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Club Fabio Belli

Verona 1985: l’ultimo eroico scudetto della provincia

di Fabio BELLI

Lo scudetto del 1985 resta forse l’ultimo da un sapore antico, quando nel calcio le idee non sempre contavano più dei soldi, ma potevano farcela. Lo vinse il Verona, l’Hellas, quando ancora non c’era bisogno di specificarlo, perché il Chievo non era neanche mai stato tra i professionisti, e non giocava neanche al Bentegodi ma al Bottagisio, dove è ancora affissa la targa “campo parrocchiale“. L’Hellas era il Verona, per tutti, e vinse un campionato pazzesco, in una serie A, ancora a sedici squadre, che iniziava proprio allora a veder sbocciare quello che sarebbe stato un quindicennio di dominio mondiale del calcio italiano.

veronaIl Verona vinse il titolo nell’anno in cui in Italia arrivò Diego Armando Maradona, il più importante calciatore del mondo, che a Barcellona, complice un grave infortunio e una clamorosa rissa contro l’Athletic Bilbao, non ebbe tutta la fortuna che si aspettava. C’erano la Juventus di Platini, l’Inter di Rummenigge, la Fiorentina di Antognoni, la Roma di Falcao. Persino il Milan, dopo due anni di B, iniziava a rialzare la testa, mettendo le fondamenta per quella che sarebbe stata l’era-Berlusconi. Maradona giocò la sua prima partita di campionato in Italia proprio a Verona, con gli occhi del mondo puntati sul Bentegodi, quel 16 settembre del 1984: ma fu l’Hellas a vincere, tre a uno, giocando un calcio da favola.

Osservatori e commentatori non diedero troppo peso alla cosa: non lo fecero nemmeno quando i ragazzi di Osvaldo Bagnoli, tecnico abituato a mandare la provincia in Paradiso, mandarono al tappeto la Juventus alla quinta giornata, il 14 ottobre. A segnare un gol decisivo ci pensò un ragazzone danese, appena arrivato a Verona, che aveva un cognome tanto comune, Larsen, che per caratterizzarsi meglio nel mondo del calcio aggiunse quello della madre, e tutti lo conobbero come Elkjaer. Che segnò alla Juve con una delle sue caratteristiche galoppate, e tanta fu la foga che perse una scarpa, ma lui non fece una piega, continuò a correre e fece gol con un piede scalzo. Iniziarono a chiamarlo Cenerentolo, per la scarpa ma anche per ironizzare un po’ sul Verona, che uscì imbattuto dalle trasferte in casa di Roma e Inter, ma che tanto era destinato a crollare, ad andare al massimo in Coppa UEFA. Anche se la prima sconfitta in campionato arrivò a gennaio inoltrato, ad Avellino, il Verona fu campione d’Inverno, ma con l’Inter a un punto, ed il Torino a due, secondo gli esperti era solo questione di tempo e la sorpresa sarebbe rientrata nei ranghi.

E invece il girone di ritorno fu come il quello d’andata, perché gli scaligeri erano una macchina perfetta, sospinta dai gol di Elkjaer e Galderisi, dalle giocate di Pierino Fanna, imprendibile ala destra che sapeva far sognare solo in provincia, dalla concretezza del gigante tedesco Briegel, e dalle spettacolari parate di Garella. Il Verona uscì indenne dagli scontri diretti, non sbandò dopo l’unica sconfitta pesante della stagione, quella contro il Torino ancora lanciato all’inseguimento, ed i tifosi gialloblu, i butei, capirono che era fatta quando dopo Verona-Como 0-0, alla terzultima giornata, i giornali parlarono di festa rimandata, non di crollo imminente della cenerentola. Si erano convinti anche loro, ed il Verona festeggiò due volte: a Bergamo la matematica conquista del titolo, il 12 maggio del 1985. E davanti ai propri, impagabili tifosi la settimana dopo, battendo l’Avellino.

Lo scudetto dell’Hellas del 1985 resta unico perché è l’ultimo nato artigianalmente senza i favori del pronostico o una politica tesa esplicitamente a vincere. Il Napoli due anni dopo trionfò capitalizzando la presenza di un mito come Maradona, ma anche di una squadra costruita intorno a lui senza badare a spese. Quello della Sampdoria fu un progetto pluriennale, anzi in molti si aspettavano che la squadra costruita da Mantovani vincesse prima il titolo. Lazio e Roma, all’alba del 2000, videro concretizzarsi campagne acquisti miliardarie che nulla hanno a che vedere con quanto costruito a Verona in quegli anni: l’ultimo scudetto eroico di un calcio in cui tutto era ancora possibile.

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Alessandro Iacobelli Calciatori

Dirceu: il ragioniere con il mancino fatato

di Alessandro IACOBELLI

Il giudice delle punizioni. Disegnava traiettorie artistiche con la toga sulle spalle e quel piede mancino baciato dalla grazia.
José Guimares Dirceu ha incorniciato la tela del calcio romantico a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Nato il 15 giugno 1952 a Curitiba in Brasile, condivide con il padre la passione per il futebol. La bella madre Diva Delfina pretende dal piccolo funambolo dedizione anche per gli studi. La famiglia Guimaraes si trasforma presto in una simpatica filastrocca. Dirceu infatti accoglie le sorelle Dirce e Dirci con il fratello Darci. Nel periodo adolescenziale il talento della casa prende l’indirizzo della scuola di ragioneria ed aiuta la madre nel bar appena aperto.

