto il pallone toccare la rete e non la traversa e poi rimbalzare dentro e di non essersi dunque mai posto il problema se la sfera avesse superato o meno la fatidica linea. Una spiegazione da maestro di diplomazia, sicuramente furba, sicuramente coerente con un personaggio che con una sola decisione ebbe la freddezza di indirizzare un intero Mondiale di calcio, tanto da essere ricordato da tutti col soprannome di “ineffabile” a decenni di distanza.

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Calciatori Fabio Belli

Mike Summerbee, che giocò con un casco da poliziotto in testa

di Fabio BELLI

Nella storia del calcio inglese non mancano i personaggi estrosi, anzi essi sono forse presenti in misura maggiore rispetto a qualunque altro paese. Calciatori spesso sopra le righe, a volte afflitti da problemi anche molto gravi, sfociati nell’alcolismo, nella solitudine, nello spreco del proprio talento. Da George Best a Paul Gascoigne fino a Tony Adams gli esempi sono innumerevoli; in altri casi invece l’essere eccentrici non andava di pari passo con la rovina, ed anzi quel che resta di tanti comportamenti curiosi non è altro che un mucchio di aneddoti da ricordare con vero piacere.

Nella stagione appena trascorsa il Manchester City si è nuovamente laureato Campione d’Inghilterra al culmine di un ciclo vincente avviato dalla proprietà degli sceicchi. Ma per ogni tifoso dei “Citizens” il titolo indimenticabile e più romantico è quello del 1968, quando la squadra di Malcom Allison e Joe Mercer, resa immortale dal capolavoro letterario “Manchester United Ruined my Life” di Colin Shindler, si issò sul tetto del calcio britannico partendo da presupposti del tutto differenti rispetto alla squadra attuale. Si trattava di una formazione “fatta in casa“, partita dalla conquista del campionato di Seconda Divisione e giunta a piccoli ma decisi passi alla conquista del titolo nazionale. La micidiale coppia d’attacco composta da Francis Lee e Colin Bell, il carismatico capitano Tony Book, il rapidissimo Neil Young erano solo alcuni tra gli elementi di spicco di una formazione davvero ben costruita e che conquisterà nei due anni successivi anche la FA Cup e la Coppa delle Coppe.

Tra di loro però l’idolo incontrastato dei tifosi era senz’altro Mike Summerbee, astutissimo e tecnicamente dotato centrocampista di destra che proprio con Young aveva il compito di sostenere la temibile linea d’attacco degli sky blues. Summerbee era stato pescato da Allison appena ventitreenne dallo Swindon Town, possedendo le qualità ideali per esaltare con idee e palloni giocabili la vena realizzativa in particolare di Bell. Ma fu il carattere istrionico del ragazzo di Preston a conquistare i tifosi che allora affollavano Maine Road, prima ancora delle sue eccellenti doti che lo portarono a far parte della Nazionale inglese bronzo a Roma ’68 negli Europei vinti dagli azzurri, proprio nell’anno dello scudetto del Manchester City.

L’altra parte della città era in preda al delirio per George Best, fenomeno anche mediatico di impatto planetario e proprio in quegli anni capace di conquistare il Pallone d’Oro e di portare per la prima volta la Coppa dei Campioni in Inghilterra con il suo United. I tifosi del City allora si coccolavano Summerbee e le sue imprevedibili invenzioni. Nelle interruzioni di gioco dava il meglio di sé, mettendosi ironicamente a massaggiare la gamba infortunata di un avversario, quando riteneva simulasse, oppure inscenando siparietti memorabili con gli arbitri. Ma il massimo lo toccò quando, battendo una rimessa laterale, rubò ad un poliziotto il tipico casco da “Bobby” inglese, continuando a giocare con quell’affare in testa per qualche minuto buono tra l’ilarità generale. Ai tempi in cui anelli e catenine indosso ai giocatori erano ancora tollerati, fu un irripetibile tocco di nonsense. Le doti da mattatore a fine carriera valsero a Summerbee anche una parte in “Fuga per la vittoria” e neanche oggi, da fresco settantenne, ha dimenticato i tanti tiri mancini giocati con il suo sorriso a salvadanaio.

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Allenatori Fabio Belli

Solo Brian Clough costruì Roma in un giorno

di Fabio BELLI

Rome wasn’t build in a day” è un detto molto popolare oltremanica. Quando lo riferirono a Brian Clough in merito alla pazienza necessaria per costruire un progetto vincente, lui aggiunse a modo suo: “E’ vero, Roma non fu costruita in un giorno: è anche vero però che nessuno mi chiese di prendere parte al progetto.” Perché altrimenti…

Il 20 settembre del 2004, dieci anni fa, “Cloughie” lasciava questo mondo, cedendo alla sofferenza fisica che doveva subire in seguito all’abuso di alcol, che lo costrinse anche ad un trapianto di fegato. Un vizio, quello della bottiglia, che era peggiorato in vecchiaia, in un mondo che cambiava troppo velocemente, e nel quale stentava a riconoscersi, proprio lui che per primo fra tutti aveva intuito certi mutamenti del calcio: l’importanza dei media, e quella dei soldi, due demoni che lui sfruttò a suo favore, per portare la provincia al potere.

Clough e Peter Taylor riuscirono nell’impresa di far vincere al Nottingham Forest più Coppe dei Campioni che scudetti nella sua storia. Non a caso, la biografia del tecnico, chiamata “Walking on water“, si riferiva proprio alla sua capacità di “fabbricare” miracoli, e di ripetere un’esperienza come quella di Derby, che sembrava unica nel suo genere, a Nottingham. Anzi, più che ripeterla completarla, perché al Derby County di Clough mancò la gloria europea, sogno infranto in una semifinale contro la Juventus che, inevitabilmente, segnò la fine dell’idillio col presidente di quella che era stata la sua creatura.

