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Calciatori Club Fabio Belli

Giuliano Fiorini ed il gol che salvò la vita alla Lazio… e non solo

di Fabio BELLI

Le storie di tutte le squadre di calcio del mondo sono costellate di gol importanti, alcuni fondamentali, pietre miliari nella vita del club. Reti che hanno regalato scudetti, trofei internazionali, derby, salvezze e promozioni, o sensazioni uniche a chi era allo stadio. Pochissimi club però possono legare una storia, al momento ultracentenaria, all’esito fortunato di una singola partita. Uno scenario questo più consono ad un film che a una competizione sportiva, ma la romanzesca e tormentata storia della Lazio, spesso e volentieri proprio ad una pellicola da Oscar ha finito con l’assomigliare.

Nell’estate del 1986 il sodalizio biancoceleste si ritrova ad affrontare l’ennesima tempesta: non è la prima e non sarà l’ultima, ma in quel particolare caso è in gioco l’esistenza stessa della società. Schiacciata dai debiti dopo la sciagurata gestione-Chinaglia e implicata in un secondo scandalo delle scommesse dopo quello del 1980, la Lazio viene retrocessa in serie C/1 il 5 di Agosto, a causa degli illeciti contestati all’allora tesserato Vinazzani. Il punto è che i nuovi proprietari Calleri e Bocchi, già alle prese con un durissimo piano di risanamento e rilancio finanziario, sono chiari: se gli organi competenti non rivedranno la loro decisione, il loro impegno verrà meno, e la Lazio cesserà di esistere.

Ne segue un lungo mese di proteste e passione per i tifosi laziali, che culmina con la sentenza della CAF che mantiene la squadra allora allenata da Eugenio Fascetti in cadetteria, ma con 9 punti di penalità da scontare. Nell’epoca dei due punti a vittoria, ha quasi il sapore di una condanna posticipata, ma la squadra parte a razzo facendo addirittura pensare ad un’incredibile promozione: illusione che svanisce presto sotto i colpi di stress e stanchezza, che portano i biancocelesti a giocarsi la permanenza in B in un’infuocata domenica di Giugno, allo stadio Olimpico contro il Vicenza, allora ancora “Lanerossi”.

Una partita per la sopravvivenza: al di là dell’onta della terza serie, la Lazio deve evitare una retrocessione che comporterebbe il definitivo dissesto finanziario, con i nuovi azionisti di maggioranza che, a causa dei minori introiti della C, non potrebbero più far fronte agli impegni presi nella stagione 1987/88. Un incubo, un thriller in piena regola anche perchè il Vicenza con un pari si garantirebbe almeno gli spareggi per non retrocedere. E per i tifosi laziali la nemesi si materializza nelle fattezze del portiere dei veneti Ennio Dal Bianco, che para l’impossibile di fronte agli attacchi di una Lazio per nove undicesimi protesa in avanti, fatta eccezione per il portiere Terraneo ed il libero Marino.

Ma come in tutti i film a lieto fine, c’è sempre un eroe a portare la vittoria e la catarsi. Un eroe anticonvenzionale, con i capelli lunghi, un fisico non asciuttissimo e dedito fuori dal campo a tre passioni non strettamente legate fra di loro: famiglia, whisky e sigarette. “Il più forte attaccante del mondo senza fuorigioco“, lo definivano i compagni di squadra con un pizzico di ironia ma anche con tanta ammirazione per la sua generosità: Giuliano Fiorini, che a meno di dieci minuti dalla fine, consente alla Lazio di superare il muro-Dal Bianco e continuare a vivere, anche se la salvezza finale dovrà passare attraverso gli spareggi contro Taranto e Campobasso, all’inizio di Luglio.

