Il calcio a Londra ha mille anime. Rivalità centenarie come quella tra Spurs e Gunners, vecchia e nuova aristocrazia come quella di Queens Park Rangers e Chelsea, realtà passate attraverso mille trasformazioni come il Crystal Palace. Ma ce ne sono altre più fortemente legate alla tradizione che, pur vantando una bacheca decisamente meno ricca di quella delle concorrenti, hanno accumulato un fascino destinato a non tramontare mai. Quella del West Ham è una storia legata a doppio filo agli anni d’oro del calcio inglese e al suo tempio per eccellenza: Wembley.
Il West Ham non ha mai vinto il campionato: ha davvero lottato per il titolo in una sola occasione, nella stagione 1985/86. Fu l’apice del periodo, durato quindici anni, sotto la guida di John Lyall, con Tony Cottee in attacco ed Alan Devonshire a centrocampo a fare da leader in un gruppo partito dalla Seconda Divisione, ma ricco di talento. Alla fine, la vittoria sfumò nella tiratissima volata a tre con Liverpool ed Everton. Tuttavia, qualsiasi tifoso Hammers che si rispetti, identificherebbe l’epoca d’oro del club a cavallo degli anni sessanta, quando il West Ham era guidato da autentici campioni, e soprattutto formava la spina dorsale della Nazionale inglese più forte di sempre.
Era la squadra allenata da Ron Greenwood, maestro della panchina in grado di far sbocciare i talenti del sempre floridissimo settore giovanile degli Hammers. Non per niente uno dei soprannomi più noti del club è “The Academy“, per la sua capacità di portare alla ribalta giovani assi del football. Tra il 1958 ed il 1959, tra di essi emersero tre grandi protagonisti della finale vinta dall’Inghilterra contro la Germania Ovest nella finale del Mondiale giocato in casa nel 1966. Bobby Moore, il capitano, difensore capace di coniugare grinta ed eleganza; Martin Peters, implacabile incursore di centrocampo; ed il bomber Geoff Hurst, l’autore della storica tripletta di Wembley, e soprattutto del celeberrimo gol fantasma che spezzò l’equilibrio nei supplementari contro i tedeschi, in una delle finali rimaste nella storia del calcio.
Moore, Peters ed Hurst: un trio che per tre anni consecutivi fece la storia del West Ham e dell’Inghilterra, salendo per tre volte consecutive i gradini di Wembley per una premiazione. Nel 1964, quando la FA Cup finì per la prima volta tra le mani degli Hammers grazie al gol di Ronny Boyce a 5′ dalla fine del match, tiratissimo, contro il Preston North End. Nel 1965, quando nella finale di Coppa delle Coppe giocata a Londra, la doppietta di Alan Sealey regalò il primo alloro europeo al West Ham, nel 2-0 al Monaco 1860. In entrambi i casi, fu Bobby Moore ad alzare il trofeo, ma l’anno successivo per il capitano arrivò l’emozione più grande, visto che ricevette dalle mani della Regina Elisabetta la Coppa Rimet, quando fu lui con i suoi compagni Hammers, oltre a tutta l’Inghilterra, ad issarsi sul tetto del mondo. Oltre alla tripletta di Hurst che fece impazzire Wembley e tutto il Paese, infatti, fu Martin Peters a siglare l’altra marcatura nel 4-2 finale in favore dell’Inghilterra. Anni irripetibili, quando pensare West Ham significava dire mondo.
93. Chi era il più duro a morire? Tra Costa Rica e Grecia bisognava capire solo quello: per il resto tanti punti in comune, dall’incredibile entusiasmo popolare di due Nazioni relativamente piccole, alla storica prima volta ai quarti di finale, per qualunque squadra avesse superato l’ostacolo. Ce l’hanno fatta i Ticos, che in dieci e dopo aver incassato il gol di Papastathopoulos (diventato il giocatore col cognome più lungo ad aver segnato in un Mondiale) ed essere rimasti in dieci, hanno resistito fino ai calci di rigore, proprio quando la Grecia sembrava pronta a confezionare l’ennesimo miracolo. Ed è andata bene.