Nonostante a Nottingham la Coppa dei Campioni divenne quasi un’abitudine, il rimpianto più grande della carriera di Brian Clough, almeno stando a quanto disse lui stesso, resta aver lasciato il Derby County. Taylor non lo avrebbe mai fatto: fu la crepa che portò i due a non parlarsi mai più dopo l’ennesimo litigio a Nottingham, quando la gloria, più che i quattrini, non riuscì più a tenere insieme la coppia di tecnici meglio assortita della storia d’Inghilterra.

L’ambizione e l’abilità mediatica di Clough, oltre all’estrema lucidità tattica e alla capacità manageriale, si sposavano perfettamente con le straordinarie qualità di talent scout di Taylor, che trovava sempre nella realtà quei giocatori che l’altro aveva immaginato nella sua mente per fare grandi piccole squadre di provincia. Così arrivarono i fedelissimi come McGovern e O’Hare che seguirono Brian anche a Leeds e a Nottingham, così arrivò l’intuizione di portare Archie Gemmill e soprattutto Trevor Francis al City Ground. Francis è stato l’esempio evidente di come Clough operasse per plasmare le sue creature: spingere i bilanci di club fuori dall’aristocrazia del calcio al limite, al massimo delle loro potenzialità. L’azzardo di investire un milione di sterline, record per l’epoca, su un giocatore che, per le regole di allora, avrebbe potuto scendere in campo solo nell’eventuale finalissima di Coppa dei Campioni. Che il Nottingham giocò, e vinse, con un gol di…? Esatto, neanche a dirlo.

Se Dio avesse voluto che giocassimo per aria, avrebbe messo dell’erba lassù“, è un’altra sua famosissima citazione, emblema della sua predilezione per il gioco palla a terra, quasi un’eresia nel calcio inglese degli anni ’70. Segno che oltre che per quanto riguarda soldi e dichiarazioni a stampa e televisioni, Clough aveva capito in che direzione stava andando il calcio prima di molti altri. Dopo il divorzio da Taylor, l’alba degli anni novanta ne fiaccò lo spirito con una triplice delusione, quasi consecutiva. L’approdo mancato sulla panchina del Galles, lui che era convinto di poter portare la nazionale di Mark Hughes a Ian Rush a Italia ’90; la tragedia di Hillsborough, che spezzò il suo cuore di proletario di Middlesbrough, abituato alle folle oceaniche che vivevano il calcio come un rito in armonia, estranee alla follia degli hooligans; infine, la delusione della finale di FA Cup, l’unico trofeo che gli è sempre sfuggito, perduta contro il Tottenham nel giorno dell’infortunio di Paul Gascoigne.

Guidare una nazionale è il massimo obiettivo per un allenatore“, aveva detto più volte, convinto che il suo anticonformismo, dai e dai, insisti e insisti, non gli avrebbe precluso la panchina dell’Inghilterra. Non arrivò nemmeno quella gallese, e la storia praticamente finì lì. Finché ha potuto, è rimasto a parlare alla radio e alla televisione, con quel tono di chi la sapeva lunga, e la sapeva davvero, non solo a chiacchiere: Brian Clough, se voleva, Roma te la tirava su con una giornata di duro lavoro e un doppio whisky a cose fatte.

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Calciatori Fabio Belli

Gordon Banks e la parata su Pelé: la più bella di sempre

di Fabio BELLI

Il periodo alla fine degli anni ’60 è stato sicuramente il più florido di successi per la nazionale inglese. Dopo le storiche umiliazioni degli anni ’50, col mondiale brasiliano e le sconfitte contro la leggendaria Ungheria che fecero scendere definitivamente gli inventori del football dal loro piedistallo, la Football Association si era messa al lavoro per eliminare quell’alone grigio che aveva resto il calcio d’oltremanica quantomeno antiquato. L’arrivo di Alf Ramsey alla guida della selezione dei Tre Leoni cambiò la storia e la vittoria nel Mondiale disputato in casa nel 1966 riportò gli inglesi al livello delle grandi potenze calcistiche. Di quella nazionale ricchissima di talenti, da Charlton a Moore, da Hurst a Peters, l’Inghilterra conserva anzi un ricordo che sfocia nel rimpianto visto che, al di là dell’exploit iridato, quella formidabile generazione non venne sfruttata per mietere ulteriori successi.

Agli Europei del ’68 in Italia, risoltisi con un ulteriore trionfo di chi ospitava la manifestazione, arrivò solo un terzo posto che, attualmente, è ancora il miglior risultato in assoluto per gli inglesi nella rassegna continentale. Ma il rammarico maggiore si concentra sulla successiva partecipazione in un Campionato del Mondo destinato a restare nella leggenda, quello del 1970 in Messico. L’Inghilterra subì la vendetta da parte dei tedeschi, battuti in finale quattro anni prima, che si imposero nei quarti di finale rimontando da 0-2 a 3-2. Fu il match che segnò il passo d’addio di Ramsey in un “Mundial” comunque costellato di episodi destinati a rimanere a lungo nella memoria dei britannici. Su tutti quella che viene ancora considerata la più incredibile parata di tutti i tempi.Venne effettuata da Gordon Banks su Pelé nel match vinto di misura dal Brasile contro gli inglesi nella fase eliminatoria.