Dai tornei di quartiere alle giovanili del Curitiba il salto è brevissimo, il tempo di sorseggiare un caffè. All’alba degli anni settanta entra a far parte del reggimento di fanteria dell’Esercito. Le Olimpiadi di Monaco del 1972 sono un degno palcoscenico e Dirceu riesce ad onorarlo con quattro acuti. L’anno successivo il Botafogo è la società più lesta nel compiere l’affare. Nel 1975 è tra gli artefici dell’affermazione nel campionato nazionale insieme all’amico Jairzinho. Intanto Dirceu diventa una stella dell’armata verdeoro sfoderando prestazioni e reti da urlo. Le due stagioni che seguono sanciscono l’inizio del tour per una carriera internazionale. Con le casacche del Fluminense e del Vasco De Gama colleziona altri due titoli brasiliani.

Nel 1978, in concomitanza con il Mondiale in Argentina, lo ‘zingaro del calcio’ si trasferisce in Messico alla corte dell’America di Città del Messico. Firma un contratto faraonico per l’epoca in un sodalizio finanziato dalla nota emittente Televisa. Un anno prima aveva sposato Vania, la donna della sua vita.
La platea dell’Europa lo aspetta e lo sbarco si materializza in Spagna. L’Atletico Madrid si innamora di lui per tre lunghe stagioni.

Nel 1980 lo stivale riapre le frontiere del calcio. L’asso brasiliano vuole fortemente approdare in quello che dai più viene elevato come il miglior campionato nel vecchio continente. Nell’estate del post Mondiale iberico firma un contratto con il Verona di Osvaldo Bagnoli, appena promosso dalla B. Due perle in ventotto gettoni. Poi la pizza ed il lungomare di Via Caracciolo a Napoli chiamano e lui risponde. Gli azzurri si salvano per il rotto della cuffia ma Dirceu incanta spesso la platea del San Paolo.
I Nomadi cantano “Io vagabondo” e lui riempie la valigia per altre avventure. Nel suo destino ci sono ancora Ascoli, Como e Avellino. In totale 75 presenze e 13 gol. Le punizioni sono sassate che gonfiano la rete come i fulmini squarciano il cielo.
L’itinerario della carriera di Dirceu non ammette soste. Nel 1987 torna per un attimo in patria alla corte del Vasco Da Gama. Le sirene a stelle e strisce sono assordanti. Con la compagine del Miami Sharks si diverte.
La letteratura pallonara narra vicende a dir poco pittoresche. Quello dell’approdo di Dirceu alla formazione dell’Ebolitana in Serie D nel 1989 è un episodio affascinante che neanche Carlo Levi avrebbe mai potuto immaginare. Il sud e la Campania camminano a braccetto con il brasiliano. Ennesima tappa in quel di Benevento. La gita infinita culmina in Messico con l’Atletico Yucatan.
Un maledetto incidente stradale strappa Dirceu alla vita terrena il 15 settembre 1995. Il ragioniere con il mancino fatato.

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Club Enrico D'Amelio

Roma-Liverpool: una notte di Coppe e di Campioni che per i tifosi giallorossi non è esistita davvero

di Enrico D’Amelio

C’è chi dice che una sconfitta rimanga impressa nel corso del tempo più di una vittoria. L’ebbrezza del successo contiene il brivido del momento, mentre il lutto sportivo di una disfatta fatica ad esser metabolizzato dal fluire degli anni. Alcune volte non ne bastano più di 30 per abituarsi al ricordo di una fine mai accettata. Una calda notte di Coppe e di Campioni di fine maggio, che avrebbe potuto proiettare la Roma sul tetto più alto d’Europa, è rimasta come l’emblema di quello che poteva essere e non è mai stato. Culmine di un percorso intrapreso anni prima, e coronato con la classica conclusione di un ciclo. Invece, visto che il corso della Storia non si modifica come lo scorrere di un fiume, neanche per una volta Davide ha potuto sentirsi Golia, nonostante l’appoggio di un pubblico amico, pronto a liberare un urlo rimasto strozzato in gola. Il 30 maggio del 1984, per i romanisti di ogni generazione, non è e mai sarà una data come le altre. E’ qualcosa di tragico e maledetto, che racchiude in una partita l’essenza di sofferenza e disillusione intrise in una maglia. La nemesi del fato, dopo che sempre contro una squadra britannica c’era stato un mese prima il regalo degli déi, con la rimonta riuscita in semifinale ai danni del Dundee United, a seguito di un 2-0 della gara d’andata che non lasciava presagire nulla di buono. Invece, visto che sempre il destino s’era divertito a designare la Città Eterna come sede dell’atto conclusivo di quella Coppa dei Campioni – il termine Champions League era ancora impensabile per un calcio troppo romantico -, tutto sembrava scritto per un finale differente.

