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Calciatori Fabio Belli

Liam Brady: il “calciatore intelligente”

di Fabio BELLI

Il concetto di “calciatore intelligente” è stato sviscerato negli anni spesso in un’unica direzione: ovvero, il giocatore a volte impegnato fuori dal campo, capace di esprimere concetti fuori dal coro, genio e sregolatezza che spesso si riflettevano però sul campo con prestazioni non sempre all’altezza della situazione. Per calciatore intelligente, però, si può anche intendere un termine squisitamente tecnico. Ovvero, il classico faro capace di guidare e leggere il gioco con quell’anticipo indispensabile per prendere in controtempo gli avversari. Tra i più intelligenti di sempre, in questo senso, l’irlandese Liam Brady può ritagliarsi un posto di tutto rispetto.

Aria distinta, forse anche leggermente snob, per tutta la seconda metà degli anni ’70 Brady è stato l’orgoglio dei tifosi dell’Arsenal, proprio per quella qualità superiore, le capacità di tiro e di regia del suo vellutato piede sinistro, che spiccavano in una squadra che, fino all’avvento di Arsene Wenger, era additata come sparagnina ed operaia (il “boring Arsenal nei cori di dileggio dei tifosi avversari). Brady era l’esempio che anche i Gunners potevano avere tra le loro fila un centrocampista raffinato, di dimensione europea, anche se la sua epopea a Londra Nord si esaurì con una FA Cup vinta nel 1979 e la grande delusione della finale di Coppa delle Coppe perduta l’anno successivo contro il Valencia.

Partito capellone, Brady vide la sua fronte perdere progressivamente la chioma nel corso della carriera da calciatore. “Gioca troppo a testa alta e prende troppa aria“, ridacchiavano bonariamente sulle tribune di Highbury i tifosi, in realtà omaggiando la sua grande eleganza palla al piede. Risero meno quando, alla riapertura delle frontiere nel campionato italiano, tra gli stranieri d’importazione il nome di Brady spiccò nella rosa della Juventus che puntò su di lui per garantirsi una solida e raffinata regia a centrocampo, dopo aver perso gli ultimi due assalti allo scudetto. Dopo 235 presenze e 43 gol in sette stagioni nella massima serie inglese, Brady lasciò l’Arsenal fra le lacrime di commozione dei tifosi.

L’ambientamento a Torino fu parecchio complicato, il suo stile per la rocciosa squadra allora allenata da Giovanni Trapattoni era forse troppo compassato per gli aspri ritmi della Serie A. A rimetterlo in riga ci pensò Beppe Furino, il “quattropolmoni” dei bianconeri che non aveva la classe del sinistro di Brady ma che, correndo a centrocampo anche per lui, non aveva problemi riguardo troppi palloni persi e scarso impegno. La musica cambiò già nella seconda metà del campionato 1980/81, conquistato dalla Juventus dopo una lunga sfida a distanza con Roma e Napoli. Il duello più emozionante fu quello dell’anno successivo contro la Fiorentina di Picchio De Sisti in panchina e Giancarlo Antognoni in campo. Le due squadre arrivarono a pari punti all’ultima giornata, in vetta alla classifica: ma mente i viola pareggiarono a Cagliari, la Juventus espugnò il “Ceravolo” di Catanzaro grazie ad un rigore trasformato da Brady con una proverbiale freddezza che i tifosi bianconeri ancora ricordano.

Vinto il secondo scudetto di fila, l’avvocato Agnelli lo sacrificò sull’altare dell’arrivo a Torino di Michel Platini. Brady non fece una piega, passando a dettare i tempi del gioco, sempre a testa alta, a Genova sponda Samp. In Italia si trovò bene, l’Inter lo pagò tre miliardi e mezzo per affidargli le chiavi del centrocampo ma arrivò solo a sfiorare per due anni consecutivi la finale di Coppa UEFA. Quindi, complice qualche acciacco, un passaggio all’Ascoli, allora provinciale di lusso. Nel 1987 decise di tornare in Inghilterra per chiudere la carriera e qualche tifoso dell’Arsenal sperò in un suo ritorno ma la sua scelta cadde sul West Ham: troppo intelligente, Brady, per non capire che le minestre riscaldate difficilmente riescono saporite.

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Calciatori Enrico D'Amelio

Totò Di Natale, ovvero: dei treni da prendere e di quelli da lasciar passare

di Enrico D’Amelio

Il quartiere 219 di Pomigliano d’Arco è un luogo che opprime gli adulti e fa sognare i bambini. Padri impegnati dalla mattina alla sera a lavorare in uno dei poli industriali più famosi del Mezzogiorno, e figli che corrono dietro a un pallone nella speranza di un futuro lontano da umiliazioni e incertezze, da stenti e rassegnazione. Come per i fiori che sbocciano in primavera, però, anche il talento degli uomini, per formarsi ed emergere, ha bisogno del suo habitat naturale. Se alla Napoli di fine anni ’80 si sostituisce la tranquilla provincia toscana, un ragazzo cresciuto sotto il mito di Maradona può sbocciare ugualmente, ma probabilmente più in là nel tempo. Perché la luce del fiore che sembrava prodigio può essersi temporaneamente offuscata. In quel quartiere nasce Antonio Di Natale. Lì inizia a giocare a calcio, lì comincia la sua storia.