Il numero uno di Sheffield resta assieme a Peter Shilton il più grande estremo difensore inglese di sempre. Curioso che entrambi abbiano speso gli anni migliori della loro carriera al Leicester City e che, ai tempi del Mondiale 1970, Banks giocasse già nello Stoke City dove si era trasferito proprio perché la dirigenza del Leicester aveva deciso di lanciare Shilton come titolare. Banks era comunque sulla cresta dell’onda anche dopo aver lasciato Leicester e si era presentato in Messico con le credenziali di miglior portiere del pianeta assieme al russo Jascin. I Campioni del Mondo in carica vennero sorteggiati nel girone eliminatorio contro il fortissimo Brasile di Pelé che raccoglierà la loro eredità, imponendosi come detto nello scontro diretto, anche se poi inglesi e brasiliani approderanno a braccetto ai quarti di finale.

Di quella partita, disputata il 7 Giugno del 1970 a Guadalajara, i tifosi inglesi ricorderanno però per sempre la prodezza di Banks su un colpo di testa a botta sicura di O Rey. Jairzinho, che segnerà poi il gol partita, si liberò sulla destra pennellando un cross irresistibile per quello che allora era unanimemente considerato il più forte giocatore del mondo. Pelé schiacciò di testa con potenza da posizione ravvicinata e praticamente a colpo sicuro, con Banks lanciato in un tuffo “coast to coast”, costretto com’era stato dall’azione di Jairzinho a coprire sul primo palo. Il gol sembrava inevitabile, ma lo slancio di Banks ebbe del soprannaturale: nonostante la palla avesse rimbalzato praticamente sotto il suo naso, con la mano di richiamo riuscì a deviare il pallone sopra la traversa. Lo stesso Pelé, mentre il Brasile si apprestava a battere il conseguente calcio d’angolo, si avvicinò a Banks con l’indice puntato dicendo, come testimoniato dal portiere: “Non è possibile quello che hai fatto”. Di sicuro si trattò di un gesto atletico forse irripetibile, incastonato tra gli episodi che hanno immortalato nella storia quella magica estate messicana.

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Calciatori Fabio Belli

Luther Blissett, chi era costui? Da “bidone” anni ’80 a volto della controcultura letteraria

di Fabio BELLI

Dici oggi: “Luther Blissett“. E magari questo nome non ricorda granché, o magari proprio nulla. Ma ancor più strano, potrebbe essere qualcosa che riporta alla mente di persone diverse cose completamente differenti.

Resta il fatto che un retrogusto di “sentito dire” nella mente comincia a farsi insistente. Nomi che suggeriscono qualcosa ma non si sa bene cosa. Se si è appassionati di calcio anni ’80 il mistero è meno fitto. Se poi si è tifosi del Milan è difficile non ricollegare il nome di Blissett al soprannome di “Calloni Nero“. Si tratta infatti di uno degli ultimi disgraziati acquisti dell’era del presidente Giussy Farina. Blissett fu di fatto il primo giamaicano a giocare nel campionato italiano nonché capocannoniere della Premier League (allora ancora First Division) 1982/83 con la maglia del Watford. Squadra, quest’ultima, della periferia londinese salita per la prima

volta alla ribalta delle cronache grazie alla passione sfrenata di Elton John per il club, del quale la rockstar diverrà proprietario.

Non che i tifosi abituati a bazzicare Vicarage Road, lo stadio del Watford, amassero esageratamente Blissett. Tanto da battezzarlo “miss it“, ovvero sbagliato, giocando sull’assonanza col cognome e facendo il verso alle volte in cui, con queste parole, i cronisti

locali dovevano terminare il racconto di un’azione da gol passata tra i suoi piedi. “Miss it” vive però la sua stagione d’oro viaggiando quasi alla media di un gol a partita e realizzando anche, contro il Lussemburgo, una tripletta con la nazionale inglese nella quale gioca da naturalizzato. Un unicum in una carriera che non vivrà più exploit in nazionale. Il Milan neopromosso in Serie A ma desideroso di tornare in fretta nell’élite del calcio nazionale decide di portare dunque Blissett a giocare nel Bel Paese.

L’impatto è tragicomico: i gol falliti da Blissett fanno impressione non solo per quantità ma soprattutto per qualità. Alcuni appoggi mancati da una distanza inferiore ai due metri restano ai confini della realtà e fanno disperare Farina tanto quanto le due recenti retrocessioni. In un derby contro l’Inter supererà sé stesso ma gli errori si sprecano per tutta la stagione. Tornerà al Watford e vestendone la maglia realizzerà comunque 149 reti in carriera. In Italia lascerà comunque un segno profondo quanto inspiegabile nell’immaginario collettivo.

Ed è qui che la storia si fa intrigante: forse è stato l’essere il primo calciatore giamaicano di successo, sull’onda emotiva della scomparsa di Bob Marley, ad aver attirato l’attenzione dei non appassionati di calcio e degli amanti delle culture alternative musicali e non solo. Resta il fatto che a metà degli anni ’90 a Bologna nasce il “collettivo Luther Blissett“, espressione italiana di un movimento internazionale di controcultura letteraria ed artistica. Wikipedia lo definisce “uno pseudonimo collettivo utilizzato da un numero imprecisato di performer, artisti, riviste underground, operatori del virtuale e collettivi di squatter americani ed europei. (…) Il personaggio collettivo, definito da alcuni “un’opera aperta“, è stato spesso utilizzato per denunciare la superficialità e la malafede del sistema mass-mediatico. Azioni, sabotaggi, performance, manifestazioni, pubblicazioni, video, trasmissioni radiofoniche di e su Luther Blissett hanno diffuso il suo nome in tutto il mondo.”