Però c’era di mezzo un’altra squadra dalle magliette rosse, il Liverpool di Joe Fagan, già 3 volte Campione d’Europa, e che 7 anni prima aveva alzato la sua prima Coppa dalle grandi orecchie proprio all’Olimpico contro il Borussia Monchengladbach. Se il calcio fosse un racconto narrato invece che la cruda realtà degli eventi, qualsiasi sceneggiatore avrebbe concesso ai ragazzi di Liedholm il tributo dei gradini della gloria. Una Roma mai più vista, quella del 1983/84, secondo alcuni più forte di quella laureatasi Campione d’Italia l’anno prima. Con un Vierchowod in meno, ma un Cerezo in più, a formare con Conti, Falcao e Ancelotti un centrocampo di livello europeo. Questo sport, però, oltre a non essere un racconto narrato, è talvolta soggetto alle emozioni degli interpreti. Uomini non abituati a gestire certe tensioni, con una città spesso troppo calorosa e fagocitatrice nel trasmettere l’effetto contrario di troppo amore concesso. I più anziani ricorderanno che quel 30 maggio, allo stadio, c’erano già molte bandiere con la scritta ‘Roma Campione d’Europa’ impressa sulla stoffa giallorossa, con un tetro silenzio sul pullman dei calciatori per la troppa tensione, nel tragitto dall’hotel allo Stadio. Una tensione mai scaricata sul campo, che ha partorito una partita bloccata, come quasi tutte le finali. 120’ di assoluta parità, con bomber Pruzzo che aveva annullato il vantaggio iniziale di Neal, viziato, tra l’altro, da un evidente fallo su Franco Tancredi. Poi la scelta di calciare i rigori sotto la Sud, il primo errore degli inglesi e la bomba di Agostino Di Bartolomei, scelto dal Barone come primo rigorista in corsa al posto di Graziani, che voleva far entrare in porta con tutta la palla un portiere che faceva i versi della scimmia con estrema naturalezza. Roma avanti per la prima volta, e i nastrini giallorossi che iniziavano ad esser preparati sotto la Monte Mario attorno al trofeo. Poi, però, gli errori di due Campioni del Mondo, con due calci di rigore calciati alle stelle, e la pietra tombale su un sogno inseguito per anni.

Come ogni evento storico che si rispetti, Roma-Liverpool manterrà sempre intatti dei misteri mai svelati, alcuni anche tragici. L’ultima partita dei principali simboli di quella Roma (Liedholm e Di Bartolomei), il rifiuto di tirare un rigore decisivo da parte di Falcao, e il fatto che mai più si ripeterà un’occasione simile fanno di Roma-Liverpool qualcosa di altro rispetto a una semplice occasione persa. Per alcuni questa partita non è stata mai giocata, altri non hanno più voluto rivederla, altri ancora non ne vogliono parlare e la ricordano come la rottura di rapporti consolidati (Di Bartolomei-Falcao). Negli anni sempre più aneddoti e versioni divergenti sono serpeggiate riguardo a quanto successo quella notte, e in quello spogliatoio. Di certo si è rotto qualcosa nella ‘magia’ di quel gruppo, che s’è sfaldato a poco a poco, e nulla è più tornato come prima. La Coppa Italia conquistata pochi giorni dopo contro il Verona ha rappresentato la magra consolazione di una squadra chiamata ‘Rometta’ negli anni ’70 con Anzalone, e arrivata a due calci di rigore dall’essere Regina d’Europa. C’è un documentario di quegli anni in cui un giornalista della RAI domanda a un ragazzo del Commando Ultrà perché la Roma fosse considerata “magica” dai tifosi della Curva Sud. Allora il ragazzo, che avrà avuto sì e no 18 anni, rispose: “Penso che se una squadra è in grado di vincere a Milano, e poi rischia di perdere in casa contro l’Ascoli la domenica successiva può essere considerata soltanto magica”. Poi è venuta la Roma di Eriksson, l’altra bellissima rimonta del 1986 sfumata per una sconfitta contro un Lecce già retrocesso, la finale UEFA persa nel 1991 contro l’Inter sempre all’Olimpico, fino allo Scudetto del 2001 di Batistuta e Capello. In ogni caso, qualcosa di irripetibile come Roma-Liverpool non c’è più stato. Ma, probabilmente, quella partita non s’è mai realmente giocata, e i sogni restano magici e affascinanti solo se conservati all’interno di un cassetto.

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Club Fabio Belli

Una genovese tra le stelle: la Samp e il volo di Icaro verso la Champions League 1992

di Fabio Belli

“Se mi avessero detto che un giorno una squadra genovese avrebbe disputato una finale di Coppa dei Campioni, gli avrei riso in faccia.” La frase di un vecchio giornalista del Secolo XIX, rende bene l’idea di quando la Sampdoria con due ali da Icaro, il 20 maggio del 1992 si fosse avvicinata a compiere un’impresa senza eguali nella storia del calcio. Wembley per metà blucerchiato, al culmine di un ciclo che aveva visto protagonista una delle squadre più belle e divertenti di tutta la storia del calcio italiano. Ma la Sampdoria, che solo dieci anni prima lottava in cadetteria per ritornare in Serie A, proprio la Sampdoria poteva toccare quasi con mano il Sacro Graal di quella coppa che in Italia solo le cosiddette “strisciate”, le tre grandi storiche del nostro football, sono riuscite ad ottenere.