Ma come in quei film che riservano ancora una scena dopo i titoli di coda, anche questa storia ha un’appendice sorprendente e commovente: l’eroe mancato della partita per il Vicenza, Dal Bianco, il portiere arrivato oltre i propri limiti, rientra a casa da Roma con la retrocessione che ancora brucia sulla pelle. Ma c’è poco tempo per pensarci: trova il figlioletto (oggi 32enne) in preda ad un malore, la corsa all’ospedale è provvidenziale. Un soccorso che sarebbe mancato senza il gol di Fiorini, visto che il Vicenza in caso di risultato positivo sarebbe andato subito in ritiro per gli spareggi, senza far passare da casa i calciatori. “Sono emotivamente legato a Lazio-Vicenza perché a volte le grandi delusioni si trasformano in grandi gioie. Era previsto, infatti, che se avessimo pareggiato con i biancocelesti avremmo partecipato agli spareggi a Napoli, rimanendo quindi a Roma per una settimana senza tornare a Vicenza. Tornai invece a casa, mio figlio piccolo ebbe dei problemi fisici ed io, nonostante il parere di tutti, decisi di farlo ricoverare nonostante. Ciò gli salvò la vita. Una sconfitta in campo si trasformò in un evento salvifico.” E allora quel gol di Giuliano sembra una volta di più scritto nel destino.

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Allenatori Calciatori Fabio Belli

Maestrelli e Chinaglia: “Quo vadis, Giorgio?”

di Fabio BELLI

Il calcio è in grado di far nascere legami speciali all’interno di squadre destinate a ricoprire un ruolo particolare nella storia di questo sport. Dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2011 la notizia del ritorno a Roma della salma di Giorgio Chinaglia alle orecchie più distratte sarà parsa perfettamente plausibile. In fondo la Capitale è sempre stata la seconda casa di “Long John“, anche quando l’attaccante nato in Toscana e trapiantato in Galles negli anni della sua gioventù si era fatto conquistare dal sogno americano.

lazioPuò risultare però più impressionante il fatto che l’ex centravanti della Lazio e della Nazionale riposerà accanto a quello che viene universalmente considerato il suo mentore, Tommaso Maestrelli, l’architetto del primo scudetto biancoceleste del 1974. Tra i due si era venuto a creare un autentico legame tra padre e figlio: chi conosce bene il background di quella Lazio sa quanto fosse speciale e a tratti incredibile quell’amicizia. Perché ora l’affetto e la devozione di Chinaglia per Maestrelli, proseguita per decenni anche dopo la scomparsa del tecnico nel 1976, sono cosa nota ma, all’inizio della loro storia umana e professionale, i due potevano benissimo incarnare la “strana coppia” uscita dalla penna del brillante Neil Simon.

Posato, elegante, psicologicamente all’avanguardia l’allenatore che, già al momento del suo passaggio dal Foggia alla Lazio, pur in Serie B, sapeva di poter plasmare la sua creatura migliore della carriera. Irruente, impulsivo, capace di accendersi per un nonnulla l’attaccante che, dopo la retrocessione del 1971, meditava di lasciare la Lazio sopratutto perché la discesa di categoria significò anche la separazione dal tecnico che l’aveva lanciato ed imposto in Serie A, Juan Carlos Lorenzo. E, come in una sceneggiatura hollywoodiana, fu un aneddoto particolare a cambiare il rapporto tra i due, nelle prime settimane permeato di scetticismo. Una storia legata ad un limone.

Nel 1971, fresca di retrocessione, la Lazio si trovava ad affrontare con squadre francesisvizzere ed austriache la Coppa delle Alpi. Torneo europeo minore, estivo e, alla vigilia di un match contro gli elvetici del Winterthur, Chinaglia nello spogliatoio sentiva scottare la sua fronte. Aveva trentanove di febbre. Lo comunicò all’allenatore in seconda Flamini, visto che Maestrelli, prima dell’inizio ufficiale della stagione 1971/72, non poteva sedere sulla panchina della Lazio. “Long John” imboccò il tunnel e si apprestò ad uscire quando venne fermato da Maestrelli. “Dove stai andando Giorgio?” chiese. Dove vai, “Quo Vadis“, quasi un monito di quella che per la Lazio sarebbe stata una chiamata per la storia.

“Ho la febbre, vado a casa”. E a quella risposta la visione di Maestrelli, quasi utopistica per una squadra che doveva affrontare il campionato di B, prese forma per la prima volta. “Guarda Giorgio,” gli disse prendendolo da parte, “tu lo devi fare per me. Sei ciò che può trasformare la Lazio attuale in una Lazio vincente.” Maestrelli sapeva che in biancoceleste avrebbe potuto coronare il suo sogno di creare una squadra da scudetto: a quel tempo però lo sapeva solo lui, perché la Lazio era un gruppo folle, spaccato, diviso in clan e gestito in maniera un po’ discutibile a livello manageriale (anche se a quel tempo era una colpa molto comune) dal presidente – papà Lenzini. “Ma mi reggo in piedi a malapena” fu la protesta di Chinaglia che fu lasciato ad aspettare da Maestrelli nei corridoi degli spogliatoi, in attesa di un miracoloso rimedio.

