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Fabio Belli Presidenti

Romeo Anconetani, il presidente vulcanico che inventò il mestiere di procuratore

di Fabio Belli

Quel corpulento signore che si era avvicinato al campo per dare un’occhiata all’allenamento della Fiorentina, non dava proprio l’impressione di sapere il fatto suo. Un po’ trasandato, un po’ troppo rumoroso e chiacchierone, con quella voce un po’ roca e un po’ stridula allo stesso tempo. Eppure, indicando quel centrocampista magrolino appena arrivato a Firenze da Asti, sparò subito una sentenza che da quelle parti si ricordarono per molto tempo: “Quel ragazzino lì, se mangiasse più bistecche, sarebbe forte come Cruyff.”

anconetaniIn realtà in molti già lo conoscono, perché quel signore che non passa certo inosservato nell’aspetto e nei modi si chiama Romeo Anconetani, e si è praticamente inventato un mestiere: quello del  procuratore. Lo chiamano “mister cinque per cento“, perché grazie ad una licenza della Camera di Commercio si è messo a fare il mediatore, e si è scelto come clienti una categoria che allora, all’alba degli anni settanta, nessuno considerava più di tanto: i calciatori. Certo, per guadagnare, quando si è pionieri del proprio mestiere (vent’anni dopo li chiameranno appunto “procuratori“), bisogna avere talento da vendere, ma Anconetani fa affari dai tempi di Selmosson dalla Lazio alla Roma, cura già gli interessi del talento granata Claudio Sala, e tanto per dimostrarne una di più, il ragazzino bisognoso di manzo e muscoli di cui sopra era un certo Giancarlo Antognoni.

Certo, grandi idee, ma il personaggio-Anconetani c’era già tutto, e non finiva nelle micidiali intuizioni da talent-scout. La FIGC l’aveva già radiato da quasi vent’anni, all’epoca, perchè da dirigente aveva cercato di organizzare una combine in una partita tra Poggibonsi e Pontassieve. Ma dalla Toscana non si era mai allontanato, e dopo anni da manager riuscì a tornare dirigente in quella che divenne la sua creatura per definizione, quella per la quale viene oggi ricordato: il Pisa.

Certo, per farsi chiamare “presidente” dovette aspettare l’amnistia del 1982, dopo la vittoria azzurra nel Mundial spagnolo. Ma a quell’epoca il Pisa l’aveva già portato in Serie A, ed era già cominciata la sua leggenda fatta di ritiri, sfuriate memorabili a giornalisti e giocatori, che riempiva di regali ma castigava al primo sgarro, esponendoli a inarrivabili “cazziatoni” anche in pubblico. Era un mago a comprare e rivendere, portando in Italia gente come Kieft, Berggreen, Simeone e Chamot. Maestro nella lungimiranza, lo era meno nel gestire il quotidiano: il suo Pisa si prese presto l’appellativo di “squadra ascensore“, le retrocessioni dalla A alla B furono numerose, ma altrettanto lo furono le salvezze epiche e le risalite dalla cadetteria. La sua vittima preferita furono però gli allenatori: ne licenziò ventidue, per dire che Zamparini e Cellino ai giorni nostri non si sono inventati nulla. Così come non si erano inventati nulla i presidenti che avevano compreso l’importanza dell’esposizione mediatica: lui stesso si ritagliò uno spazio settimanale fisso in televisione, “Parliamo con Romeo” su un’emittente chiamata 50 Canale, per fare a modo suo il punto della situazione e avere sempre l’ultima parola sulle questioni più spinose.

Dove non arrivavano gli esoneri, provava a compensare col sale, sparso copiosamente sul campo dell'”Arena Garibaldi” per evitare il costante incubo della retrocessione, e quello verificatosi più raramente della mancata promozione. Al crepuscolo della sua presidenza, il sogno di aver scovato l’ultimo talento, Lamberto Piovanelli, in procinto di giocarsi una chance come centravanti della Nazionale, si spezzò in un piovoso pomeriggio all’Olimpico di Roma: gamba fratturata tra le urla contro la Lazio, e addio Piovanelli e Serie A. Lasciato il Pisa, spese gli ultimi anni collaborando con Genoa e Milan, senza più sfuriate ma concentrandosi sulla cosa che meglio gli riusciva: individuare nuovi talenti, magari bisognosi sul momento di qualche bistecca in più, ma sulla cui classe si poteva scommettere ad occhi chiusi.