Tentativi di exploit ce ne sono stati: squadre in grado di farsi rispettare in patria, che hanno provato la campagna europea. Il Toro di Puliciclone negli anni ’70 non ebbe fortuna, nemmeno poté provarci la Lazio, squalificata un anno prima per un’assurda partita di Coppa UEFA contro l’Ipswich Town. Negli anni ’80 il Verona si ritrovò scornato in un duello fratricida contro la solita Juventus che dominava la scena anche in Italia. E poi il Napoli di Maradona, che nella Coppa dei Campioni trovò il suo unico tabù, mentre l’Europa sorrise nell’anno della UEFA. Prima della Samp, in due si erano avvicinate così tanto al sole. Ai tempi della preistoria della Coppa, la Fiorentina invincibile in patria, che si trovò però di fronte la leggenda del Real. E otto anni prima della finale di Wembley, la Roma di Falcao, che visse uno psicodramma dal dischetto proprio sul prato dell’Olimpico.

Ma la Sampdoria era un’altra cosa: dimenticati gli anni a fare la spola tra la B e la A, Paolo Mantovani aveva costruito un gioiello: matti da legare ma fortissimi in campo, i vari Mancini, Vialli, Lombardo, Mannini, Pagliuca e compagnia bella forse avrebbero potuto anche raccogliere di più, se non avessero dissipato tante occasioni negli anni del loro massimo splendore sportivo. Sia chiaro, resta la Samp più vincente di tutti i tempi per una squadra che poteva ricordare la “crazy gang” del Wimbledon, ma che alla goliardia non faceva mai seguire l’indisciplina. Ma nel calcio italiano più competitivo di tutti i tempi, bastava poco per vedersi sfuggire il sogno più grande, lo scudetto.

Vedendo passare gli anni, i ragazzacci terribili misero la testa a posto dopo il Mondiale del 1990, una delusione per Vialli e Mancini, i due “gemelli del gol” blucerchiati. E allora la parola impossibile, scudetto, si materializzò in un dolcissimo pomeriggio di Primavera contro il Lecce. Un “Ferraris” così non si è mai più visto: ma c’era ancora un’idea che ronzava nella testa di una squadra folle ma capace di tutto. E vedere arrivare la Samp fino in fondo fece ancora più impressione perché quella fu la prima edizione della Champions League, che si avviava a diventare un torneo multimilionario e alla portata di pochi. Tra quei pochi, c’era un Barcellona che si presentò però a Wembley afflitto da una maledizione. Mai i blaugrana avevano messo le mani sul trofeo che era invece il maggior vanto degli acerrimi rivali di sempre, il Real Madrid all’epoca ancora a quota sette trionfi.

In panchina c’era Johan Cruyff, in campo Michael Laudrup, Zubizarreta, Koeman, Julio Salinas, Stoichkov, Bakero e un imberbe Pep Guardiola. Dall’altra parte, Vujadin Boskov si ritrovava a combattere l’ultima battaglia: lui stesso sarebbe passato alla guida della Roma, Vialli era già promesso alla Juventus, un’epoca si sarebbe chiusa quel giorno. Ma a discapito della solita leggenda di Davide e Golia, la differenza tecnica in campo non era di quelle incolmabili. E la Sampdoria rischiò di vincerla quella partita, eccome: sia Vialli che Mancini ebbero la chance epocale, in un match in cui comunque la maggiore esperienza internazionale del Barca si faceva sentire, e il numero delle occasioni da gol pendeva decisamente dalla parte dei catalani.

La Samp arrivò ferocemente determinata a giocare quella finale, superando di slancio i primi due turni ad eliminazione diretta, e senza farsi irretire dall’allora inedito meccanismo della fase a gironi, domando in una partita leggendaria la fortissima Stella Rossa campione d’Europa in carica. E c’era da vendicare la sconfitta nella prima finale europea della storia blucerchiata, la Coppa delle Coppe del 1989, perduta a Berna contro quasi gli stessi avversari. Coppa poi vinta l’anno successivo con una doppietta di Vialli contro l’Anderlecht, ma il destino i suoi piani li aveva già scritti forse già in quella tiepida serata svizzera di tre anni prima. Anche le più belle realtà hanno le loro nemesi, e quando a 8′ dalla fine dei supplementari Ronald Koeman prende la sua caratteristica rincorsa, forse tutti i tifosi della Samp sanno già cosa sta per succedere. Le mani di Pagliuca si piegheranno, il Barca spezzerà un tabù quarantennale, e la Samp dopo aver sognato per quasi un decennio, dovrà cominciare a ricordare. Ma quella finale è stata giocata, goduta, la vittoria solo sfiorata, ma Genova ha avuto la sua notte di Coppe e di Campioni. E nessuno ha mai più riso, al riguardo.

[https://www.youtube.com/watch?v=iQx6Za_XzG4]

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Calciatori Fabio Belli

Antonio Elia Acerbis: quando il silenzio (era) d’oro

di Fabio Belli

Quanti problemi irrisolti affogano in un mare di inutili parole, direbbe chi si intende di versi e versacci. Antonio Elia Acerbis, portatore d’acqua del calcio anni ’80 dalle invidiabili doti di spinta, forse potenzialmente capace di una carriera anche superiore a quella poi effettivamente vissuta, la pensava proprio così. Impossibile da immaginare oggi, in un calcio in cui la logorrea è il principale difetto di tanti artisti dell’arte pedatoria.