Il tecnico tornò con un limone di fronte all’esterrefatto attaccante. “Bevi il succo, ti farà passare l’infiammazione. E ora, se non puoi correre, cammina: vedrai che segnerai.” Allora i “rimedi della nonna” per i malanni di stagione erano sempre in voga. Fatto sta che bastò mezzo limone succhiato di malavoglia per far realizzare una tripletta in quarantasette minuti a Chinaglia, che fu sostituito dopo un’ora di gioco per andarsene sotto le coperte con una Lazio sicura della vittoria (il match finì 4-1).

Ovviamente ad avere proprietà magiche non era il limone, ma la forza di persuasione che Maestrelli riusciva ad avere verso il suo figlio prediletto. Un legame che portò Chinaglia a diventare uno di famiglia in casa Maestrelli, come ricordato anche dalla moglie Lina e dai gemelli figli dell’allenatore che divennero un portafortuna per quella strana, meravigliosa squadra. Un rapporto destinato a durare oltre la morte ora che i due riposano insieme nella tomba di famiglia del tecnico. Come se, una volta ritrovatisi, l’uno avesse detto di nuovo all’altro: “Dove vai, Giorgio?”, e la coppia inseparabile si fosse ricomposta come dentro quello spogliatoio dello stadio Olimpico. Potenza del calcio o, per chi vuole crederci, di mezzo limone.

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Club Fabio Belli

I New York Cosmos: ascesa e caduta per un… videogioco

di Fabio BELLI

Once in a lifetime” è uno splendido libro, purtroppo disponibile solo in inglese, che racconta nel migliore dei modi l’ascesa e la caduta di un esperimento unico al mondo: il tentativo da parte degli Stati Uniti di dominare la scena del calcio mondiale attraverso un club che ha vissuto a mille all’ora nella sua breve storia: i New York Cosmos. “Once in a lifetime” è anche il motto e lo stile di vita di una società che ha fatto giocare insieme Pelè, Beckenbauer e Chinaglia e chi era lì è pronto a giurare che fra i tre il leader della squadra fosse il terzo.

American Soccer - NASL - SoccerBowl '77 - New York Cosmos v Seattle SoundersPer carità, nulla da ridire su Long John, che era un signor centravanti, più giovane degli illustrissimi colleghi al momento dello sbarco negli USA e sicuramente dotato di una personalità straripante. Il particolare è però illuminante sulle dinamiche che portarono pian piano a sgretolarsi un club che all’epoca poteva contare su milioni e milioni di dollari per diventare grande. I Cosmos avevano arruolato delle star per divertire il pubblico, ma il calcio lo fanno i calciatori e l’essenza tutta particolare di uno sport come il “soccer” non poteva andare d’accordo con le esigenze dello show business a Stelle e Strisce.

Il colosso finanziario dietro i New York Cosmos era la Warner Communications: Steve Ross prese in carico in prima persona il compito di rendere i Cosmos la più prestigiosa squadra del mondo. Tra gli anni ’70 e ’80 i newyorkers vinsero cinque titoli della North American Soccer League (NASL) e, quando nel 1977 conquistarono il titolo contro i Seattle Sounders schierando contemporaneamente in campo Pelè, Carlos Alberto, Chinaglia e Beckenbauer, erano all’apice della fama. Ma l’alba degli anni ’80 fece suonare la sveglia, dimostrando come fossero i soldi a mandare avanti il pallone e non il pallone a produrre i soldi come Ross aveva promesso ai “capoccioni” della Warner all’inizio dell’avventura.