 

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Club Fabio Belli

Verona 1985: l’ultimo eroico scudetto della provincia

di Fabio BELLI

Lo scudetto del 1985 resta forse l’ultimo da un sapore antico, quando nel calcio le idee non sempre contavano più dei soldi, ma potevano farcela. Lo vinse il Verona, l’Hellas, quando ancora non c’era bisogno di specificarlo, perché il Chievo non era neanche mai stato tra i professionisti, e non giocava neanche al Bentegodi ma al Bottagisio, dove è ancora affissa la targa “campo parrocchiale“. L’Hellas era il Verona, per tutti, e vinse un campionato pazzesco, in una serie A, ancora a sedici squadre, che iniziava proprio allora a veder sbocciare quello che sarebbe stato un quindicennio di dominio mondiale del calcio italiano.

veronaIl Verona vinse il titolo nell’anno in cui in Italia arrivò Diego Armando Maradona, il più importante calciatore del mondo, che a Barcellona, complice un grave infortunio e una clamorosa rissa contro l’Athletic Bilbao, non ebbe tutta la fortuna che si aspettava. C’erano la Juventus di Platini, l’Inter di Rummenigge, la Fiorentina di Antognoni, la Roma di Falcao. Persino il Milan, dopo due anni di B, iniziava a rialzare la testa, mettendo le fondamenta per quella che sarebbe stata l’era-Berlusconi. Maradona giocò la sua prima partita di campionato in Italia proprio a Verona, con gli occhi del mondo puntati sul Bentegodi, quel 16 settembre del 1984: ma fu l’Hellas a vincere, tre a uno, giocando un calcio da favola.

Osservatori e commentatori non diedero troppo peso alla cosa: non lo fecero nemmeno quando i ragazzi di Osvaldo Bagnoli, tecnico abituato a mandare la provincia in Paradiso, mandarono al tappeto la Juventus alla quinta giornata, il 14 ottobre. A segnare un gol decisivo ci pensò un ragazzone danese, appena arrivato a Verona, che aveva un cognome tanto comune, Larsen, che per caratterizzarsi meglio nel mondo del calcio aggiunse quello della madre, e tutti lo conobbero come Elkjaer. Che segnò alla Juve con una delle sue caratteristiche galoppate, e tanta fu la foga che perse una scarpa, ma lui non fece una piega, continuò a correre e fece gol con un piede scalzo. Iniziarono a chiamarlo Cenerentolo, per la scarpa ma anche per ironizzare un po’ sul Verona, che uscì imbattuto dalle trasferte in casa di Roma e Inter, ma che tanto era destinato a crollare, ad andare al massimo in Coppa UEFA. Anche se la prima sconfitta in campionato arrivò a gennaio inoltrato, ad Avellino, il Verona fu campione d’Inverno, ma con l’Inter a un punto, ed il Torino a due, secondo gli esperti era solo questione di tempo e la sorpresa sarebbe rientrata nei ranghi.

E invece il girone di ritorno fu come il quello d’andata, perché gli scaligeri erano una macchina perfetta, sospinta dai gol di Elkjaer e Galderisi, dalle giocate di Pierino Fanna, imprendibile ala destra che sapeva far sognare solo in provincia, dalla concretezza del gigante tedesco Briegel, e dalle spettacolari parate di Garella. Il Verona uscì indenne dagli scontri diretti, non sbandò dopo l’unica sconfitta pesante della stagione, quella contro il Torino ancora lanciato all’inseguimento, ed i tifosi gialloblu, i butei, capirono che era fatta quando dopo Verona-Como 0-0, alla terzultima giornata, i giornali parlarono di festa rimandata, non di crollo imminente della cenerentola. Si erano convinti anche loro, ed il Verona festeggiò due volte: a Bergamo la matematica conquista del titolo, il 12 maggio del 1985. E davanti ai propri, impagabili tifosi la settimana dopo, battendo l’Avellino.

Lo scudetto dell’Hellas del 1985 resta unico perché è l’ultimo nato artigianalmente senza i favori del pronostico o una politica tesa esplicitamente a vincere. Il Napoli due anni dopo trionfò capitalizzando la presenza di un mito come Maradona, ma anche di una squadra costruita intorno a lui senza badare a spese. Quello della Sampdoria fu un progetto pluriennale, anzi in molti si aspettavano che la squadra costruita da Mantovani vincesse prima il titolo. Lazio e Roma, all’alba del 2000, videro concretizzarsi campagne acquisti miliardarie che nulla hanno a che vedere con quanto costruito a Verona in quegli anni: l’ultimo scudetto eroico di un calcio in cui tutto era ancora possibile.

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Calciatori Fabio Belli

Liam Brady: il “calciatore intelligente”

di Fabio BELLI

Il concetto di “calciatore intelligente” è stato sviscerato negli anni spesso in un’unica direzione: ovvero, il giocatore a volte impegnato fuori dal campo, capace di esprimere concetti fuori dal coro, genio e sregolatezza che spesso si riflettevano però sul campo con prestazioni non sempre all’altezza della situazione. Per calciatore intelligente, però, si può anche intendere un termine squisitamente tecnico. Ovvero, il classico faro capace di guidare e leggere il gioco con quell’anticipo indispensabile per prendere in controtempo gli avversari. Tra i più intelligenti di sempre, in questo senso, l’irlandese Liam Brady può ritagliarsi un posto di tutto rispetto.