Eppure Acerbis era solito presentarsi in conferenza stampa ad inizio stagione, all’arrivo in un nuovo club. Chiacchierata scolastica, in cui il nostro snocciolava dati più che altro statistici, spigolabili ad una buona osservazione dall’album Panini. Dopodiché, salutava con deferenza e se ne andava per non ripresentarsi più davanti ai microfoni. “Quello che dovevate sapere di me lo sapete, d’ora in poi non parlerò più.”

Schermata 2014-02-25 alle 00.07.08Quando nel 1986 Eugenio Fascetti lo volle a Roma nella pazza Lazio del -9, le sue parole destavano un certo scalpore. Non c’è piazza che vive di chiacchiere più di quella romana, e la Lazio anche se in B non faceva eccezione in quegli anni, anzi le turbolente vicissitudini del club in quegli anni ne facevano un bersaglio perfetto per il microscopio dei giornalisti. Acerbis decise di sottrarsi non solo a quel gioco al massacro, ma a ogni gioco in generale. La stressante piazza capitolina, gonfia di radio, tv private e riviste specializzate, oltre ai canonici canali di comunicazione, inizialmente non la prese bene, ma questo non impedì al soldatino Acerbis di diventare uno degli eroi del -9, evitando alla squadra dell’allora presidente Gianmarco Calleri la discesa in C, e come probabile conseguenza, il fallimento. In seguito, arrivarono la promozione in A e la prima vera stagione nel massimo campionato di Acerbis, bagnata dalla salvezza.

Idolo dei tifosi non tanto per la tecnica quanto per il suo temperamento, durante un derby, venne acclamato dalla Curva Nord per una sfida all’ok corral col capitano giallorosso Giannini. Il numero dieci della Roma si ritrovò a battibeccare con un altro dieci, dotato non di altrettanti piedi nobili, ma di grinta da vendere. Un faccia a faccia che contribuì alla sua popolarità, ma non gli fece tornare la voglia di chiacchierare con la stampa. Perché il nostro non parlasse, è presto detto: nelle precedenti esperienze a Varese e Bari, si ritrovò sbattuto in prima pagina con dichiarazioni mai rilasciate. Capitava, allora più di ora, ma il carattere particolare del giocatore lo vide inscenare di conseguenza un silenzio stampa solitario e ininterrotto.

Nacquero leggende e prese in giro, riviste laziali immaginavano fantasiosi racconti che lo vedevano, afono, riacquistare magicamente la voce sciogliendosi in lacrime dopo il ritorno della Lazio alla vittoria nel derby del 1989. Altri sfottevano, scrivendo di masse disperate e smarrite perché “Acerbis non voleva parlare.” Lui, ragazzo schivo, non capiva il perché di tanta confusione, finché al terzo anno di Lazio comprese probabilmente che a Roma tutto era amplificato all’ennesima potenza, e se ne fece una ragione. Dopo l’ultima esperienza in A al Verona, sempre con Fascetti, le leggende metropolitane lo volevano in esilio volontario e dorato alle Seychelles, a gestire un’autoconcessionaria.

Personaggio fuori dagli schemi, per raccontare Acerbis è poi necessaria un’appendice. Visto che alle Seychelles c’era andato solo in vacanza, con il legame con le isole giustificato dalle origini della moglie. In realtà, è rimasto nella natìa Milano a giocare tra i dilettanti fino al tramonto del secolo scorso. E venne fuori da una lunga intervista al quotidiano “Libero” che gli era tornata di botto la voglia di parlare. E giù aneddoti su Prytz, che a Verona regalava soldi come caramelle all’allegro mantra, in italiano con accento nordico, “cazzo frega a me!”. E su Fascetti, ovviamente, che dal ritiro telefonava a casa sua a Milano per controllarlo, e lui rispondeva come niente fosse, beccandosi gli insulti del focoso Eugenio. Stai a vedere che il silente portatore d’acqua aveva nascosti i geni sregolati del calcio champagne: magari lo racconterà lui stesso. Sempre se ne avrà voglia.

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Calciatori Fabio Belli

Ginulfi parò il rigore a Pelè, e “Zigo” si sentì di nuovo “O Rey”

di Fabio Belli

Dietro la storia di “Zigo” che si crede meglio di Pelé c’è quella di Ginulfi che para un rigore a “O Rey”, come una matrioska di cialtronerie da bar che però, poi, scopri quasi per caso che sono vere. ‘Zigo’ è Gianfranco Zigoni, che a Roma in maglia giallorossa ha vissuto un capitolo di passaggio, per quanto significativo, della sua carriera. E’ stato prima di cucirsi davvero una maglia sulla pelle, quella dell’Hellas Verona, quando per i tifosi divenne un mito, per la capacità di portare in provincia tutti i comportamenti degli eroi del calcio anglosassone che da quella parte non erano mai transitati.

zigoniE così tutti i maggiori aneddoti della carriera di Zigoni sono legati al periodo veronese: da quando andò in panchina vestendo una pelliccia in polemica con l’allenatore, mandando in visibilio la curva, a quando per sfilare al presidente il premio per aver segnato più di dieci gol in campionato, strappò di mano un rigore all’ultima giornata al compagno che doveva batterlo, col patron che si sbracciava dalla tribuna. Ma quella faccia da schiaffi (a Roma dicevano da “impunito“) Zigoni ce l’aveva già quando esibiva genio e sregolatezza sul prato dell’Olimpico, in una Roma che all’epoca era solo “rometta” e che l’aveva accolto dopo l’occasione bruciata, in due riprese, alla Juventus.