Notato dal talent-scout Lorenzo D’Amato alla Scuola Calcio San Nicola a Castello di Cisterna, lascia la terra d’origine nel 1990, a soli 13 anni, per trasferirsi ad Empoli. Dal gioco al professionismo, con la storia che diventa viaggio. Il treno della vita, che si dice passi una sola volta, viene preso, anche se non a cuor leggero. A 500 km da casa iniziano le nostalgie e le profonde crisi interiori, figlie della lontananza da papà Salvatore e mamma Giovanna, ma soprattutto dai quattro fratelli (il più piccolo chiamato affettuosamente ‘Masaniello’) e dalla sorella Anna. Nonostante la classe superiore a quella dei coetanei, Totò vorrebbe mollar tutto e fare ritorno a casa, per vivere una vita forse più difficile, ma certamente più normale, almeno per un adolescente. Viene convinto dal ‘fratello maggiore’ Vincenzo Montella (uno dei partenopei trasferitisi in Toscana, come Nicola Caccia e Francesco Lodi) a stringere i denti e ad andare avanti. Così succede che il viaggio prosegue, anche se con qualche sosta di rito, come tutti quelli da compiere nel nostro paese. Nessun esordio precoce in Serie A, ma due anni a fare esperienza tra la provincia di Bologna (Iperzola) e Viareggio, prima del ritorno a Empoli nel 1999, ad ormai 22 anni. Tre stagioni in Serie B, con la prima annata in doppia cifra (16 gol nel 2001/02) che coincide con la promozione nella massima serie. Il debutto nel grande calcio arriva a 25 anni. Un po’ tardi per chi poteva già essere su altri palcoscenici, ma a fare la differenza a certi livelli non sono solo i mezzi tecnici, ma quelli interiori. Una vita da atleta irreprensibile e il matrimonio con Ilenia, oltre ad una fisiologica maturazione anagrafica, consentono una conferma anche nella categoria maggiore, con 13 marcature e l’esordio nella Nazionale allenata da Giovanni Trapattoni, in un’amichevole contro la Turchia.

A 27 anni il treno riparte e porta ancor più lontano, questa volta nel luogo della maturità e della definitiva consacrazione: Udine. Nulla di più agli antipodi per uno nato nell’hinterland napoletano, ma un posto forse freddo e discreto nel modo giusto per non far implodere un fiore dal cuore troppo caldo. La prima parentesi, con Luciano Spalletti in panchina, è memorabile a livello di squadra, con la qualificazione ai preliminari di Champions League (prima volta per la società bianconera), ma meno per quel che riguarda l’impatto personale, costellato da 7 segnature in 33 presenze. Diventano 8 i gol nella stagione successiva, fino a una doppia cifra raggiunta con stabilità per tre campionati consecutivi (11, 17 e 12). I compagni di squadra cambiano, come nella politica della famiglia Pozzo, ma Totò diventa sempre più un punto di riferimento, tanto che arrivano la maglia numero 10 e la fascia di Capitano. E’ nel 2009/10, a 32 anni, quando un calciatore ha già dato il meglio del suo repertorio, che il fiore sboccia del tutto, con 29 gol in 35 presenze, e le prime attenzioni dei club più importanti del nostro calcio (Juventus e Milan su tutti) a metterne in dubbio il futuro in Friuli. Un’altra scelta da fare, a distanza di quasi 20 anni, questa volta a livello professionale: essere una Bandiera della società friulana, o giocarsi le proprie carte in un top club, con una carriera sicuramente più breve, e anche più marginale? Un attento esame interiore spinge verso la scelta meno ambiziosa, ma probabilmente più saggia, se guardata a posteriori. Il Capitano diventa il giocatore più prolifico di sempre in maglia bianconera, oltre che quello con più gettoni di presenza in tutte le competizioni. Non più Zico, dunque, protagonista di due fugaci stagioni a Udine nella metà degli anni ’80, ma Di Natale al primo posto nell’immaginario collettivo friulano, con il recente sorpasso su Roberto Baggio nella classifica dei cannonieri di tutti i tempi della Serie A.