Viene anche realizzato un volto “virtuale”, un’immagine di una persona in realtà inesistente che compare sulla quarta di copertina dei libri firmati Luther Blissett e sui manifesti delle iniziative legate allo pseudonimo. Col tempo l’immagine dell’alter ego viene col tempo associata al nome con maggior immediatezza rispetto a quella del calciatore. Così Blissett diventa uno, nessuno e centomila tra libri che portano il suo nome, musica, arte varia e intrattenimento. L’originale, per la cronaca, ora a 50 anni suonati sfreccia sulle piste di mezzo mondo con la sua scuderia automobilistica, la Team48 Motorsport. Ma cosa ci abbiano visto in lui, a livello di figura ispiratrice, i trendsetters della cultura underground a livello globale resterà per sempre un mistero.

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Club Fabio Belli

Blackburn Rovers, ovvero: Tim Sherwood meglio di Zidane

di Fabio Belli

In molti ritengono che le radici del calcio moderno, così come quelle del calcio antico, abbiano origine in Inghilterra. Di sicuro il football d’oltremanica, all’inizio degli anni novanta, è stato il primo che ha saputo riformarsi e trasformarsi in una vera e propria macchina da soldi: parliamo di ricavi, e non i miliardi investiti dai tanti che hanno usato il pallone come vetrina o, perché no, anche come sfizio personale. E non è un caso che a vincere nell’ultimo anno della vecchia Football League sia stato il Leeds United: il passaggio di Eric Cantona dallo Yorkshire agli odiati rivali del Manchester United, e con esso anche lo scettro di squadra padrona d’Inghilterra, ha rappresentato un vero e proprio cambio di epoca.

A quelli a cui il calcio moderno non piace, viene facile individuare questo momento come quello della morte dei tempi più romantici e avventurosi del football. Eppure, anche nel rigidissimo scacchiere della Premier League, dal 1993 ad oggi vinta da sole quattro squadre, due di Londra (Arsenal e Chelsea) e due di Manchester (United e City), c’è stata l’eccezione che conferma la regola. E di eccezione si può parlare a tutti gli effetti, visto che negli ultimi 25 anni i titoli nazionali dei campionati di primo livello, quando non sono finiti tra le mani di grandi canoniche, hanno premiato club che avevano effettuato investimenti enormi sulla loro crescita. Lazio e Roma in Italia, ma anche Deportivo La Coruna e Valencia in Spagna, oppure il Wolfsburg in Germania, sono squadre arrivate al titolo allestendo formazioni con fior di campioni, e potendo contare su una potenza economica non indifferente.

Agli occhi di oggi appare incredibile quindi che nel 1995 il titolo sia stato festeggiato dal Blackburn Rovers: espressione di una cittadina di appena centomila abitanti nel cuore del Lancashire, e club passato alla storia per aver posto le basi della nascita del “sistema”, proponendo un 2-3-5 chiamato fantasiosamente “Piramide di Cambridge”. Piccolo particolare, era il 1893: anni ruggenti del calcio inglese, nei quali il Blackburn aggiunse a cinque FA Cup conquistate prima dell’avvento del ventesimo secolo, anche due titoli d’Inghilterra datati 1911 e… 1914. Ritrovare ottantun anni dopo ai vertici del calcio i Rovers non era certo nei piani degli ideatori della ricchissima Premier League, ma quella del 1995 fu una squadra che fece della normalità un lusso.

Nel 1992 il Blackburn si era classificato sesto in seconda divisione: la promozione nella neonata Premier arrivò grazie ad una vittoria da outsider assoluta nei play off. Ma quella squadra era pronta ad esplodere: dal Chelsea arrivò in prestito un diavolo della fascia, feroce progressista e mente geniale, Graeme Le Saux. In attacco, il club aveva speso cinque milioni di sterline per affiancare ad Alan Shearer il quotatissimo Tim Sutton del Norwich City, e alle loro spalle c’era il fantasioso Tim Sherwood, nel quale Kenny Dalglish in panchina riponeva una fiducia cieca. Tanto che per puntare su di lui, il club evitò la stagione successiva al titolo di versare quattro milioni di sterline nelle casse del Bordeaux per un certo… Zinedine Zidane. Roba che probabilmente avrebbero spedito nel Lancashire dalla Francia anche una cassa di vini omaggio per chiudere l’affare.

Tornando alla stagione del titolo, dietro alle imprese del Blackburn c’era il magnate dell’acciaio Jack Walker, tutt’altro che un Berlusconi per l’epoca, soprattutto rispetto alle grandi che spendevano e spandevano, Manchester United in testa. Ferguson diede una bella ripassata a Dalglish sia all’andata che al ritorno, ma contro le cosiddette piccole il Blackburn non perdeva un colpo né in casa né in trasferta. Era la normalità al potere: Alan Shearer segnava come nessun altro in Europa (chiuse il campionato con 34 reti!), e nelle interviste indicava salsicce e fagioli come suo piatto preferito. Era una squadra che non faceva sognare nessuno, tranne i suoi tifosi e i migliaia di simpatizzanti che in Europa ne seguivano l’impassibile scalata.