Aria distinta, forse anche leggermente snob, per tutta la seconda metà degli anni ’70 Brady è stato l’orgoglio dei tifosi dell’Arsenal, proprio per quella qualità superiore, le capacità di tiro e di regia del suo vellutato piede sinistro, che spiccavano in una squadra che, fino all’avvento di Arsene Wenger, era additata come sparagnina ed operaia (il “boring Arsenal nei cori di dileggio dei tifosi avversari). Brady era l’esempio che anche i Gunners potevano avere tra le loro fila un centrocampista raffinato, di dimensione europea, anche se la sua epopea a Londra Nord si esaurì con una FA Cup vinta nel 1979 e la grande delusione della finale di Coppa delle Coppe perduta l’anno successivo contro il Valencia.

Partito capellone, Brady vide la sua fronte perdere progressivamente la chioma nel corso della carriera da calciatore. “Gioca troppo a testa alta e prende troppa aria“, ridacchiavano bonariamente sulle tribune di Highbury i tifosi, in realtà omaggiando la sua grande eleganza palla al piede. Risero meno quando, alla riapertura delle frontiere nel campionato italiano, tra gli stranieri d’importazione il nome di Brady spiccò nella rosa della Juventus che puntò su di lui per garantirsi una solida e raffinata regia a centrocampo, dopo aver perso gli ultimi due assalti allo scudetto. Dopo 235 presenze e 43 gol in sette stagioni nella massima serie inglese, Brady lasciò l’Arsenal fra le lacrime di commozione dei tifosi.

L’ambientamento a Torino fu parecchio complicato, il suo stile per la rocciosa squadra allora allenata da Giovanni Trapattoni era forse troppo compassato per gli aspri ritmi della Serie A. A rimetterlo in riga ci pensò Beppe Furino, il “quattropolmoni” dei bianconeri che non aveva la classe del sinistro di Brady ma che, correndo a centrocampo anche per lui, non aveva problemi riguardo troppi palloni persi e scarso impegno. La musica cambiò già nella seconda metà del campionato 1980/81, conquistato dalla Juventus dopo una lunga sfida a distanza con Roma e Napoli. Il duello più emozionante fu quello dell’anno successivo contro la Fiorentina di Picchio De Sisti in panchina e Giancarlo Antognoni in campo. Le due squadre arrivarono a pari punti all’ultima giornata, in vetta alla classifica: ma mente i viola pareggiarono a Cagliari, la Juventus espugnò il “Ceravolo” di Catanzaro grazie ad un rigore trasformato da Brady con una proverbiale freddezza che i tifosi bianconeri ancora ricordano.

Vinto il secondo scudetto di fila, l’avvocato Agnelli lo sacrificò sull’altare dell’arrivo a Torino di Michel Platini. Brady non fece una piega, passando a dettare i tempi del gioco, sempre a testa alta, a Genova sponda Samp. In Italia si trovò bene, l’Inter lo pagò tre miliardi e mezzo per affidargli le chiavi del centrocampo ma arrivò solo a sfiorare per due anni consecutivi la finale di Coppa UEFA. Quindi, complice qualche acciacco, un passaggio all’Ascoli, allora provinciale di lusso. Nel 1987 decise di tornare in Inghilterra per chiudere la carriera e qualche tifoso dell’Arsenal sperò in un suo ritorno ma la sua scelta cadde sul West Ham: troppo intelligente, Brady, per non capire che le minestre riscaldate difficilmente riescono saporite.

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Le Finali Mondiali Valerio Fabbri

1982: Italia-Germania Ovest 3-1. La vittoria più “italiana” di sempre

di Valerio Fabbri

Il Mondiale di Spagna 1982 è il Mondiale dell’urlo di Tardelli, del genio di Marazico, come fu soprannominato Bruno Conti per le sue magie sulla fascia, e dell’orgoglio di Bearzot, che riuscì a portare al trionfo gli azzurri creando un gruppo compatto, schermato dalla stampa e reduce dallo scandalo del calcio scommesse che aveva coinvolto tantissimi protagonisti di primo piano del calcio italiano.