Il viaggio parallelo, quello con la maglia azzurra, è fatto di alcune soddisfazioni, ma non perdona i troppi ritardi accumulati. Più tranquillo e a proprio agio nelle gare di qualificazione, che non nella pressione del Grande Evento. Non convocato per il Mondiale del 2006, dove invece si laurea Campione del Mondo il compagno di squadra Vincenzo Iaquinta, e protagonista di una Nazionale scarica dal trionfo precedente, con le magre figure agli Europei del 2008 e al Mondiale in Sudafrica del 2010. Il vuoto lasciato dagli addii di Totti e Del Piero non viene colmato, un po’ per un carattere non allenato ai grandissimi palcoscenici, un po’ per un movimento calcistico che ha oramai perso la generazione migliore. Nel primo biennio di Prandelli, però, passa l’ennesimo treno da prendere al volo, con l’orgoglio ferito italiano che tenta il canto del cigno agli Europei del 2012 in Ucraina. Un gol a Casillas nella prima gara del girone ai pluricampioni spagnoli dà l’illusione di un finale diverso, con un trofeo finalmente da poter conquistare. Sempre contro gli iberici, però, arriva la delusione della medaglia d’argento con un sonoro 4-0 in finale, e l’ultima presenza con la seconda maglia più amata di sempre.

L’ultima parte della storia è tutta da scrivere, e quella del viaggio ancora da percorrere. Un inizio, un tragitto, una fine. Tanta strada battuta, per ritornare, come spesso capita ad ogni ‘Eroe’, al punto di partenza. Forse proprio lì, al 219 di Pomigliano d’Arco, ad osservare altri bambini che giocano, vincono e perdono, ancora nel mito immortale di Diego. Oppure, più probabilmente, nella quiete friulana. Nella speranza che i ragazzi di quella terra abbiano acquisito un esempio da raggiungere e un idolo da emulare. Non con la maglia di Juventus, Milan o Inter, ma, finalmente, con quella dell’Udinese. Questa sarà la definitiva consapevolezza di aver fatto la scelta giusta. Sui treni presi al momento giusto, e su quelli che è stato saggio lasciar passare.

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Club Fabio Belli

20 aprile 1986, Roma-Lecce: indagine su una partita al di sopra di ogni sospetto

di Fabio Belli

Il fascino del calcio rispetto agli altri sport di squadra, è cosa abbastanza nota, consiste nella sua imprevedibilità. Difficilmente il pronostico può essere sovvertito quando il divario tecnico è troppo ampio: e così nel basket, nella pallavolo, nell’hockey e in tutte le altre discipline, si può assistere a finali olimpiche o lotte per il titolo all’ultimo sangue, ma difficilmente si può arrivare a vedere sciupare occasioni le squadre di testa opposte a formazioni destinate alla retrocessione.

Il 20 aprile del 1986 il calcio italiano ha fatto registrare uno dei più clamorosi testacoda della sua ormai ultracentenaria storia. L’Italia amante del pallone era sintonizzata sulle frequenze di “Tutto il Calcio Minuto per Minuto” con lo stesso stato d’animo di un lettore di gialli pronto a scoprire il nome dell’assassino. Il thrilling era garantito dall’incredibile rimonta che la Roma aveva messo in piedi ai danni della Juventus di Trapattoni. Un campionato a due strappi, quello della stagione 1985/86. La Juventus, inarrestabile, chiude il girone d’andata a 26 punti sui 30 disponibili. Secondo è il Napoli a -6, a otto punti di distanza seguono Inter e Roma. Già, i giallorossi: spettacolari e poco concreti come erano già stati sotto la guida di Sven Goran Eriksson nella precedente stagione, la questione-scudetto in inverno non sembrava proprio aperta.

E invece: nelle successive tredici sfide, la Roma ottiene 23 punti su 26, vincendone 11 (compreso lo scontro diretto contro la Juve con uno spettacolare 3-0 all’Olimpico), pareggiando a Firenze e perdendo solo a Verona. La Juventus avanza invece alla sconcertante media di un punto a partita. Un calo certificato anche dall’eliminazione in Coppa dei Campioni per mano del Barcellona. Si arriva alla penultima giornata con gli otto punti completamente rimontati. Il calendario recita: Roma-Lecce e Como-Roma per i giallorossi, Juventus-Milan e Lecce-Juventus per i bianconeri. Parlare di Lecce arbitro dello scudetto è però quasi roba da ridere: i salentini, al loro primo campionato in assoluto in Serie A della loro storia, di punti ne hanno messi insieme in tutto 14, e sono mestamente già retrocessi in cadetteria. Secondo gli esperti, non ci sono dubbi: saranno il Milan e il Como a decidere le sorti del titolo.