All’ultima giornata, i Rovers avevano 2 punti di vantaggio sullo United, e dovevano giocare ad Anfield contro il Liverpool. Lo United andava sul campo del West Ham con la certezza di vincere il titolo in caso di arrivo a pari punti, per la migliore differenza reti. Gli Hammers passarono in vantaggio mentre Shearer buttava nel sacco il suo ultimo pallone della stagione. Un lieto fine annunciato? Macché: il Manchester United prese a dominare contro un West Ham senza più obiettivi in campionato, e pareggiò facilmente, bombardando letteralmente il portiere avversario Miklosko, mentre Barnes e Redknapp (al 93′) ribaltano la situazione a Liverpool. I tifosi del Blackburn impallidiscono, mentre la tv inglese negli ultimi 30 secondi tiene la telecamera fissa su Kenny Dalglish, che appare quasi rassegnato a ricevere la notizia più temuta: grazie a Miklosko la beffa però non arriverà mai, e dopo aver assaggiato cos’era un vero thriller, i super-normali festeggiarono un titolo atteso 81 anni. Incredibile ma vero: e con Zidane la storia probabilmente sarebbe continuata, ma in fondo in un angolo del Lancashire sanno bene che non sono loro ad essersi persi Zizou, ma il resto del mondo a non aver ammirato da vicino Tim Sherwood al massimo della sua forma.

 

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Calciatori Fabio Belli

7 febbraio 1970, Manchester United – Northampton 6-0: sei volte the Best

di Fabio Belli

7 febbraio 1970: un turno di FA Cup come ce ne sono stati tanti, e come tanti ce ne saranno in futuro. Il Manchester United sicuramente in quegli anni ha vissuto sfide e storie più emozionanti: dalle ceneri del disastro aereo di Monaco, Matt Busby ha saputo costruire una squadra da leggenda, la prima capace di portare la Coppa dei Campioni in Inghilterra, la seconda in assoluto in Gran Bretagna dopo il Celtic. Una partita col Northampton Town, in un Old Trafford massacrato dal fango a causa del maltempo tipico dei primi giorni di febbraio, non ha esattamente il massimo dell’appeal.

Tuttavia, c’è il pubblico delle grandi occasioni a seguire i Red Devils. Il fascino della FA Cup che in Inghilterra è sempre forte, certo, ma c’è anche un’altra motivazione a spingere i tifosi. George Best, a poco più di un anno dal riconoscimento più ambito per un calciatore a livello individuale, il Pallone d’Oro, torna in campo da titolare dopo uno stop disciplinare di sei settimane. Disciplinare, esatto, ma non dovuto al giudice sportivo: è stato il club a fermare il numero sette nordirlandese, come sanzione per le sue continue intemperanze dentro e fuori dal campo.

E’ soprattutto in allenamento che Best riesce a dare il peggio (o il meglio, dipende dai punti di vista) di sé: si presenta in pelliccia o non si presenta proprio, ha l’indolenza di un pensionato al bar, e qualcuno ha anche riferito ai manager come abbia pagato i giocatori delle giovanili per guardarlo in performance all’interno dello spogliatoio con signorine di che sportivo non avevano poi molto. Gli eccessi di Best sono leggendari, e chi conosce la sua storia sa bene come lo porteranno ad una chiusura della carriera incredibilmente precoce, soprattutto se commisurata al talento a disposizione. Ne è consapevole lo stesso “Georgie”, che tuttavia non ha preso bene la sanzione in questione. Anzi, l’ha presa malissimo, come se il Manchester United, in cui Bobby Charlton contava come un dirigente, lo volesse sfruttare come capro espiatorio in seguito al caso fisiologico dopo i tanti trofei conquistati alla fine degli anni sessanta.

Bene, Manchester United-Northampton è forse una delle pochissime testimonianze sul campo di ciò che Best avrebbe potuto fare spingendo sempre sull’acceleratore sul campo, e mai nella vita. Il “sette” si presenta tirato a lucido al cospetto di un avversario modesto, ma quanti mediocri terzini in fondo erano riusciti ad annullare il talento di Best se in giornata no, soprattutto se reduce da una sbronza o da una fuga romantica con qualche miss da copertina? Ecco, quel 7 febbraio del 1970, esattamente 45 anni fa, il Northampton ebbe un assaggio del Best atleta: nulla a che vedere neppure col Best genio, che piegò il Benfica in Coppa dei Campioni dribblando tutti ma rinunciando a sdraiarsi sulla linea di porta e spingere il pallone in rete di testa “per non far venire un infarto a Busby”, come da lui stesso narrato.

Il risultato finale dirà: Manchester United-Northampton Town 6-0. Marcatori: Best, Best, Best, Best, Best, Best. Esatto, il Best inedito è quello che segna sei reti lottando su tutti i palloni, sfruttando tutti gli spazi e rinunciando a servire le valanghe di assist che regalavano gloria ai compagni, poi pronti subito a scaricarlo di fronte alle sue debolezze. Un gol per ogni settimana di sospensione: un altro paio se li mangia per puro egoismo, per il gusto di far vedere che certe partite, volendo, avrebbe potuto giocarle anche da solo. E al sesto pallone in fondo al sacco, Best abbraccia il palo esausto, al culmine di una perfomance irripetibile per chiunque altro: a osservarlo, l’esultanza si riduce in uno sguardo pieno di malinconia che si trasforma in un ghigno beffardo. La conferma, nella sua mente, che sei gol su un campo di calcio non valevano la felicità, e che non c’era motivo di avere rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato. Sei gol in una partita non erano quello che Best cercava dalla vita, ed è stata questa consapevolezza a renderlo unico.