In pochi sanno infatti che la dorata bolla di sapone dei Cosmos scoppiò a causa di un… videogioco. La Warner Communications infatti deteneva tra le sue aziende anche l’Atari, con il mercato dei videogames che dal 1980 in poi era considerato una frontiera del futuro. Ma nel 1983 una prima grande crisi investì il mercato videoludico. Allora produrre un videogioco costava quasi come un film e la Warner prese una “legnata” memorabile con la conversione del film “Tron” in videogame. Le perdite economiche furono ingenti e, di conseguenza, vennero dismessi gli asset non strategici del gruppo come la stessa Atari e la Global Soccer, ovvero la società che controllava i Cosmos. I quali, senza l’appoggio della Warner, nel giro di tre anni chiusero i battenti e la NASL con loro.

Fra i tentativi di lanciare il calcio negli Stati Uniti il più riuscito è probabilmente l’ultimo: la MLS è ormai una lega organizzata a dovere, rispetta i tempi e le modalità alle quali lo sport americano è abituato ed è il giusto mix tra vecchie glorie, talenti emergenti ed idoli del posto in grado di appassionare il pubblico senza scadere a livello tecnico. Ma il fascino della NASL sarà forse irripetibile, visto che, oltre all’impatto di vedere tanti calciatori leggendari giocare tutti assieme, è stato l’unico vero tentativo di traslare il sogno americano nel mondo del calcio, con tutte le sue contraddizioni e il suo sfarzo accecante. Ed anche se i Cosmos ora sono rinati e forse presto parteciperanno alla MLS, si sa già in partenza che probabilmente non sarà mai la stessa cosa rispetto alla squadra di Pelè e Chinaglia, perché certe cose riescono solo “once in a lifetime“.

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Club Fabio Belli

Lazio-Bayern Monaco del 1974: Chinaglia contro Muller in una Coppa dei Campioni mai disputata

di Fabio Belli

Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi e D’Amico da una parte. Maier, Hanser, Rohr, Schwarzenbeck, Beckenbauer, Kappelmann, Hadewicz, Durnberger, Muller, Hoeness e Wunder dall’altra. La prima è una formazione ben conosciuta dai tifosi della Lazio, quella dello storico primo scudetto del ’74. Il secondo è un gruppo entrato a pieno diritto nella leggenda del calcio, quello che ha sdoganato il calcio tedesco di club ai massimi livelli a livello internazionale. Ovvero, il Bayern Monaco per tre volte Campione d’Europa tra il ’74 ed il ’76. Si tratta solo di un’amichevole, giocata all’Olimpico di fronte ad oltre 50.000 spettatori, ma il match assumerà una valenza simbolica importantissima, perché sarà l’unica passerella europea di un certo spessore da parte della “Banda del ’74”.

Wilson e Beckenbauer ad inizio partita (fonte LazioWiki - Vincenzo Cerracchio)
Wilson e Beckenbauer ad inizio partita (fonte LazioWiki – Vincenzo Cerracchio)

La partita si disputa di martedì il 17 settembre del 1974, una data scelta non a caso, perché il giorno dopo la Lazio, fresca del trionfo in campionato del 12 maggio, avrebbe dovuto esordire nella massima competizione continentale. Per giocare la prima sfida in Coppa dei Campioni la Lazio dovrà invece attendere altri 25 anni, quando il torneo si è già trasformato in Champions League, nella sua prima sfavillante edizione a 32 squadre. Questo perché i biancocelesti pagarono salatissimi gli incidenti dell’anno prima in Coppa UEFA, nel match di ritorno dei sedicesimi di finale contro l’Ipswich Town. Una situazione che portò alla squalifica dalle Coppe Europee la Lazio, che contava però sull’intercessione di Artemio Franchi, all’epoca potentissimo dirigente calcistico italiano e soprattutto presidente dell’UEFA, per vedersi rivolto un atto di clemenza, e poter essere presente all’appuntamento con la storia.

Probabilmente è stata però proprio la politica a chiudere l’ultimo portone tra la Lazio e l’Europa: la squadra di Maestrelli era vista come una magnifica meteora, e al momento degli incidenti contro l’Ipswich, nell’autunno del 1973, in pochi in Italia pensavano che l’exploit della stagione precedente, con lo scudetto perduto per il gol di Damiani a Napoli a 2 minuti dalla fine del campionato, avrebbe potuto essere ripetuto. L’assenza di una formazione italiana nella Coppa dei Campioni 1974/75 era vista come un danno di immagine anche dai vertici federali, che non si adoperarono da subito sul caso Lazio-Ipswich, proprio perché pensavano che al massimo i biancocelesti sarebbero stati assenti dalla Coppa UEFA dell’anno successivo.