94. Il calcio riesce a regalare comunque impennate d’orgoglio incredibili: dopo anni di incubi legati alla crisi economica e all’instabilità politica, la Grecia ha accarezzato il sogno del 2004. La notte della vittoria contro la Costa D’Avorio resterà comunque negli annali, così come il tifo dello stadio Panathinaikon, punto di ritrovo per i tifosi ellenici, fermati nel loro sogno da altri piccoli giganti.
Francia – Nigeria 2-0
95. I francesi sono così: la “grandeur” appartiene loro per diritto divino, ma solo quando partono a fari spenti, fatta eccezione il Mondiale giocato in casa nel 1998 in cui c’era tutto un intero apparato a sostenerli, riescono a far bene. Contro la Nigeria però la partita è cambiata radicalmente al momento dell’ingresso di un giocatore che entra di diritto nella nostra ormai lunga lista della spesa dei sogni impossibili. Stiamo parlando di Antoine Griezmann, ala guizzante classe ’91 che alla Real Sociedad in Spagna va già per le duecento presenze. In una squadra orfana a sorpresa di Ribery proprio alla vigilia della partenza per il Brasile, la sua presenza ha acceso i tifosi, letteralmente innamorati delle sue invenzioni e accelerazioni. Un giocatore così o si ama o si ama (e già in moltissimi lo conoscevano e lo ammiravano prima del Mondiale), a parte struggersi in quegli inevitabili black out che fanno parte integrante del Talento. Se riuscirà ad irretire anche i tedeschi, sarà davvero nata una (altra) stella.
Germania – Algeria 2-1 dts
96. “E alla fine vincono i tedeschi” è una delle citazioni più utilizzate nel calcio. La paternità è di Gary Lineker, che l’ha rilanciata su Twitter anche dopo Germania-Algeria. Da tipico umorista inglese, oltre che da grande attaccante, nella frase di Lineker c’è tutta la verità su una squadra che alle fasi decisive dei Mondiali arriva immancabilmente, ma anche il veleno verso chi, a dispetto delle tante semifinali e finali giocate, ha alzato la Coppa meno volte di quanto sarebbe lecito aspettarsi. L’Algeria non si è vendicata del 1982, ma i tedeschi così in crisi non si vedevano da Euro 2004. Manca brillantezza e l’impressione è che diversi uomini chiave siano arrivati in Brasile con la lingua di fuori. Occhio però, perché i tedeschi si presentano tra le prime otto senza aver speso chissà quali energie: se si tratti di una squadra senza brio, o pronta ad esplodere la sua potenza, ce lo dirà la Francia.
97. Lineker in rete ha anche ironizzato sulla punizione alla fine dei tempi regolamentari che ha visto uno degli assi di questo Mondiale, Thomas Muller, ruzzolare a terra cercando di mettere in pratica un improbabile schema. L’ex attaccante della Nazionale inglese ha ironizzato parlando di “inefficienza tedesca”: di certo un momento divertente ma inusuale per la Germania: chi l’ha interpretato come un cattivo presagio, si è però immediatamente ricreduto dopo i gol nei supplementari di Schurrle e Ozil che hanno messo in cassaforte la qualificazione ai quarti di finale
Argentina – Svizzera 1-0 dts
98.“Hey brasilenos… Tenemos el cul del campeon!”: Alejandro Fantino di Radio La Red è una delle voci più amate in Argentina per ascoltare le imprese della Nazionale. Il suo delirio alla fine della partita contro la Svizzera è stato doppio. Al gol di Di Maria ovviamente, innescato dal solito incredibile Messi, che in silenzio sta scrivendo una leggenda in questo Mondiale, che come abbiamo detto potrà essere tramandata solo se verrà scritta fino all’ultima parola. Ma Fantino al palo da pochi centimetri colpito da Dzemaili, che avrebbe regalato agli elvetici i rigori, è andato in delirio: il pensiero è andato al palo di Pinilla in Brasile-Cile, e alla dea bendata che sembra voler pilotare quella che in Sudamerica sarebbe la finale delle finali, così come in Europa lo è Italia-Germania (d’altronde, sul piatto ci sono sette titoli mondiali da una parte e sette dall’altra). Per essere campioni, ci vuole testa, ci vuole cuore, ma Fantino docet, il culo non deve mancare mai.