 

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Club Fabio Belli

La storica eliminazione del 1992: Wrexham-Arsenal e il miracolo al Racecourse Ground

di Fabio Belli

Nick Hornby nel suo celeberrimo “Febbre a Novanta” prende questa sconfitta come metro di paragone per il fatto che nessun momento felice, nel calcio, dura mai abbastanza a lungo. Dopo un’attesa ventennale la vita dello scrittore e dell’Arsenal sembrano prendere la piega desiderata, ma sul più bello, nel pieno della gestione di George Graham che ha riportato i Gunners alla gloria nazionale, arriva la doccia fredda. Nella stagione 1991/92, ambizioni europee frustrate dal Benfica, e quelle interne dal… Wrexham. Quanto accaduto il 4 gennaio del 1992 al Racecourse Ground, nel terzo turno di FA Cup, resta impresso nella memoria di tutti i tifosi inglesi e gallesi, e torna d’attualità con l’altrettanto clamorosa eliminazione, nel primo turno della Coppa di Lega, del Manchester United per mano del Milton Keynes Dons.

Quella però è storia di oggi: sono invece passati ventidue anni dal miracolo del Racecourse Ground, uno dei campi più gloriosi del Galles, casa del Wrexham e spesso anche della Nazionale locale. Uno stadio che il Guinness dei Primati riconosce come il più antico della storia del calcio tra quelli ancora in piedi. A livello di club, il momento più alto al Racecourse fu vissuto senza dubbio in quella fredda giornata di gennaio, con le festività natalizie ancora non del tutto consumate.

Il fascino della FA Cup è noto: si parte dagli scontri tra le più piccole, amatoriali, sconosciute realtà del calcio britannico, e man mano si arriva al fatidico terzo turno, dove le formazioni in grado di azzeccare una buona serie di vittorie nelle fasi preliminari, possono arrivare ad affrontare i giganti del calcio inglese. Così accadde al Wrexham, che nel 1992 si trovava in quarta divisione, in declino dopo un passato di tutto rispetto, che negli anni ’70 aveva portato il club a disputare anche i quarti di finale della stessa FA Cup, e quelli di Coppa delle Coppe contro l’Anderlecht, competizione alla quale i club gallesi che partecipavano ai campionati inglesi potevano comunque accedere, grazie ai successi nella coppa nazionale del Galles.

A Racecourse Ground si presentò un Arsenal capace di centrare due titoli nazionali nel 1989 e nel 1991, e che George Graham aveva trasformato, modernizzando un impianto di gioco che, oltre a costare alla squadra di soprannome di “Boring Arsenal“, era ormai sorpassato ed era costato al club troppi insuccessi. Ma come dicevamo all’inizio, nulla di bello dura mai abbastanza a lungo. La campagna d’Europa nel nuovo Super-Arsenal si era già interrotta prima del tempo, ma nessun tifoso assiduo frequentatore di Highbury poteva immaginare cosa sarebbe accaduto nel Nord del Galles in quel terzo turno di FA Cup.

Di vittorie contro il pronostico la storia del calcio è piena zeppa, ma quella colpì un immaginario collettivo che riteneva impossibile che i campioni d’Inghilterra capitolassero di fronte ai piccoli gallesi, soprattutto quando i 13343 del Racecourse Ground videro Alan Smith piazzare il pallone in fondo al sacco per il vantaggio dei Gunners. Ma a quel punto l’uomo del destino divenne Mickey Thomas, 37 anni, ex nazionale gallese capace di piazzare un calcio di punizione al fulmicotone alle spalle di David Seaman. Il Racecourse, che pure ne aveva viste nella sua già ultracentenaria storia, divenne una bolgia che esplose definitivamente quando il giovane Steve Watkin realizzò l’incredibile sorpasso. 2-1, e come Hornby racconta, i commentatori della BBC ringraziarono il tecnico del Wrexham per aver “deliziato milioni di persone”. Segno che la cattiva fama del “Boring Arsenal” non era stata cancellata da due stagioni di successi. Poi venne Arsene Wenger, ma quella è un’altra storia, esattamente come Milton Keynes-United.

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#Contromondiali Fabio Belli

#Contromondiale 11: #Italia, #Morso, #Rimorso, #Suarez, #Dimissioni, #Grecia, #Samaras, #Mondragon, #Selfie

di Fabio Belli

Italia – Uruguay 0-1

Le nuove frontiere del cibo italiano
Le nuove frontiere del cibo italiano

66. Abbiamo già parlato di quanto i deja vu siano frequenti nei Mondiali. L’Italia si ritrova coinvolta in un’eliminazione tra grandi controversie arbitrali, come già avvenuto nel 1962 e nel 2002, quando un arbitro chiamato Moreno, così come in questo caso, scatenò l’ira dei tifosi azzurri. Il Moreno attuale è messicano e soprannominato Dracula, con il centravanti della squadra avversaria, Suarez, famoso per avere il “vizietto” di mordere gli avversari. Possibile che ci ricaschi con Dracula al fischietto? E soprattutto che Dracula non se ne accorga? Ovviamente sì: e il morso di Suarez a Chiellini rischia di diventare (anzi, forse già lo è) un cult alla pari della testata di Zidane a Materazzi nel 2006. In quel caso Horacio Elizondo non fece finta di non vedere, stavolta Dracula-Moreno sì: e questo è costato a lui le prossime partite del Mondiale, a Suarez una probabile, lunga squalifica, e all’Italia l’eliminazione. In una sorta di circolo inesauribile della storia mondiale azzurra.