E invece, verso l’aprile del 1974 fu chiaro che il miracolo sfiorato l’anno precedente, si sarebbe compiuto: un’ingerenza pesante di Franchi a quel punto sarebbe stata vista come ad uso e consumo della federazione italiana, e il tempo giocò semplicemente a sfavore di Chinaglia e compagni. Quell’amichevole del settembre ’74 fu dunque solo un flash di quello che poteva essere e non è stato. All’epoca la leggenda del Bayern era appena iniziata, con la conquista della prima Coppa dei Campioni dei bavaresi nell’incredibile finale di Bruxelles contro l’Atletico Madrid, e con il titolo Mondiale nella finale, disputata proprio a Monaco, contro l’Olanda di Crujyff. Proprio il modello al quale era accostata la Lazio di Maestrelli, capace di portare in Italia dinamismo, squadra corta, diagonali degli esterni difensivi e particolarità fino a quel momento sconosciute alla tattica della Serie A.

Quella squadra, ansiosa di confrontarsi contro formazioni come il Leeds di Bremner e Lorimer (poi finalista in quell’edizione proprio contro il Bayern), il Barcellona di Crujyff, il Borussia Monchengladbach di Gunter Netzer e con lo stesso Bayern, dovette accontentarsi di quella passerella con Franz Beckenbauer e Gerd Muller. Schwarzenbeck, l’uomo che aveva strappato con il suo gol nel recupero dei supplementari la Coppa all’Atletico Madrid garantendo la ripetizione del match al Bayern, portò in vantaggio i tedeschi, ma la Lazio rispose nel finale con Franzoni, attaccante di riserva ricordato soprattutto per un suo gol nel derby d’andata nella stagione dello scudetto. Rimase un flash, un rimpianto, forse la conferma della consapevolezza di potersi giocare qualcosa di importante al gran ballo delle Grandi d’Europa: ma l’invito, alla fine, non arrivò mai per quella squadra pazza e meravigliosa.

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Enrico D'Amelio Le Finali Mondiali

1974: Germania Ovest-Olanda 2-1. Quel traguardo mai oltrepassato

di Enrico D’Amelio

Gli avvenimenti della storia che si possono definire rivoluzionari hanno radici sempre lontane e non accadono mai per caso. Tra il 1915 e il 1925, il 1928 e il 1940, e tra il 1945 e il 1947, un signore inglese di nome Jack Reynolds venne chiamato ad Amsterdam ad allenare l’Ajax. Lì iniziò a mettere in pratica un nuovo sistema di gioco di democrazia tattica applicata al calcio, dove nessun giocatore era ancorato al proprio ruolo, e nel corso della partita chiunque poteva operare indifferentemente come difensore, centrocampista o attaccante. Velocità di pensiero, ricerca continua degli spazi e mai una posizione predefinita erano le prerogative di tale impostazione. Tra gli interpreti di spicco di questo ‘calcio totale’ c’era il futuro commissario tecnico della Nazionale olandese, Rinus Michels, che 27 anni dopo condurrà gli oranje a un passo dal sogno al Mondiale in Germania Ovest del 1974. Nella memoria collettiva, l’Olanda degli anni ’70 viene ricordata come la più bella espressione di romanticismo incompiuto legato allo sport. Una filosofia di vita modernissima, una continua sinfonia in movimento che ha segnato lo spartiacque tra calcio antico e moderno. Il soprannome affibbiato a questo gruppo verrà preso da uno straordinario film di Stanley Kubrick di tre anni prima: ‘Arancia Meccanica’. Nulla di violento, però, potrà mai essere assimilabile ad una delle Nazioni più libertarie e pacifiche dell’Europa di quel tempo, ma solo un accostamento cromatico e una semplificazione dialettica per un atletismo portato all’eccesso.