Il fattore psicologico però è da non sottovalutare: mentre la Roma è lanciatissima e col morale alle stelle per l’aggancio, la Juventus è evidentemente in affanno e affronta un Milan pronto a iniziare l’era-Berlusconi e a riacquistare quarti di nobiltà perduti ormai da oltre 15 anni di bocconi amari e cadute in B. Se sarà sorpasso, difficilmente i giallorossi perderanno l’occasione al “Sinigaglia” contro un Como coriaceo ma già salvo. Come detto, in questi calcoli della vigilia il Lecce non viene neppure considerato. Gli uomini di Fascetti scendono in campo in un Olimpico pavesato a festa: il Sindaco DC Nicola Signorello e il presidente giallorosso Dino Viola si esibiscono in un giro di campo quasi preludio di festeggiamenti ancora da conquistare. Chi in tribuna fa gli scongiuri, lo fa con la mente rivolta esclusivamente alla Juventus: se i bianconeri battessero il Milan, lo spareggio poi sarebbe comunque da giocare. Ma altri scenari funesti non vengono evocati, anzi anche uno spareggio, con la Roma in tali condizioni, da molti viene visto come una formalità, anche alla luce del 3-0 di poche settimane prima.

Graziani dopo 7′ porta in vantaggio la Roma, e non potrebbe essere altrimenti. L’Olimpico non esplode, si limita a proseguire nelle feste e nelle esultanze del prepartita, sperando di ricevere buone notizie dal “Comunale” di Torino. Impossibile preoccuparsi neanche quando Alberto Di Chiara, cresciuto nel settore giovanile giallorosso (al contrario del fratello Stefano, ex Lazio e anche lui presente in campo con la maglia del Lecce) beffa il fuorigioco di Eriksson e sigla il pareggio. Poco dopo, uno scellerato passaggio in orizzontale di Giannini, di quelli che fanno infuriare il Cruyff allenatore, regala il via libera a Pasculli atterrato da Tancredi. Barbas, dal dischetto, non sbaglia.

Cosa accada nell’intervallo non è dato sapere: c’è chi parla, ovviamente senza che mai arrivino conferme ufficiali, di ammiccamenti tra i due spogliatoi, col Lecce che se “incentivato”, non ci terrebbe a guastare la festa. Il pensiero indecente, se mai balenato nella mente di qualcuno, viene subito cancellato: troppo forte la Roma per non ribaltare comodamente il risultato, sugli spalti c’è chi è sicuro di una vittoria finale con vantaggio almeno doppio, come accaduto nella trasferta di Pisa una settimana prima, nella partita dell’aggancio. Parlando di scommesse però, il Totocalcio successivamente farà balenare un particolare quantomeno curioso: i tredici saranno 128 quella domenica, un’enormità se si pensa a quanto improbabile era considerata nel sentore popolare la vittoria del Lecce all’Olimpico.

Al rientro in campo, la Juventus sta comunque pur sempre pareggiando contro il Milan. La Roma riparte completamente proiettata all’attacco, e puntualmente la zona di Eriksson regala quegli spazi che permettono a Barbas, ancora lui, di firmare il 3-1. Impossibile ma vero: al “Comunale” i tifosi spingono letteralmente la Juventus verso la vittoria, e quando Laudrup porta in vantaggio i bianconeri, all’Olimpico inizia a consumarsi il dramma. La Roma spreca tanto, trova finalmente il gol a 8′ dalla fine con Pruzzo, ma ormai i cavalli sono proverbialmente scappati dal recinto.

Il Lecce, re per una notte, andrà ko all’ultima giornata, stavolta come previsto, contro la Juventus, mentre una Roma agghiacciata da quanto accaduto la settimana precedente sarà sconfitta anche dal Como. A distanza di quasi 30 anni, è davvero difficile ipotizzare cosa sia accaduto quel giorno. La storia di Davide e Golia stavolta è poco plausibile, considerando l’enorme differenza di motivazioni che intercorreva tra le due squadre, al di là dello scalino tecnico altrettanto ampio. Come sempre gossip, voci e veleni si rincorsero alla fine di una stagione che fu funestata dal secondo scandalo del calcioscommesse.

Nel libro di Oliviero Beha e Andrea Di Caro “Indagine sul Calcio”, il figlio del presidente giallorosso Viola, Ettore, dichiarò: ” Mio padre alla fine della partita era distrutto, incredulo, ma non sospettò mai nulla. Ai giocatori della Roma conveniva vincere. Mio padre aveva messo in palio per lo scudetto un premio clamoroso. La verità mai rivelata è che ci arrivarono voci insistenti di un premio a vincere o a pareggiare, che fu promesso al Lecce dalla Juventus. Giocarono la partita con una vis agonistica insolita per una squadra già retrocessa”. Ma nello stesso volume il bomber della Roma, Roberto Pruzzo, propone un’analisi che resterà per sempre quella ufficiale: “So che girarono voci, ma erano stronzate. Io ero un leader dello spogliatoio, non passava nulla che io non sapessi. E se qualcuno si fosse giocato la partita io l’avrei saputo. La verità è che nello spogliatoio non si giocava. Il Lecce rappresentò un incubo che può essere compreso solo se si considera quella partita come una follia isolata. Quella rincorsa ci causò un incredibile dispendio di energie fisiche e nervose. Avevamo finito la benzina,ecco la verità. Il calcio è bello anche perché esistono gare come quella. Purtroppo capitò a noi viverla”.