Le eliminazioni dell'Italia ai Mondiali nel 1954 e nel 2014, trattate con enfasi differente dalla stampa
Le eliminazioni dell’Italia ai Mondiali nel 1954 e nel 2014, trattate con enfasi differente dalla stampa

 

67. Insomma, ce ne sarà di chi parlare a lungo, ma l’aspetto tecnico del match contro l’Uruguay non è scivolato in secondo piano. Anche e soprattutto perché l’espulsione (ingiustificabile errore, va detto) di Marchisio ha accelerato una deriva del match che, dopo un primo tempo di buon contenimento, aveva portato l’Italia ad arretrare paurosamente il baricentro dopo l’espulsione del nervoso, instabile ma probabilmente indispensabile (sì, qui andiamo controcorrente) Balotelli. Una scelta difensiva implosa quando qualcosa è andato storto, e non è un caso che invece di gridare all’ingiustizia (come avvenne nel 2002), i media italiani si siano scatenati contro il non-gioco espresso dagli azzurri dopo due anni di preparazione ed una finale europea. A parte qualche sprazzo contro l’Inghilterra peggiore dagli anni ’70, contro Costa Rica ed Uruguay i tiri in porta si sono contati sulle dita di una mano. A sessant’anni di distanza, si può comunque ammirare come sia cambiato il modo di reagire da parte dei giornali italiani ad un’eliminazione dell’Italia ai Mondiali.

"Prandelli, stai sereno".
“Prandelli, stai sereno”.

68. E parte la solita sequela del tutti contro tutti: Prandelli attacca la stampa, Abete se la prende col sistema, Marchisio con Suarez, Verratti con l’arbitro e tutti, ma proprio tutti, con Balotelli. Da Bearzot a Vicini a Sacchi, da Zoff a Trapattoni a Lippi, il rito delle dimissioni in Italia fa sempre scalpore, forse perché inusuale. Di sicuro ci troviamo ad un punto che ha riportato il calcio italiano indietro di circa 50 anni: dopo lo scandalo di Cile ’62, arrivò il diluvio Corea del Nord a svegliare un football azzurro addormentato (ma che allora già dominava con le milanesi a livello internazionale di club). Due eliminazioni al primo turno che tornano clamorosamente d’attualità, ora che dopo un’edizione del 2010 giocata colpevolmente (e lo si capisce ora) con la pancia piena e senza stimoli, si torna di nuovo a casa. Via Prandelli, via Abete, la Nazionale ha bisogno però di protagonisti veri anche in campo: perché il sistema-calcio italiano sarà in crisi profonda e non si può negare, ma paesi come la Costa Rica e lo stesso Uruguay, non si può dire che raggiungano risultati superiori ai nostri con investimenti finanziari maggiori e politiche più lungimiranti. Lavorare bene, alla lunga, paga più che lavorare tanto, al di là dei luoghi comuni.

Costa Rica – Inghilterra 0-0

I giornali inglesi i più severi nei confronti di Suarez
I giornali inglesi i più severi nei confronti di Suarez

69. Partita che aveva poco da dire: i “Ticos” hanno dimostrato una volta di più di meritare la qualificazione e il primo posto, gestendo il pari che serviva loro per chiudere in testa. Inghilterra senza stimoli, tanto che i giornali inglesi hanno preferito concentrarsi sul caso-Suarez, stella della Premier League. E in barba agli interessi del Liverpool, la stampa britannica c’è andata giù pesante, con titoli del tipo “squalificate questo mostro”. Con due morsi e una squalifica per razzismo già alle spalle, Suarez (che si era affidato anche a uno psicologo per evitare di cadere di nuovo in questo tipo di comportamenti) potrebbe andare incontro ad una squalifica a tempo che coinvolgerebbe anche i Reds.

Giappone – Colombia 1-4

Faryd (nelle figurine italianizzato in "Fabio") Camilo Mondragòn, recordman dei Mondiali a 43 anni, ai tempi di USA '94
Faryd Camilo Mondragòn, recordman dei Mondiali a 43 anni, ai tempi di USA ’94

70. Se non ci fosse Suarez, la storia del giorno sarebbe sicuramente la sua: Faryd Mondragòn, classe ’71, a fine partita si è piazzato tra i pali della Colombia ed è diventato il giocatore più anziano della storia dei Mondiali. A 43 anni, c’era già ad USA ’94, ed è allla sua terza Coppa del Mondo solo perché la Colombia era assente dalla rassegna dal ’98. Un momento emozionante, in parte rovinato dalla FIFA che non ha permesso al numero uno il giro di campo finale in compagnia dei figlioletti.

Grecia – Costa D’Avorio 2-1

71. Il collegamento tra Grecia ed Epica è sin troppo facile, ma da dieci anni a questa parte la Nazionale ellenica, a fronte di risorse decisamente limitate, sta riuscendo ad ottenere risultati incredibili. E soprattutto a sovvertire situazioni sulla carta irrimediabili. L’impresa di Euro 2004 è agli atti e nella storia, ma anche due anni fa negli Europei in Polonia e in Ucraina, si guadagnarono un quarto di finale contro la Germania quando l’eliminazione sembrava inevitabile. Stesso copione stavolta: dopo il rovescio iniziale contro la Colombia e lo scialbo pari contro i giapponesi, chi si aspettava la coppia Samaris-Samaras (a proposito: con il messicano Ochoa è il secondo svincolato decisivo a Brasile 2014, dov’è l’errore?) agli ottavi? E contro la Costa Rica, poi: comunque vada, tra le prime otto del Mondiale ci sarà una prima volta assoluta ed inaspettata.

Rimasugli di Croazia – Messico 1-3

72. Non ce ne vogliano Bradley Cooper, Ellen DeGeneres e le stelle degli Oscar, ma a nostro avviso il “selfie” dell’anno è questo. Que viva Mexico, Que viva Héctor Herrera!

Hector Herrera re dei "selfie"
Héctor Herrera re dei “selfie”
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#Contromondiali Fabio Belli

#Contromondiale 07: #Colombia, #Gervinho, #Jesongpazz, #Song, #Die, #Suarez, #England #FAIL, #Balotelli

di Fabio Belli

Camerun – Croazia 0-4

Je SONG pazz'?
Je SONG pazz’?