99. Ovviamente una partita nella partita si è giocata in Vaticano, conoscendo la passione di Papa Francesco per il calcio, e considerando la presenza delle Guardie Svizzere. Le vignette hanno provato ad ironizzare sul clima nelle stanze papali, di certo si sa che Bergoglio è stato il primo a “stuzzicare” simpaticamente le Guardie sul grande match. Potere dei Mondiali, e sul già citato palo di Dzemaili, forse a proteggere l’argentina è calata per l’ennesima volta la “Mano de Dios”.
Belgio – Stati Uniti 2-1 dts
100. Gli Americani ormai hanno tutto per primeggiare nel calcio. Tranne una cosa: la squadra. Paradossale, ironica, amara verità per Jurgen Klinsmann, che contro il Belgio ha visto i suoi dare tutto, ma soccombere inevitabilmente quando Wilmots si è deciso ad inserire Lukaku, col CT belga che per l’ennesima volta si vede salvato da chi aveva lasciato in panchina. E’ anche vero che senza Howard in porta, l’epilogo sarebbe arrivato prima. Negli Stati Uniti ormai avvolti dal rito festoso dei Mondiali come mai era avvenuto finora per il soccer, si è arrivati a proporre il portiere dell’Everton come candidato alle prossime presidenziali, erede di padri della patria come Abraham Lincoln.
101. Avendo già citato l’appoggio delle star dello spettacolo a stelle e strisce alla Nazionale, non possiamo esimerci dal mostrare il tweet di un mostro sacro come Samuel L. Jackson. Agli USA è andata male anche stavolta, ma a vedere il Cowboys Stadium in Texas strapieno di gente per il soccer, l’impressione è che le cose si stiano davvero muovendo, dopo un’attesa quasi quarantennale, anche da quelle parti.
34. Gioca in America, ha 34 anni ed è un attaccante. Tim Cahill è forse un po’ fuori tempo per finire nei nostri consigli per gli acquisti. Ma il gol più bello dei Mondiali finora è suo: gran botta al volo, traversa e pallone alle spalle di Cilessen. Non è servito all’Australia, ma questo attaccante dei New York Red Bulls già contro il Cile era stato una vera spina nel fianco, prendendole praticamente tutte di testa ed andando in gol. La sua carriera in Europa l’ha già spesa, peraltro per otto stagioni e con ottimo profitto, con l’Everton. E anche se il Mondiale dei “Socceroos” è durato appena cinque giorni tra la prima partita e la seconda, la coppia Cahill-Leckie sarà ricordata a lungo dai tifosi.