 

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#Contromondiali Fabio Belli

#Contromondiale 11: #Italia, #Morso, #Rimorso, #Suarez, #Dimissioni, #Grecia, #Samaras, #Mondragon, #Selfie

di Fabio Belli

Italia – Uruguay 0-1

Le nuove frontiere del cibo italiano
Le nuove frontiere del cibo italiano

66. Abbiamo già parlato di quanto i deja vu siano frequenti nei Mondiali. L’Italia si ritrova coinvolta in un’eliminazione tra grandi controversie arbitrali, come già avvenuto nel 1962 e nel 2002, quando un arbitro chiamato Moreno, così come in questo caso, scatenò l’ira dei tifosi azzurri. Il Moreno attuale è messicano e soprannominato Dracula, con il centravanti della squadra avversaria, Suarez, famoso per avere il “vizietto” di mordere gli avversari. Possibile che ci ricaschi con Dracula al fischietto? E soprattutto che Dracula non se ne accorga? Ovviamente sì: e il morso di Suarez a Chiellini rischia di diventare (anzi, forse già lo è) un cult alla pari della testata di Zidane a Materazzi nel 2006. In quel caso Horacio Elizondo non fece finta di non vedere, stavolta Dracula-Moreno sì: e questo è costato a lui le prossime partite del Mondiale, a Suarez una probabile, lunga squalifica, e all’Italia l’eliminazione. In una sorta di circolo inesauribile della storia mondiale azzurra.

Le eliminazioni dell'Italia ai Mondiali nel 1954 e nel 2014, trattate con enfasi differente dalla stampa
Le eliminazioni dell’Italia ai Mondiali nel 1954 e nel 2014, trattate con enfasi differente dalla stampa

 

67. Insomma, ce ne sarà di chi parlare a lungo, ma l’aspetto tecnico del match contro l’Uruguay non è scivolato in secondo piano. Anche e soprattutto perché l’espulsione (ingiustificabile errore, va detto) di Marchisio ha accelerato una deriva del match che, dopo un primo tempo di buon contenimento, aveva portato l’Italia ad arretrare paurosamente il baricentro dopo l’espulsione del nervoso, instabile ma probabilmente indispensabile (sì, qui andiamo controcorrente) Balotelli. Una scelta difensiva implosa quando qualcosa è andato storto, e non è un caso che invece di gridare all’ingiustizia (come avvenne nel 2002), i media italiani si siano scatenati contro il non-gioco espresso dagli azzurri dopo due anni di preparazione ed una finale europea. A parte qualche sprazzo contro l’Inghilterra peggiore dagli anni ’70, contro Costa Rica ed Uruguay i tiri in porta si sono contati sulle dita di una mano. A sessant’anni di distanza, si può comunque ammirare come sia cambiato il modo di reagire da parte dei giornali italiani ad un’eliminazione dell’Italia ai Mondiali.

"Prandelli, stai sereno".
“Prandelli, stai sereno”.

68. E parte la solita sequela del tutti contro tutti: Prandelli attacca la stampa, Abete se la prende col sistema, Marchisio con Suarez, Verratti con l’arbitro e tutti, ma proprio tutti, con Balotelli. Da Bearzot a Vicini a Sacchi, da Zoff a Trapattoni a Lippi, il rito delle dimissioni in Italia fa sempre scalpore, forse perché inusuale. Di sicuro ci troviamo ad un punto che ha riportato il calcio italiano indietro di circa 50 anni: dopo lo scandalo di Cile ’62, arrivò il diluvio Corea del Nord a svegliare un football azzurro addormentato (ma che allora già dominava con le milanesi a livello internazionale di club). Due eliminazioni al primo turno che tornano clamorosamente d’attualità, ora che dopo un’edizione del 2010 giocata colpevolmente (e lo si capisce ora) con la pancia piena e senza stimoli, si torna di nuovo a casa. Via Prandelli, via Abete, la Nazionale ha bisogno però di protagonisti veri anche in campo: perché il sistema-calcio italiano sarà in crisi profonda e non si può negare, ma paesi come la Costa Rica e lo stesso Uruguay, non si può dire che raggiungano risultati superiori ai nostri con investimenti finanziari maggiori e politiche più lungimiranti. Lavorare bene, alla lunga, paga più che lavorare tanto, al di là dei luoghi comuni.