39. Il tormentone della notte è stato “Je Song Pazz'”, cantata alla maniera di Pino Daniele. Un pugno-gomitata del calciatore del Camerun stile wrestling a Mandzukic, col bomber del Bayern Monaco che ha sperimentato gli effetti di un colpo della strega istantaneo. Rissa inevitabile, ma forse a pensarci bene i nervi del Camerun sono saltati ancora prima della partenza per il Brasile, con la stucchevole querelle-premi che non ha fatto onore a Eto’o (assente contro i croati) e compagni. La Croazia ringrazia, non per dire, e dopo le recriminazioni contro il Brasile, ora il destino si compirà nella sfida-spareggio contro il Messico.

Colombia – Costa D’Avorio 2-1

Gervinho profeta anche in patria
Gervinho profeta anche in patria

40. I protagonisti di questo Mondiale, per un motivo o per l’altro, faticano ad essere inquadrati come uomini-mercato. Per Gervinho il problema non riguarda limiti di età o poca dimestichezza col calcio europeo, ma un prezzo che a questo punto la Roma difficilmente riuscirà a quantificare per la sua ala. Considerando anche quanto è stato pagato da un Arsenal che alla sua partenza, organizzò anche una specie di festicciola. Solitamente lungimiranti, i Gunners hanno dovuto assistere alla rinascita della freccia nera, che in Brasile sta dimostrando come la sua ritrovata qualità non sia dovuta al calo di quella del calcio italiano, anzi. Nonostante la sua prodezza che fa il paio con quella contro il Giappone, la Costa D’Avorio è uscita sconfitta, ma contro la Grecia il passaggio del turno potrebbe arrivare.

I colombiani, ballerini provetti.
I colombiani, ballerini provetti.

41. E’ l’ex Udinese e Napoli Pablo Armero il coreografo degli entusiasti balletti della Colombia, che nonostante l’assenza di Radamel Falcao, sta tenendo fede alle previsioni che volevano i Cafeteros tra le rivelazioni del Mondiale. In quanto ad entusiasmo i colombiani se la giocano generosamente con la “Marea Roja” cilena, ma nel duello tra tifosi in tribuna, i colombiani trovano un bonus nell’atteggiamento scatenato dei giocatori in campo.

Per Serey Die lacrime di emozione e non per la morte del padre, avvenuta nel 2004
Per Serey Die lacrime di emozione e non per la morte del padre (come si era ipotizzato), avvenuta nel 2004

42. Una nota commovente l’ha regalata Serey Die, in lacrime durante l’inno nazionale della Costa D’Avorio. Troppo commovente: è girata in fretta la voce che a Die fosse stata comunicata la morte del padre, prima di scendere in campo. Versione smentita dallo stesso calciatore su Instagram: solo commozione per il momento e l’onore di rappresentare il proprio paese. Il pensiero di Die prima di una partita importante vola comunque sempre verso il genitore che è morto sì, ma nell’ormai lontano 2004.

Uruguay – Inghilterra 2-1

Il Daily Star ipotizza uno strano complotto ai danni di Luis Suarez
Il Daily Star ipotizza uno strano complotto ai danni di Luis Suarez

43. All’arrivo dell’Uruguay in Brasile, ha tenuto banco un tweet dell’ex portiere della Lazio, ora al Galatasaray, Fernando Muslera, che ha mostrato come le camere degli “orientales” fossero invase dalle formiche in albergo. Un caso sul quale il Daily Star ha scherzato alla vigilia della partita-spareggio di San Paolo, prendendo di petto proprio Luis Suarez, che reduce da un infortunio, si sarebbe ritrovato le fastidiose formichine anche tra le mutande. Guai a stuzzicare i campioni: al ritorno dopo l’operazione, Suarez ha timbrato per due volte il cartellino con il gol: e anche senza formiche, una certa sensazione di fastidio nella biancheria intima l’hanno senz’altro provata i tifosi inglesi.

Pronto per la panchina dell'Inghilterra?
Pronto per la panchina dell’Inghilterra?

44. Dopo la Spagna, anche l’Inghilterra incassa due ko in altrettanti incontri in Brasile. E se la stampa iberica ha mostrato riconoscenza verso un gruppo che negli ultimi otto anni ha regalato lustro e trofei una volta impensabili per le Furie Rosse, c’è da pensare che i salacissimi tabloid inglesi non risparmieranno ai Leoni d’Inghilterra (ancora attaccati a una flebile speranza di qualificazione legata al risultato di Italia – Costa Rica) critiche bollenti. Allenatore in particolare sulla graticola, considerando anche che il raddoppio di Suarez è arrivato praticamente su rinvio di Muslera. E c’è già chi avanza proposte per il sostituto di Roy Hodgson in panchina: questo tifoso sembra avere le carte in regola, e soprattutto l’espressione giusta.

Balotelli commenta con la consueta sobrietà Uruguay-Inghilterra
Balotelli commenta con la consueta sobrietà Uruguay-Inghilterra

 

 

 

 

 

 

45. Un dato spicca riguardo al possibile flop di Rooney e compagni: se si escludono le mancate partecipazioni del 1974, del 1978 e del 1994, l’ultima eliminazione al primo turno dell’Inghilterra risale al 1958. Solo un’altra volta poi accadde nella storia, nel 1950: il Brasile non porta di certo fortuna agli inglesi. Che oltre al danno, si sono dovuti sorbire l’irriverente tweet di Mario Balotelli, che con i sudditi di sua Maestà, alla fine della sua esperienza al Manchester City, non si è lasciato proprio benissimo…