Zigoni era un talento assoluto, ma giocava solo ed esclusivamente secondo le sue regole. Il che ne fece le fortune nell’ambiente veronese, ma in quello rigido e collegiale della Juventus della fine degli anni sessanta, e quello zeppo di tentazioni della Roma della dolce vita, non era destinato a fare strada. Eppure, guai a dirglielo: “Zigo” era consapevole della sua testa un po’ matta, ma se si parlava di pallone e solo di quello, allora era semplicemente il più forte giocatore del mondo. Lo raccontò anche in un’intervista, e così quando la Roma si trovò a dover disputare un’amichevole contro il Santos di Pelé, per Zigoni fu semplicemente l’opportunità per dimostrare al pianeta quello che lui già sapeva: “O Rey” al suo confronto non era nessuno.

Il problema è che poi sul campo le cose andarono un po’ diversamente. Zigoni si confronta con l’extraterrestre e ne rimane abbagliato dalla luce. Pelé ha un tocco di palla e movimenti da marziano: è il tre marzo del 1972, l’epopea del Mundial messicano si è già spenta e “O Rey” si prepara a salutare il “Peixe” e approdare nel soccer americano. Ma sul rettangolo verde è sempre lui, comanda il gioco d’attacco e il Santos vince due a zero. Per la prima volta, le sicurezze di Zigoni vacillano. Possibile che il mondo intero ruoti attorno ad un altro sole, e lui non sia altro che un satellite? Poi viene fischiato un calcio di rigore, sul dischetto va Pelé e qui entra in gioco Ginulfi, portiere di una Roma operaia, lontana dai circuiti del grande calcio, che para però quel penalty “a mano aperta“, come amerà raccontare in seguito. E Zigoni si rinfranca, spiegando sempre nelle interviste future: “Se quello si era fatto parare un rigore da Ginulfi, io me lo mangiavo a colazione“. E chissà, forse senza quell’episodio, Zigoni non avrebbe avuto dentro sé la sicurezza per diventare il re di Verona nei bollentissimi anni settanta.

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Club Fabio Belli

La “Fatal Verona”, da quarant’anni incubo rossonero

di Fabio Belli

Nereo Rocco, Arrigo Sacchi e Massimiliano Allegri. Tre nomi di tecnici accomunati da un destino: quello di essere entrati nella storia del Milan grazie agli scudetti conquistati (ed anzi il “paròn” e il mago della zona hanno anche vissuto la consacrazione della Champions League), ma anche di essersi ritrovati di fronte a quella che per i tifosi rossoneri, è la nemesi per eccellenza: la “Fatal Verona“. E dire che con gli scaligeri assenti dalla Serie A negli ultimi undici anni, l’ultimo precedente era stato felice: anno 2002, gol di Andrea Pirlo alla penultima giornata che garantisce di fatto al “diavolo” la partecipazione alla Champions League dell’anno successivo: che il Milan vincerà. Fine di un incubo dunque? Neanche per sogno

milanTutto iniziò il 20 maggio del 1973: quattro giorni prima a Salonicco il Milan battendo il leggendario Leeds di Don Revie si era assicurato il trionfo europeo in Coppa delle Coppe, in una durissima finale. Ma la doppietta era alla portata: all’ultima giornata di campionato, in un Bentegodi invaso dai tifosi rossoneri, il Milan si presenta primo in classifica, con un punto di vantaggio su Lazio e Juventus. Una vittoria significherebbe scudetto. Ma i rossoneri sono agonisticamente sfiancati dalla battaglia greca, ed il Verona, sfrontato e per nulla demotivato dal non avere più obiettivi di classifica, si scatena andando in gol tre volte in mezz’ora, grazie a Sirena, un’autorete di Sabadini e Luppi. Rosato accorcia prima dell’intervallo, mentre l’Olimpico di Roma ed il San Paolo di Napoli, dove Juventus e Lazio stanno giocando, fremono alla possibilità di strappare un tricolore che sembrava già cucito sulle maglie rossonere.

Alla fine sarà cinque a tre, con gli ultimi due gol milanisti, segnati negli ultimi dieci minuti, a giochi già fatti. Uno psicodramma a tinte rossonere, mentre la Roma si fa arrendevolmente rimontare da una Juventus che aveva chiuso il primo tempo in svantaggio, forse per evitare complicazioni per uno scudetto che i rivali cittadini avrebbero comunque perso a causa del gol di Damiani a due minuti dal termine del match del San Paolo. Ed è la Juventus a festeggiare, così come diciassette anni dopo, toccherà al Napoli raccogliere l’inaspettato regalo in arrivo da Verona. Nell’anno dei Mondiali del 1990 il calcio italiano è al massimo del suo splendore, e il campionato è acceso dal testa a testa tra Napoli e Milan per il titolo. Le due squadre si presentano alla penultima giornata a pari punti, ma mentre il Napoli va a far visita ad un Bologna tranquillo, e vincerà senza problemi, il Milan si ritrova di fronte l’incubo Bentegodi ed una squadra nell’occasione affamata di punti salvezza.