Costa Rica – Inghilterra 0-0

I giornali inglesi i più severi nei confronti di Suarez
I giornali inglesi i più severi nei confronti di Suarez

69. Partita che aveva poco da dire: i “Ticos” hanno dimostrato una volta di più di meritare la qualificazione e il primo posto, gestendo il pari che serviva loro per chiudere in testa. Inghilterra senza stimoli, tanto che i giornali inglesi hanno preferito concentrarsi sul caso-Suarez, stella della Premier League. E in barba agli interessi del Liverpool, la stampa britannica c’è andata giù pesante, con titoli del tipo “squalificate questo mostro”. Con due morsi e una squalifica per razzismo già alle spalle, Suarez (che si era affidato anche a uno psicologo per evitare di cadere di nuovo in questo tipo di comportamenti) potrebbe andare incontro ad una squalifica a tempo che coinvolgerebbe anche i Reds.

Giappone – Colombia 1-4

Faryd (nelle figurine italianizzato in "Fabio") Camilo Mondragòn, recordman dei Mondiali a 43 anni, ai tempi di USA '94
Faryd Camilo Mondragòn, recordman dei Mondiali a 43 anni, ai tempi di USA ’94

70. Se non ci fosse Suarez, la storia del giorno sarebbe sicuramente la sua: Faryd Mondragòn, classe ’71, a fine partita si è piazzato tra i pali della Colombia ed è diventato il giocatore più anziano della storia dei Mondiali. A 43 anni, c’era già ad USA ’94, ed è allla sua terza Coppa del Mondo solo perché la Colombia era assente dalla rassegna dal ’98. Un momento emozionante, in parte rovinato dalla FIFA che non ha permesso al numero uno il giro di campo finale in compagnia dei figlioletti.

Grecia – Costa D’Avorio 2-1

71. Il collegamento tra Grecia ed Epica è sin troppo facile, ma da dieci anni a questa parte la Nazionale ellenica, a fronte di risorse decisamente limitate, sta riuscendo ad ottenere risultati incredibili. E soprattutto a sovvertire situazioni sulla carta irrimediabili. L’impresa di Euro 2004 è agli atti e nella storia, ma anche due anni fa negli Europei in Polonia e in Ucraina, si guadagnarono un quarto di finale contro la Germania quando l’eliminazione sembrava inevitabile. Stesso copione stavolta: dopo il rovescio iniziale contro la Colombia e lo scialbo pari contro i giapponesi, chi si aspettava la coppia Samaris-Samaras (a proposito: con il messicano Ochoa è il secondo svincolato decisivo a Brasile 2014, dov’è l’errore?) agli ottavi? E contro la Costa Rica, poi: comunque vada, tra le prime otto del Mondiale ci sarà una prima volta assoluta ed inaspettata.

Rimasugli di Croazia – Messico 1-3

72. Non ce ne vogliano Bradley Cooper, Ellen DeGeneres e le stelle degli Oscar, ma a nostro avviso il “selfie” dell’anno è questo. Que viva Mexico, Que viva Héctor Herrera!

Hector Herrera re dei "selfie"
Héctor Herrera re dei “selfie”
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Fabio Belli Presidenti

L’Avvocato Agnelli, dalla miniera di aneddoti all’amore per Platini

di Fabio Belli

Dire Juventus e dire Agnelli è la stessa cosa, quasi tutti lo sanno. Da Giovanni all’Avvocato Gianni, da Umberto fino ad arrivare ai giorni nostri, ad Andrea e alla possibile apertura dell’ennesimo ciclo vincente bianconero, che si rigenera dalle ceneri di Calciopoli come l’Araba Fenice. Dire Juventus è dire Agnelli, ma si può essere d’accordo che tra tutti i protagonisti della storia bianconera, l’Avvocato sia stato quello più carismatico, più ricco di stile e di aneddoti raffinati.

url-1Volerli riassumere in un solo articolo è follia, citarne qualcuno invece è un esercizio di stile che fa bene al cuore degli appassionati, oltre che allo spirito di chi vuole disintossicarsi dal calcio saturo di polemiche dei giorni nostri. Da quanti sterili protagonisti l’Avvocato sarebbe stato annoiato, se fosse ancora qui. Lui che amava i personaggi sopra le righe, originali, ed oltre ad essere stato, nella sua quarantennale esperienza da padre nobile della Juventus, una miniera di aneddoti, era anche uno che amava raccontare le storie del passato, quelle della Juventus cinque volte Campione d’Italia negli anni ’30, la squadra della sua prima giovinezza, ma anche quella dell’immediato dopoguerra, simbolo della rinascita dell’Italia dalle macerie.