Il Kaiser Franz alza la Coppa del Mondo al cielo di Monaco
Il Kaiser Franz alza la Coppa del Mondo al cielo di Monaco

Non meno democratica, nonostante la turbolenta situazione storica del periodo, era la Germania ad occidente del Muro di Berlino. Da undici anni era stato istituito il campionato Nazionale (la Bundesliga), e nelle prime sette stagioni avevano trionfato altrettante squadre diverse. Dal 1970, però, iniziava l’egemonia di Bayern Monaco e Borussia Moenchengladbach, che domineranno questo decennio e forniranno gran parte dei loro uomini alla Nazionale in maglia bianca con l’aquila imperiale sul petto. I Bavaresi hanno due giocatori simbolo tra le loro fila: uno è il capitano Franz Beckenbauer, leggendario difensore di gran classe denominato “Kaiser”, per il suo modo di intendere il calcio da leader indiscusso e aristocratico. L’altro è Paul Breitner, un fantastico terzino sinistro che si conquisterà le antipatie di compagni di squadra e allenatori per l’abitudine di girare il Paese con il Libretto Rosso di Mao Tse-Tung. Un intellettuale di sinistra prestato allo sport, dovendo sintetizzare. Emblemi del Borussia erano il capitano Berti Vogts – che a proposito di simpatie politiche avrà da discutere nella gara contro i cileni col centravanti Caszely, passato alla storia come oppositore di Pinochet -, e il bomber Jupp Heynckes, che nel 2013, ironia del destino, porterà il Bayern Monaco alla conquista del triplete (Bundesliga, Champions League e Coppa di Germania) da allenatore.

Cruijff in azione durante il mondiale tedesco
Cruijff in azione durante il mondiale tedesco

I tedeschi, con un sorteggio beffardo, vennero inseriti nel Gruppo Uno, dove figuravano, oltre a Cile e Australia, i cugini più poveri, quelli a oriente del Muro di Berlino. Lì, nella DDR-Oberliga, era la Dinamo Dresda la squadra migliore del momento, anche se nei dieci anni successivi il campionato verrà vinto solo dalla Dinamo Berlino, la società di riferimento della Stasi. Un campionato di regime dilettantistico, data l’incompatibilità della concezione di professionismo sportivo con la vigente ideologia comunista. Nonostante questo, però, saranno i teutonici della DDR a battere quelli della Germania Ovest nella terza e ininfluente gara del girone per 1-0. L’ultimo atto di questo torneo, però, non può che vedere protagoniste Germania Ovest e Olanda. L’immagine di Beckenbauer e Cruijff che si scambiano i gagliardetti a metà campo è la logica conseguenza di un finale già scritto. Il Brasile Campione del Mondo in carica è orfano di Pelé, la partecipazione dell’Italia verrà ricordata solo per la lite tra Ferruccio Valcareggi e Giorgio Chinaglia a causa di una sostituzione contro Haiti, e la Polonia si accontenterà di avere tra le sue fila il capocannoniere del Mondiale, Grzegorz Lato, con sette reti all’attivo.

La storia ci racconta come finì la corsa. Il 7 luglio 1974, all’Olympiastadion di Monaco di Baviera, sono gli olandesi a dare il calcio d’inizio, e per 54 secondi non fanno mai toccare il pallone ai tedeschi. Il loro genio Johan Cruijff decide di accelerare e andare in porta con tutto il pallone, costringendo un difensore tedesco ad atterrarlo. Il calcio di rigore, il primo assegnato nella storia delle finali di una Coppa del Mondo, viene trasformato dal biondo centrocampista Johan Neeskens. La Germania Ovest è sotto in casa propria, senza aver mai avuto il possesso palla. A questo punto i ragazzi di Michels hanno il torto di guardarsi troppo allo specchio e di non chiudere il conto. Così è Breitner a prendere per mano i compagni, procurarsi un altro rigore e rimettere le cose a posto. Il primo tempo sembra incanalato sull’1-1, ma il DNA della squadra di Schoen non contempla l’ipotesi di accontentarsi, tant’è che prima dell’intervallo Vogts e compagni riescono a trovare il 2-1 grazie a un colpo di genio di Gerd Muller. Il risultato non cambierà fino alla fine, e il trofeo calcistico più prestigioso verrà alzato al cielo da Kaiser Franz.