35. “L’AZ Alkmaar non rinuncerà al suo gioco offensivo che gli ha permesso di arrivare all’ultima giornata in testa alla classifica.” Parola di Louis Van Gaal, che dopo le disavventure tra Barcellona e Nazionale (primo giro), si era rimesso in gioco nel piccolo club che stava, a suo di gol e risultati pazzi, mettendo le mani dopo anni sull’Eredivisie, interrompendo lo storico dominio della triade Ajax-PSV-Feyenoord. Ovviamente, l’AZ perse quella partita subendo due gol in contropiede, e il titolo: ma il nostro è un vincente, e Van Gaal riportò il titolo ad Alkmaar, nel suo nuovo laboratorio, nel 2009, rilanciandosi a livello internazionale. Questo per dire che l’Olanda è già a otto gol segnati e tre subiti in due partite, e questa Nazionale Orange sembra altrettanto pazza e spregiudicata rispetto a quell’AZ. Nel calcio di solito vince chi subisce meno, non chi picchia di più. Nel frattempo, i motivi per simpatizzare per un’Olanda così spumeggiante, non mancano dentro e fuori il campo…
Spagna – Cile 0-2
36. “Maracanazo” è una parola spagnola, non portoghese. Nonostante si riferisca alla celeberrima disfatta del ’50, il Mondiale perso in casa dal Brasile contro l’Uruguay. Un segno del destino, la scelta di quella parola, traslata oggi alla fine di un ciclo che da tre grandi competizioni (Europeo+Mondiale+Europeo) prevedeva un solo vincitore. Lo “Spagnacanazo” si è consumato proprio al Maracanà, al cospetto di un super-Cile, ma i Campioni del Mondo sono apparsi logori, stremati da una stagione di club che aveva visto le formazioni iberiche dominare in lungo e in largo. A nulla è servito l’innesto di Diego Costa: trapianto rigettato, e il dietrofront dalla Selecao alle Furie Rosse che tanto aveva fatto infuriare la Torcida, si è ritorto contro il bomber ora al Chelsea ed ex Atletico Madrid.
37. Non si giocava un Mondiale in Sudamerica da Argentina 1978. Una vera anomalia considerando la popolarità del football a quelle latitudini, ma la rinuncia della Colombia del 1986 e l’irruzione sulla scena di Africa ed Asia ha dilatato i tempi. Ora, finalmente, si stanno vedendo tifosi provenienti da tutta l’America Latina, con un calore di cui in parte si era perduta la memoria. E se i messicani hanno tenuto testa ai brasiliani, e i colombiani hanno già dato spettacolo, la “Marea Roja” cilena si è superata nel giorno dello “Spagnacanazo”. Una valanga di entusiasmo che ha raggiunto picchi da leggenda al momento dell’inno cantato a squarciagola sulle tribune del Maracanà, ed ha debordato con il trenino degli “hinchas” cileni in sala stampa, in una invasione di campo imprevedibile per l’organizzazione brasiliana.
38. Abbiamo già citato il Polpo Paul, che nel 2010 aveva pronosticato tutto il pronosticabile in Sudafrica, e della gallina colombiana che ne emula le gesta. Ma non tutti gli animali sono così precisi: il dromedario Ahmed si sta guadagnando una sinistra fama a suon di pronostici sbagliati. La Spagna ne ha pagato le conseguenze, e su Twitter in molti hanno anticipato la previsione del dromedario come fatale per la squadra di Del Bosque. Curiosamente, per la terza volta negli ultimi quattro Mondiali la squadra Campione in carica esce di scena al primo turno. La Francia nel 2002 e l’Italia nel 2010 erano però state eliminate nella terza ed ultima partita del girone eliminatorio. Dal fischio d’inizio di Spagna-Olanda a quello di Spagna-Cile, il Mondiale delle Furie Rosse è durato due partite e meno di 98 ore: un record difficilmente battibile, soprattutto sui presupposti con cui Iniesta e compagni erano sbarcati in Brasile.
Nei corridoi delle sedi delle più prestigiose società calcistiche del mondo, ci sono le foto sui muri. Scatti dei trionfi più belli, dei momenti che hanno fatto la storia, che certe volte sembra quasi riprendano vita sulle pareti. Sembra, certe volte: perchè altre volte è proprio così, il mito fagocita tutto quello che viene dopo di lui, e non c’è terreno più impervio dove costruire le mura di un solido futuro, che quello costituito dalle rovine di un glorioso passato.