Bearzot in trionfo: l'Italia è Campione del Mondo dopo 44 anni
Bearzot in trionfo: l’Italia è Campione del Mondo dopo 44 anni

Paradossalmente, l’Italia gioca peggio che nel 1978, ma porta a casa la Coppa. Qualificata solo per un gol in più rispetto al Camerun, nel gironcino per le finali la nazionale pesca Argentina e Brasile, il meglio che c’è in giro. Un finale che sembra già scritto, ma anziché firmare il proprio epitaffio, Zoff e compagni risorgono. Contro l’albiceleste Tardelli e Cabrini ci regalano la vittoria (2-1, Passarella); la partita rimane memorabile per la marcatura asfissiante di Gentile su Maradona. L’epopea azzurra è appena iniziata. A Barcellona contro il Brasile all’Italia serve una vittoria, mentre ai verdeoro, su cui si concentrano tutti i favori del pronostico, basta un pari. Pagheranno caro la loro ostinata presunzione di voler stravincere e condurre le danze anziché fare calcoli. Paolo Rossi, coinvolto nel calcio scommesse, difeso strenuamente da Bearzot nonostante prestazioni opache e due anni di inattività, come per magia si sblocca. Una sua tripletta vanifica i gol di Socrates e Falcao, Zoff sigilla l’impresa con un salvataggio sulla riga di porta al 90’. E’ delirio a Barcellona, ma anche in Italia, dove la gente si identifica sempre di più con una Nazionale vincente.

La Germania Ovest arriva in finale dopo aver superato ai rigori – è la prima volta in un Mondiale – la Francia di Platini, in vantaggio 3-1 fino ad una manciata di minuti dal termine dei supplementari. L’ingresso dell’infortunato Rummenigge sposta gli equilibri: prima accorcia con una botta da fuori, poi assiste la rovesciata di Fischer che pareggia i conti. Sulla partita pesa l’inervento criminale, è il termine adatto, del portiere tedesco Schumacher su Battiston, che rimane a terra con due denti rotti e due vertebre incrinate. Un’azione che avrebbe meritato rigore ed espulsione, e molto probabilmente indirizzato la partita verso un altro esito. Così non è stato e la Francia saluta. A Madrid ci aspettano i tedeschi.

Il Bernabeu straripa di tricolori: è tanta la gente arrivata dall’Italia per vivere una notte magica, con bandieroni dell’ultima ora. Si riscopre un’appartenenza snobbata dal dopoguerra, rimarcata nel lodevole tentativo di cantare l’inno nel prepartita, però la voce è incerta poiché tale rituale é stato trascurato per quarant’anni. L’euforia nell’ambiente azzurro è contagiosa, eppure nessuno dimentica gli articoli scritti nei giorni caldi di Vigo, e Bearzot conferma il silenzio stampa. Il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, dopo essersi autonominato primo tifoso della nazionale, siede in tribuna insieme ai reali di Spagna. Come scritto da Montanelli, da buon ultimo è lì ad esprimere al meglio il peggio dell’indole nazionale.

Rossi travolto dall'esultanza dei compagni
Rossi travolto dall’esultanza dei compagni

Bearzot sorprende tutti. Un difensore puro, il diciottenne Bergomi, per Antognoni infortunato. E soprattutto tre marcature rigide: Gentile su Littbarski, Collovati su Fischer, e appunto Bergomi su Rummenigge. Centrocampo solido e ripartenze velocissime. I tedeschi commettono lo stesso errore del Brasile. Anziché lasciarci l’iniziativa, pretendono di dettare i ritmi della partita; per gli azzurri è un (altro) invito a nozze. Il primo tempo scorre senza sussulti, se non per il rigore sbagliato da Cabrini. Nella ripresa e’ l’apoteosi. Oriali si regala la più bella partita in carriera recuperando palloni su palloni, Conti, che l’anno successivo conquisterà con la Roma il secondo, storico tricolore, si conferma Marazico, Rossi, Tardelli e Altobelli firmano i tre gol azzurri, mentre quasi nessuno si accorge della rete di Breitner. Nando Martellini, storica voce della Rai, urla tre volte “Campioni del Mondo”, quasi una promessa per il futuro.

E’ l’inizio simbolico dell’età del benessere, dei soldi e delle tangenti facili. E’ una vittoria molto italiana: non premia i più forti in assoluto, ma chi si è meglio saputo adattare alle contingenze. Dopo un decennio di sangue e odio ci sentiamo tutti fratelli, come dimostra la storica immagine della partita a scopone sull’aereo presidenziale – Causio e Bearzot da un lato, Pertini e Zoff dall’altro, con beffa finale per questi ultimi battuti 15-14, e Zoff costretto a prendersi le colpe dell’errore fatale di Pertini per amor patrio. Magnifici rappresentanti dell’Italia fino in fondo: grazie al “passaggio” presidenziale, vengono aggirate le norme sull’importazione di valuta per il premio versato in Spagna dallo sponsor della Nazionale (Le coq sportif).