Nonostante questo, nei cicli vittoriosi che nel calcio scandiscono i tempi della storia, l’eccezione che conferma la regola spetta di diritto all’Arancia Meccanica olandese. L’unica a presentarsi con la bacheca vuota al cospetto dell’Italia di Piola, del Brasile di Pelé o dell’Argentina di Maradona. L’unica, altresì, a potersi permettere di sfoggiare quel fascino indiscusso che è proprio solo di chi arriva a un centimetro dal traguardo, senza mai riuscire ad oltrepassarlo. Come in un finale cinematografico onirico e romantico, in cui non si capisce dove finisca la realtà e inizi l’immaginazione.

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Calciatori Fabio Belli

Mané Garrincha, dalla gloria mondiale alla Prima Categoria col Sacrofano

(articolo tratto da Il Corriere Laziale di martedì 13 maggio 2014)

di Fabio Belli

Nei bar di Roma si parla di calcio. Sempre, o quasi sempre. E sempre o quasi sempre di Lazio e di Roma, di Roma e di Lazio. Si va nello specifico, si commenta l’attualità, si fantastica sul futuro, sul mercato: “vedrai l’anno prossimo…”. Ma si parla anche di passato, tanto. L’album dei ricordi è sempre aperto, soprattutto quando seduti ai tavolini ci sono i più anziani. E se qualcuno ponesse la domanda: “Qual’è stato il più grande calciatore che ha giocato nella Capitale?” allora quasi novant’anni di derby riprenderebbero forma in un baleno. Dalla parte giallorossa, c’è chi non scorda il “Divino” Falcao, simbolo di una stagione nella quale la Roma si arrampicò a un passo dalla gloria europea. In casa biancoceleste, i fasti dell’era-Cragnotti hanno permesso di veder sfilare delle stelle di prima grandezza: autentici assi come Mancini, figli del popolo laziale come Nesta, Pavel Nedved proiettato verso la gloria del Pallone d’Oro, Juan Sebastian Veron e tanti ancora. E poi il mito Chinaglia, fino ad arrivare a Ghiggia e Schiaffino in maglia giallorossa, e così via fino ad affondare le radici ai tempi di Silvio Piola e Fulvio Bernardini. Eppure, il più grande calciatore di tutti i tempi passato per la Capitale, potrebbe non aver vestito né la maglia della Lazio, né quella della Roma. L’onore spetta infatti al Sacrofano, la cui squadra locale, attualmente militante in Prima Categoria, rappresenta un comune di circa 7000 abitanti.

foto ©thebegbieinside.com
foto ©thebegbieinside.com

Sono in pochissimi a conoscere questa storia, venuta alla luce grazie al lavoro della redazione di thebegbieinside.com, sito di controcultura calcistica, che prende come simbolo per la propria filosofia l’indimenticabile personaggio di “Trainspotting”. E il nome in questione è quello di uno dei miti assoluti del calcio di tutti i tempi, favoloso interprete del Brasile campione del mondo nel 1958 e nel 1962. Stiamo parlando di quello che viene considerato il più grande “dribblatore” di tutti i tempi, quel Mané Garrincha che finì col morire povero ed alcolizzato, a soli quarantanove anni nel 1983.

Ma come c’è arrivato Garrincha a Sacrofano? Nonostante un carattere estroso e naif, generoso ed ingenuo fuori quanto scaltro e geniale in campo, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, Garrincha era una stella di prima grandezza. Nato con una malformazione che gli aveva causato una differenza di sei centimetri di lunghezza tra una gamba e l’altra, oltre a problemi al bacino, Mané sfruttò queste particolarità, e grazie alle cure riuscì non solo a giocare al calcio, ma a rendersi imprendibile per qualsiasi avversario, grazie proprio alla classica andatura ciondolante. E’ stato il primo rifornitore di assist per il giovane Pelé, anche se l’alleanza nella Selecao era solo una pausa nell’eterna rivalità che vedeva “O Rey” simbolo del Santos, e Mané del Botafogo.