Dei quarantaquattro giorni di Brian Clough al Leeds United, nella parte iniziale della stagione 1974/75, si è scritto di tutto è di più. Dal libro al film dedicati al ‘Maledetto United‘, ai racconti di quando Billy Bremner ha messo in scena una scazzottata con Kevin Keegan, nel bel mezzo del Charity Shield a Wembley contro il Liverpool. Si dice che mai crisi di rigetto nel calcio fu così violenta di quella causata dal connubio Clough-Leeds. Di sicuro se ne conosce il motivo, con i senatori della squadra più vincente d’Inghilterra all’alba degli anni ’70, ovvero gli ‘scoto’ Bremner, Lorimer e Jordan, assieme all’irlandese Johnny Giles, che reagirono malissimo a come ‘Cloughie’ aveva tirato giù dal piedistallo Don Revie. Ovvero il padre di quella squadra, al quale i suoi figliocci giurarono fedeltà eterna fino a cannibalizzare il suo successore.
Se con un altro approccio, Clough avrebbe avuto vita più facile allo United, non è dato sapere. Di sicuro, quella squadra nella stessa stagione, dopo il cambio in panchina, raggiunse la finalissima della Coppa dei Campioni, trofeo che Clough stesso vinse due volte negli anni successivi alla guida del Nottingham Forest. Segno che né da una parte né dall’altra mancava il valore, e che i problemi erano squisitamente ambientali. Che questa storia abbia ben pocoinsegnato al mondo del calcio del futuro, lo si può evincere da alcuni recenti episodi. Come l’avventura di Rafa Benitez all’Inter: il tecnico spagnolo che ha avuto il merito di rianimare un altro mito, quello del Liverpool tornato alla vittoria in Champions League dopo ben 21 anni sotto la sua guida. Ma che si è scontrato nell’Inter con l’eredità di chi, con il leggendario “triplete“, ha fatto superare al club milanese un complesso ultraquarantennale: José Mourinho.
Anche Benitez è caduto nel peccato originale di Clough, cercando di “uccidere il padre”, freudianamente parlando, già dopo i primi giorni dal suo arrivo alla Pinetina. Via le foto, difesa avanti di venti metri, nuova filosofia di gioco e di pensiero. Per la banda composta da Eto’o, Milito, Zanetti, Cambiasso, Snejider & co. (senza dimenticare la grande influenza dell’uomo-spogliatoio Materazzi) troppo tutto insieme. La squadra stenta in campionato come mai era accaduto dopo Calciopoli, Benitez lascia paradossalmente dopo la vittoria nel Mondiale per Club, e dopo uno sfogo mai gradito da Massimo Moratti su mercato ed etica di spogliatoio. Cosa pensasse di lui il gruppo, con diverse interviste ci ha pensato molto bene lo stesso Materazzi a chiarirlo, nel corso degli anni.
E veniamo ai giorni nostri: cioè a David Moyes, che dopo anni di elogi e nessun trofeo all’Everton, passa alla guida del primoManchester United senza Alex Ferguson dopo ventisette anni. Qui però la storia è destinata a ripetersi nonostante una premessa del tutto differente: al contrario di Clough e di Benitez, Moyes aveva ricevuto la benedizione del proprio predecessore. Una mossa che sir Alex conoscendo i suoi ragazzi, considerava indispensabile per non diventare subito schiavi del passato, alla fine di un ciclo vincente che per numero di successi aveva fatto impallidire anche quello dei “Busby Babes“. Ma vallo a dire a Rooney, Giggs, e compagnia cantante: anche nel calcio, quando una “dittatura” finisce, è impossibile ristabilire subito l’ordine. Ed il Manchester United rischia di non partecipare alle Coppe Europee per la prima volta dopo anni e anni di dominio continentale. Troppo per non convincere lo stesso Ferguson a ritirare la sua benedizione, e a consigliare l’allontanamento dello stesso Moyes dopo la sconfitta in Premier League, ironia della sorte, proprio contro l’Everton. Forse è destino che i miti restino lontani da tutto quello che viene dopo di loro, per non causare l’eterno, impietosoconfronto con un passato inarrivabile.