Nella grandeur juventina degli anni ’80, all’Avvocato piaceva tormentare Platini, suo figlio calcistico preferito e per questo stuzzicato, come lo furono anche Baggio e Del Piero negli anni novanta. Una volta al campo di allenamento l’Avvocato si presentò in macchina, direttamente dentro il rettangolo verde, e cominciò ad intrattenersi con i calciatori. Propose una scommessa: fece piazzare tanti palloni sulla linea di centrocampo, e chiese a tutti di cimentarsi per provare a colpire volontariamente la traversa. In molti mancavano il bersaglio, qualcuno riusciva, lui osservava sornione finché notò Platini in disparte, che faceva stretching col massaggiatore. “Platini, la annoia il nostro gioco?” “Sinceramente , Avvocato.” rispose l’asso francese. “Allora perchè non prova a divertirci lei?” Senza battere ciglio Platini sussurrò qualcosa al massaggiatore, che lentamente si avviò verso la parte opposta del campo, e con l’aiuto di una panca salì a posizionare, in bilico sulla traversa, una lattina vuota. Da dove si trovava, Platini scalciò l’aria un paio di volte per sgranchirsi, quindi prese la mira e fece saltare, da una parte all’altra del campo, la lattina al primo colpo. “Molto bene,” si limitò a sorridere l’avvocato, e se ne andò.

Per parlare di Platini l’Avvocato, che era stato sempre un mattiniero, amava iniziare le sue settimane con telefonate a Boniperti, il suo uomo di fiducia alla Juventus che abbandonava gli spalti per scaramanzia alla fine di ogni primo tempo, e soprattutto al tecnico dell’epoca, Trapattoni, che alle sei del mattino si svegliava, comunque fosse andata la partita del giorno prima, per fare il punto con l’Avvocato. Che pungeva sempre: “Però quel Maradona lì mi sembra più bravo…” in un confronto che gli permetteva di rimproverare a Boniperti di aver lasciato cadere nel vuoto la sua segnalazione del Pibe de Oro, ai tempi dell’Argentinos Juniors. Amava tenere sulla corda i suoi uomini, l’Avvocato, ma lo faceva perché ne era orgoglioso. Ed era ottimista: quando in una assolata giornata di fine aprile del 1986 la Juventus piegò il Milan conquistando di fatto il suo ventiduesimo scudetto, a causa dell’incredibile crollo della Roma contro il Lecce, un giornalista gli chiese se si aspettava una giornata così. E lui rispose col suo solito tono ironico e disincantato: “Io mi aspetto sempre di tutto dalle giornate.” Stile inconfondibile, allora lo chiamavano stile Juventus.

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Calciatori Fabio Belli

Roberto Mancini e il colpo di tacco che fece la storia al “Tardini”

di Fabio Belli

“Ma che hai fatto? Che hai fatto???” L’entusiasmo di Bobo Vieri, quasi fanciullesco, faceva forse parte del carattere di un personaggio che, tra gli spigoli della sua indole, ha sempre mostrato di divertirsi, giocando a pallone. Ma quella sera, correndo incontro la compagno di squadra che aveva appena siglato il gol del vantaggio, non aveva fatto altro che esternare il pensiero di milioni di persone che, quel gol, l’avevano visto in diretta televisiva.

“Il gol più bello della storia”, fu il titolo dell’editoriale dell’allora direttore del Corriere dello Sport, Mario Sconcerti, il lunedì successivo alla partita. Forse iperbolico, ma senza mettersi a questionare sullo slalom di Diego Armando Maradona a Messico ’86 contro l’Inghilterra, sulla rovesciata del cigno di Marco Van Basten nella finalissima di Euro ’88, o sulle prodezze di Roberto Baggio, Pelè, Ronaldo, Messi o chi per loro, va detto che il colpo di tacco con il quale Roberto Mancini, con indosso la maglia della Lazio, ammutolì il “Tardini” di Parma in una sfida-scudetto del 1999, fu l’apoteosi del gesto tecnico in questione. Cross da calcio d’angolo ed impatto perfetto con il pallone, spalle alla porta, con sfera piazzata all‘incrocio dei pali, dove Gianluigi Buffon, allora estremo difensore degli emiliani e già della Nazionale, proprio non poteva arrivare.

In quegli anni Buffon aveva un conto aperto con la Lazio: neanche un anno dopo dal colpo di tacco di Mancini, subì un clamoroso gol da quasi 40 metri dal mediano biancoceleste Almeyda, una prodezza al volo irripetibile per l’interditore argentino, polmoni poderosi ma piedi poco nobili, ma forse per chiunque. Ma quel colpo di tacco fu una magia improvvisa, in una partita fino a quel momento equilibrata tra due squadre che si stavano giocando il primo posto. Una nuova scala del calcio, composta in quella stagione anche dalla Fiorentina allenata da Trapattoni, che si fece beffare sul filo di lana dal Milan di Zaccheroni, forse il più sparagnino della storia, ma trascinato da una forza irresistibile, quella della sorte, verso il suo sedicesimo scudetto.