La storia portata alla luce da thebegbieinside.com non trova però nel suo scenario iniziale un campo da calcio, ma nel pieno del personaggio Garrincha, c’è il fumoso scenario di un night club, fumo, whisky e una meravigliosa ballerina e cantante, Elza Soares. E’ il 1969, e la carriera del ragazzino che dalla favela di Pau Grande, ai bordi di periferia di Rio de Janeiro, era arrivato a toccare il tetto del pianeta per due volte (vincendo anche il Mondiale cileno del 1962 da capocannoniere), è ormai al tramonto. Già da quattro anni, “l’uccellino” (il soprannome Garrincha deriva proprio da quello di una specie di passerotto) ha lasciato il Botafogo, e vaga già tra i fantasmi degli amori finiti, dell’abuso di alcool e soprattutto di una denuncia penale per un incidente stradale, per la quale per diverso tempo sarà ricercato dalla polizia brasiliana. Elza Soares è una soubrette molto richiesta in Europa, e a Roma all’epoca la “Dolce Vita” è in piena espansione. Mané decide di seguire Elza, e prova a costruirsi un angolo di pace a Torvaianica. Lei balla nei locali della Roma bene, lui si accontenta di un modesto salario corrisposto dall’Istituto Brasiliano del Caffé in Italia, per il quale accetta di fare da testimonial. Il calcio sembra essere un ricordo lontano.

Ma anche a Roma gli amici e gli estimatori non mancano. Uno di essi, il leggendario bomber della Roma, noncé ex compagno di squadra di Garrincha al Botafogo, Dino Da Costa, ha appeso le scarpe al chiodo da un po’ e nel 1970 si trova ad allenare per diletto proprio il Sacrofano. Tra i dilettanti Da Costa è fresco di vittoria, la squadra è salita in Prima Categoria, l’ambiente è buono per divertirsi e fare calcio senza alcun tipo di pressione. L’ideale per far ritrovare all’amico Mané, col passare del tempo nella sua permanenza a Roma di nuovo persosi tra i demoni dell’alcol e l’amore burrascoso per Elza, quella “allegria del popolo” del quale lui si è sempre reso orgoglioso ambasciatore. Garrincha è nato povero, sa che probabilmente povero morirà, e che l’unica missione nella vita che gli abbia dato soddisfazione, è stata regalare allegria, attraverso il calcio, ai poveri come lui.

1E allora Da Costa riesce nell’impossibile: convincere il due volte campione del mondo a vestire la maglia del Sacrofano, e a trascinarlo alla vittoria in un torneo a Mignano Monte Lungo. Nella finalissima Garrincha segna due gol direttamente dalla bandierina del calcio d’angolo. Nonostante sia appesantito, non allenato, e sfrutti tutti i momenti liberi possibili per attaccarsi alla bottiglia, la sua classe e la sua genialità in campo lo rendono una sorta di fenomeno paranormale, in mezzo a quei volenterosi dilettanti. Quella manciata esigua di partite viene quasi persa nella memoria, tanto che questa storia viene tramandata attraverso i racconti di chi era lì, perchè negli almanacchi ovviamente non ve n’é traccia. Ormai presa la triste china che lo porterà alla morte, Garrincha non è certo il massimo dell’affidabilità, e Da Costa sa che reclutarlo per un campionato intero sarebbe impossibile, anche se farebbe forse più bene al “passerotto” che al Sacrofano, per restare in campo lontano dai suoi demoni.

“Qui riposa in pace colui che fu la Gioia del Popolo, Mané Garrincha” recita la scritta sulla lapide del campione. Quei due gol dalla bandierina col Sacrofano restano una perla inestimabile, sepolta nella nebbia della sua storia italiana. A Roma vederlo in campo è stata una rarità, molto più frequente era possibile osservarlo rincorrere Elza nei locali notturni della Capitale. Mentre lei lavorava, a volte se ne andava a Campo de’ Fiori a palleggiare o a improvvisare partitelle con i ragazzetti, con una folla che puntualmente si radunava ad osservare quello sbalorditivo giocoliere, senza sapere di avere davanti agli occhi il grande Garrincha, magari ammirato in televisione, quando ancora assistere ad una partita internazionale era un evento che faceva radunare le persone nei bar, nelle finalissime del 1958 e del 1962. E allora, tornando all’inizio, a Sacrofano hanno una carta unica da giocarsi nelle disfide da bar: Lazio e Roma hanno avuto campioni amati, vincenti, a volte anche invidiati dai più grandi club del mondo, ma non possono dire di aver visto con i loro occhi la Gioia del Popolo in azione.