E’ il grande Milan di Sacchi e degli olandesi, ed il Verona ha un piede e mezzo in Serie B: quando nel primo tempo Marco Simone sblocca il risultato per i rossoneri, lo spareggio sembra messo in cassaforte. Ma al Milan saltano i nervi e le gambe, come diciassette anni prima. Sacchi protesta per un rigore non concesso a Van Basten e viene espulso, mentre nel secondo tempo Pellegrini e Sotomayor ribaltano clamorosamente il risultato, mentre il Milan in preda ad una crisi isterica finisce la partita in otto per le espulsioni di Rijkaard, Van Basten e Costacurta. Lo scudetto prende la via di Napoli, tra lo stupore generale. Il resto è storia dei giorni nostri, con Luca Toni capace di ritrovare lo smalto dei tempi del Mondiale 2006, ed affondare dopo oltre un decennio di assenza dal massimo campionato dell’Hellas la squadra di Allegri. A quarant’anni di distanza dal “peccato originale“, la Fatal Verona resta un’ossessione per la Milano rossonera.

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Calciatori Enrico D'Amelio

Tra Messi e Maradona c’è ancora un pezzo di leggenda da percorrere

di Enrico D’Amelio

Chi è più forte? Maradona o Messi? L’interrogativo del momento andrà avanti chissà per quanti anni ancora, senza capire che il vissuto del presente sarà necessariamente da storicizzare nel tempo. Il Pibe de Oro non può vantare Coppe dei Campioni o record di gol personali, ma, se ragioniamo su quello che ha fatto e su come c’è riuscito, dobbiamo metterlo ancora su un gradino superiore nel piedistallo degli eroi immortali del calcio. Intanto, dalla sua sta il fatto di non essersi fermato in una delle squadre più forti d’Europa come quella blaugrana, ma l’esser andato in una come tante, senza alcuna prospettiva di vittorie certe. Nella seconda metà degli anni ’80, Napoli è diventata il centro del mondo grazie a un genio che da solo ha cambiato volto a una squadra. Due campionati vinti, 1 Coppa Uefa, 1 Coppa Italia e 1 Supercoppa di Lega vanno considerati, come coefficiente di difficoltà, un qualcosa di superiore rispetto all’essere attore protagonista di una macchina perfetta e rodata da anni.

marNon tutti riuscirebbero a fare la differenza, questo è vero, ma avere vicino Xavi, Iniesta, Villa e Pedro rende le cose sicuramente più facili rispetto a girarsi e trovare onesti comprimari come Romano, Bruscolotti, Sola e Ferrario. Il gol alla Juventus al San Paolo da punizione a due in area con la barriera a 4 metri, Tacconi trafitto e uno stadio in delirio, è stato uno dei tanti momenti di estasi partenopea. E poi le sfide al Milan di Sacchi, il gol di testa a Galli segnato da centrocampo, quello al Verona di piede da 50 metri e gli innumerevoli giochi di prestigio nonostante una vita fuori dal campo non proprio da atleta.

Ci sono maglie che calzano addosso a un calciatore meglio di un abito su misura: se Michel Platini, con il suo stile aristocratico e snob non poteva che giocare nella Juventus di Gianni Agnelli, Maradona doveva giocare nel Napoli di Corrado Ferlaino a Fuorigrotta. Rappresentare a livello calcistico il riscatto di una città meravigliosa, ostaggio della malavita e di una politica dissennata, che la domenica trovava la pace dei sensi con le magie di un funambolo con il numero 10 cucito dietro le spalle. E poi il Campionato del Mondo. Messi nel 2010 è stato poco più d’una comparsa, Maradona, nelle quattro edizioni a cui ha partecipato, ha sempre lasciato il segno. Ovviamente nel 1986, quando ha condotto una modesta Argentina sul tetto del pianeta. La gara contro l’Inghilterra, metafora politica legata al calcio, dopo lo schiaffo inglese delle Isole Falkland. Novanta minuti di riscatto, che hanno di gran lunga superato quello che avrebbe potuto raccontare (inventare) solo il cinema. Dopo un primo tempo finito 0-0, l’invenzione del genio. Un gol di rapina, di mano, a irridere il portiere inglese Shilton e tutta una Nazione che aveva oltraggiato la sua terra. I politicamente corretti del calcio, quelli del fair-play a tutti i costi e che non hanno capito perché fosse sacrosanto scipparlo quel gol agli inglesi, sono stati zittiti dopo soli tre minuti, quando in uno stadio messicano potevano assistere al gol più bello della storia del calcio.

La palla presa nella tua metà campo, gli avversari che ti si pongono davanti dribblati come birilli, una Nazione intera del Sud America sulle tue piccole spalle e un altro gol che fa più male del colpo di un fucile. In quel momento, tutte le borgate di Buenos Aires sono ai tuoi piedi, diventi di diritto l’eroe nazionale di tanta gente che sta ancora piangendo i suoi morti. Ti ringrazieranno a vita per aver fottuto due volte in tre minuti la Regina e tutti i suoi sudditi. E poi l’esserti posto sempre dall’altra parte nei confronti di Blatter e del ‘potere’, una squalifica ingiusta nel corso di un altro mondiale, dove a 34 anni stavi (ri)facendo la differenza da solo, fino all’aver sfiorato la morte per colpa della droga. Messi non ha ancora trovato il suo Napoli e non ha ancora condotto la sua Argentina in certe epiche imprese. Questo deve differenziare ancora oggi i due fuoriclasse. Allora, se provassimo a cambiare la domanda iniziale e a dire: ma se Maradona si fosse allenato come un atleta irreprensibile, cosa staremmo a raccontare, adesso? Non avremo mai la controprova. Ma forse è meglio così. Perché i due gol contro l’Inghilterra sono qualcosa che vanno oltre l’immaginario umano. D’altronde, esisterebbe sceneggiatura cinematografica migliore di una realtà in cui un gol ha per mandante Dio, un altro Che Guevara, ma entrambi vantano la stessa, inimitabile, firma d’autore di Diego Armando Maradona?

“Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono come ero io a Buenos Aires”

“Se mi trovassi a un matrimonio vestito in abito da sera e vedessi arrivare un pallone infangato, non esiterei un momento a stopparlo col petto”

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Spinozzi, l’Arcadia laziale: le storie incredibili dell’antieroe biancoceleste

di Fabio Belli

Nuovi argomenti” è la rivista fondata nel 1953 da Alberto Carocci ed Alberto Moravia che ha ospitato il meglio della letteratura moderna italiana. Personaggi raccontati, reali o immaginari, entrati nel mito grazie all’opera dei migliori scrittori nazionali. Quando nel 2008 Alessandro Piperno, romano, salì alla ribalta per il suo romanzo d’esordio “Con le peggiori intenzioni“, in un’intervista a “Nuovi Argomenti” confessò la sua passione per il calcio e la sua fede laziale, professata negli anni ’80, fonte quasi continua di sofferenze per i cuori biancocelesti, attraverso un idolo inusuale: Arcadio Spinozzi.

“Possedevo collezioni complete delle divise della Lazio, ma anche le tute di allenamento, per non parlare delle maglie dei portieri. In quegli anni la Lazio era una squadra disgraziata, derubata, degradata (un’allitterazione che vale perfettamente quel dramma). Ma a me piaceva così. Anzi, avevo il vezzo di acquistare la maglia dei giocatori più mediocri. Mi si poteva incontrare per Roma con la maglia di Arcadio Spinozzi, un libero all’antica il cui viso sembrava essere divorato dalla barba. (…) Arcadio Spinozzi era la Lazio. La rappresentava molto più di campioni del calibro di Giordano e Manfredonia, che l’avevano svenduta senza ritegno. Quella maglia d’un blu assai più elettrico di quanto apparisse in tv era tutta per Arcadio. La mia Arcadia…” Queste le parole di Piperno che riportarono prepotentemente alla ribalta un campione mai dimenticato in realtà dalla tifoseria laziale.

In realtà Spinozzi, tormentato durante la carriera da calciatore da infortuni di ogni tipo, poteva diventare molto di più del buon difensore centrale che con la maglia della Lazio collezionò 123 presenze in campionato ed un solo gol, ma in Coppa Italia. In realtà però finì col tramutarsi in qualcosa di più grande: icona del calciatore pulito ed indomito, favorito dal bell’aspetto reso più truce dalla barba, Spinozzi ha finito per divenire un simbolo diverso della lazialità, come indicato perfettamente da Piperno, in quanto le intuizioni di cui sopra vennero in gran parte confermate dalla biografia dello stesso Spinozzi, “Una vita da Lazio“.

Il ritratto di un calciatore poco appariscente ma molto amato dalla tifoseria, è quello di un giocatore, ma prima ancora di un uomo, assolutamente intollerante ai compromessi e a quel “marcio” che iniziava a farsi largo già nel calcio di allora. E allora si passa dai capricci di Giordano e Manfredonia che costringono la squadra ad andare a vedere una partita di dilettanti piuttosto che recarsi al cinema, le debolezze dei dirigenti e di un Luciano Moggi già dipinto come “Barabba” quando ancora era un Dg alle prime armi, sospetti su doping, partite truccate, fino alle follie di Juan Carlos Lorenzo, l’allenatore dell’ultima retrocessione della Lazio, che costringeva i calciatori a bere uova crude e li disorientava a colpi di insulti ed elogi alternati senza apparente logica.

Una Lazio pazza e surreale che nessuno aveva mai raccontato dall’interno: ma il mito del personaggio di Spinozzi passa anche attraverso episodi personali incredibili, come il suo momentaneo coinvolgimento, a causa della denuncia di un mitomane, nel caso del rapimento di Emanuela Orlandi, oppure il suo essere sopravvissuto, assieme alla squadra del Verona, al tragico incidente ferroviario sulla tratta Bologna-Firenze del 1978. Primo calciatore sindacalista, di Spinozzi i tifosi della Lazio ricordano però anche e soprattutto il suo atteggiamento generoso in campo, feroce su tutti i palloni, come in un derby del 1985 in cui la squadra, ormai spacciata, si rifiutò di cedere il passo, con Spinozzi in trincea, alla Roma ottenendo un insperato pareggio (Giordano rispose ad Antonelli). Le sue lacrime sul viale di Tor di Quinto al momento dell’addio alla Lazio, nel 1986, sono di fatto versate sulla fine di quell’esperienza, ma anche di un calcio “puro” che andava a scomparire assieme a personaggi come lui.