La Lazio si riprenderà dalla delusione l’anno successivo, quello della pioggia di Perugia. Ma se si parla con la maggioranza dei tifosi biancocelesti, quasi tutti diranno che era quella squadra, quella che vinse a Parma con il colpo folle di Mancini, la più forte in assoluto della pur munifica gestione Cragnotti. In quella stagione e all’alba di quella successiva arrivarono due trofei europei a stretto giro di tempo, ma non lo scudetto, anche se la notte del “Tardini” sembrava spalancare a quella formazione qualunque possibilità. Mancini segnò il secondo gol laziale, ma quella partita finì tre a uno: il tris lo firmò proprio Vieri, conclusione di collo pieno, potentissima, alle spalle di Buffon nel finale di partita. Dopo quel gol, Bobo prese il pallone e se lo portò via, come per dire: dopo quello che vi abbiamo fatto vedere, questo ce lo portiamo a casa noi. E se non fu il più bello della storia, poco ci mancò…

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Allenatori Club Fabio Belli

“Cheating bastards!”: Juventus-Derby County del 1973 e l’anatema di Brian Clough sugli italiani

di Fabio Belli

In tempi di uragano scommesse, chi ama la retrospettiva può prendere spunto dalle parole di Giovanni Trapattoni, che affronterà Euro 2012 come CT dell’Irlanda: “All’estero ci chiamano mafiosi“. O a quelle di Daniele De Rossi, colonna del centrocampo della nazionale: “Il marchio di fabbrica ormai è quello.” Ma è proprio vero? A volte non bisogna farsi prendere dalla foga del momento, e ricordare come praticamente tutte le federazioni, nell’ormai bicentenaria storia del calcio, siano state coinvolte in scandali di ogni tipo. D’altra parte, l’essere arrivati nel giro di trent’anni ad uno scandalo delle scommesse numero quattro, che si aggiunge a Calciopoli e ad altre amenità sparse nel tempo, non può certo far bene a quella che unanimemente viene chiamata “reputazione“.

Un episodio illuminante in merito alla considerazione che all’estero hanno sull’attitudine tutta italiana agli “intrallazzi“, è individuabile in una ormai leggendaria semifinale di Coppa dei Campioni: l’11 Aprile del 1973 infatti la Juventus ed il Derby County di Brian Clough e Peter Taylor si affrontarono nel match d’andata per accedere alla finalissima di Belgrado. La spunterà la Juventus, con un 3-1 che venne poi difeso a Derby nella sfida di ritorno, ma le polemiche riguardo la partita furono feroci. I bianconeri torinesi furono trascinati da una splendida doppietta di Altafini, ma Clough espresse pesantissimi dubbi sull’influenza della federazione italiana sulla partita, e sulla conduzione arbitrale in generale. E in tempi in cui la diplomazia nel calcio era un’arte molto più praticata, soprattutto in occasione degli incontri internazionali, rimasero scolpite nella memoria collettiva le parole dell’allora allenatore del Derby, quando fu chiamato nel post-partita ad interloquire con i giornalisti italiani: “No cheating bastards will I talk to… I will not talk to any cheating bastards! (Non voglio parlare con nessun bastardo imbroglione).

Seguirono altrettanto pesanti dichiarazioni al ritorno in patria della squadra inglese, nelle quali venne messo in dubbio anche il valore dei soldati italiani nella seconda guerra mondiale, in un’escalation che faceva in fondo parte del modo di essere del tecnico inglese, abituato a dire quello che pensava senza curarsi troppo delle conseguenze. D’altronde Coughie, esponente medio della working class inglese, provava ribrezzo per ogni forma di aggiustamento o di possibile accordo partorito nelle stanze dei bottoni. Non per niente fu proprio grazie alla proverbiale, irriducibile lealtà sportiva inglese che il suo Derby County si laureò campione d’Inghilterra per la prima volta nella sua storia: la squadra era già praticamente in vacanza, in tournée a Maiorca, quando arrivò la notizia che il Leeds United aveva perduto l’ultima partita del campionato in casa del Wolverhampton, mancando così il sorpasso in vetta alla classifica sui “Rams”.

In realtà in quella semifinale le prodezze di Altafini ebbero un peso specifico decisamente superiore all’arbitraggio. Senza considerare che il Derby aveva giocato un massacrante match di campionato proprio contro il Leeds, nel quale Clough, spinto dalla rivalità col tecnico avversario Revie, non aveva risparmiato i migliori nonostante la posta in palio non fosse decisiva per la classifica. Segno che a volte l’accortezza non confina esattamente con l’imbroglio… anche se quel “Cheating Bastards” è un’idea degli italiani che probabilmente oltremanica, ed in generale oltralpe, resta impressa anche nella mente di chi non ha mai sentito parlare di questo episodio.