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Calciatori Club Fabio Belli

Giuliano Fiorini ed il gol che salvò la vita alla Lazio… e non solo

di Fabio BELLI

Le storie di tutte le squadre di calcio del mondo sono costellate di gol importanti, alcuni fondamentali, pietre miliari nella vita del club. Reti che hanno regalato scudetti, trofei internazionali, derby, salvezze e promozioni, o sensazioni uniche a chi era allo stadio. Pochissimi club però possono legare una storia, al momento ultracentenaria, all’esito fortunato di una singola partita. Uno scenario questo più consono ad un film che a una competizione sportiva, ma la romanzesca e tormentata storia della Lazio, spesso e volentieri proprio ad una pellicola da Oscar ha finito con l’assomigliare.

Nell’estate del 1986 il sodalizio biancoceleste si ritrova ad affrontare l’ennesima tempesta: non è la prima e non sarà l’ultima, ma in quel particolare caso è in gioco l’esistenza stessa della società. Schiacciata dai debiti dopo la sciagurata gestione-Chinaglia e implicata in un secondo scandalo delle scommesse dopo quello del 1980, la Lazio viene retrocessa in serie C/1 il 5 di Agosto, a causa degli illeciti contestati all’allora tesserato Vinazzani. Il punto è che i nuovi proprietari Calleri e Bocchi, già alle prese con un durissimo piano di risanamento e rilancio finanziario, sono chiari: se gli organi competenti non rivedranno la loro decisione, il loro impegno verrà meno, e la Lazio cesserà di esistere.

Ne segue un lungo mese di proteste e passione per i tifosi laziali, che culmina con la sentenza della CAF che mantiene la squadra allora allenata da Eugenio Fascetti in cadetteria, ma con 9 punti di penalità da scontare. Nell’epoca dei due punti a vittoria, ha quasi il sapore di una condanna posticipata, ma la squadra parte a razzo facendo addirittura pensare ad un’incredibile promozione: illusione che svanisce presto sotto i colpi di stress e stanchezza, che portano i biancocelesti a giocarsi la permanenza in B in un’infuocata domenica di Giugno, allo stadio Olimpico contro il Vicenza, allora ancora “Lanerossi”.

Una partita per la sopravvivenza: al di là dell’onta della terza serie, la Lazio deve evitare una retrocessione che comporterebbe il definitivo dissesto finanziario, con i nuovi azionisti di maggioranza che, a causa dei minori introiti della C, non potrebbero più far fronte agli impegni presi nella stagione 1987/88. Un incubo, un thriller in piena regola anche perchè il Vicenza con un pari si garantirebbe almeno gli spareggi per non retrocedere. E per i tifosi laziali la nemesi si materializza nelle fattezze del portiere dei veneti Ennio Dal Bianco, che para l’impossibile di fronte agli attacchi di una Lazio per nove undicesimi protesa in avanti, fatta eccezione per il portiere Terraneo ed il libero Marino.

Ma come in tutti i film a lieto fine, c’è sempre un eroe a portare la vittoria e la catarsi. Un eroe anticonvenzionale, con i capelli lunghi, un fisico non asciuttissimo e dedito fuori dal campo a tre passioni non strettamente legate fra di loro: famiglia, whisky e sigarette. “Il più forte attaccante del mondo senza fuorigioco“, lo definivano i compagni di squadra con un pizzico di ironia ma anche con tanta ammirazione per la sua generosità: Giuliano Fiorini, che a meno di dieci minuti dalla fine, consente alla Lazio di superare il muro-Dal Bianco e continuare a vivere, anche se la salvezza finale dovrà passare attraverso gli spareggi contro Taranto e Campobasso, all’inizio di Luglio.

Ma come in quei film che riservano ancora una scena dopo i titoli di coda, anche questa storia ha un’appendice sorprendente e commovente: l’eroe mancato della partita per il Vicenza, Dal Bianco, il portiere arrivato oltre i propri limiti, rientra a casa da Roma con la retrocessione che ancora brucia sulla pelle. Ma c’è poco tempo per pensarci: trova il figlioletto (oggi 32enne) in preda ad un malore, la corsa all’ospedale è provvidenziale. Un soccorso che sarebbe mancato senza il gol di Fiorini, visto che il Vicenza in caso di risultato positivo sarebbe andato subito in ritiro per gli spareggi, senza far passare da casa i calciatori. “Sono emotivamente legato a Lazio-Vicenza perché a volte le grandi delusioni si trasformano in grandi gioie. Era previsto, infatti, che se avessimo pareggiato con i biancocelesti avremmo partecipato agli spareggi a Napoli, rimanendo quindi a Roma per una settimana senza tornare a Vicenza. Tornai invece a casa, mio figlio piccolo ebbe dei problemi fisici ed io, nonostante il parere di tutti, decisi di farlo ricoverare nonostante. Ciò gli salvò la vita. Una sconfitta in campo si trasformò in un evento salvifico.” E allora quel gol di Giuliano sembra una volta di più scritto nel destino.

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Calciatori Gian Luca Mignogna

Il 6 giugno 1982 Vincenzo D’Amico salvò la Lazio dal baratro

di Gian Luca MIGNOGNA

Correva l’estate 1980, quando la Lazio fu ingiustamente ed inopinatamente sbattuta in Serie B dalla CAF, nell’ambito del primo processo sportivo sul calcioscommesse. Inopinatamente, perché in primo grado la società biancazzurra era stata prosciolta dalle accuse della Procura Federale. Ingiustamente, perché a livello sportivo non fu riscontrato alcun coinvolgimento diretto del Presidente Umberto Lenzini e/o di altri dirigenti societari ed a livello penale nel successivo processo risultarono tutti assolti con formula piena.

Fu un duro colpo per la prima squadra della capitale. Retrocessa sotto la scure della giustizia sportiva, con tutto il suo bagaglio di nobiltà. A soltanto sei anni di distanza dalla conquista del titolo di Campione d’Italia e con l’aggravante della squalifica dei gioielli di famiglia, Giordano e Manfredonia, su cui tutto l’ambiente contava per rinverdire in fretta i fasti del recente passato.

L’ambiente rimase totalmente sotto shock, soltanto chi visse quei momenti sa quel che provarono i veri laziali. La società non si perse d’animo, tuttavia, il Sor Umberto passò la mano al fratello Aldo ed intorno ad Alberto Bigon fu costruita una squadra in grado di risalire subito in Serie A. Nel 1980/81 la Lazio disputò un grande campionato, ma l’immediata promozione s’infranse alla penultima giornata su un maledettissimo palo centrato da Stefano Chiodi su rigore, al suo primo errore dal dischetto, in un Lazio-Vicenza che lasciò l’Olimpico letteralmente basito. Ma al peggio, si sa, non c’è mai fine.

Nella stagione successiva la Lazio si presentò ai nastri di partenza con rinnovate ambizioni di massima serie. Sotto la guida tecnica di Ilario Castagner, confermato nonostante la delusione della stagione precedente, e capitanata da un grande Vincenzo D’Amico, rientrato alla base dopo un anno di prestito al Torino, La Lazio cominciò il suo secondo anno di purgatorio cadetto in maniera abbastanza convincente e positiva. Cali di concentrazione, prestazioni indicibili ed uno spogliatoio perennemente in contrasto, però, allontanarono ben presto i biancazzurri dai sogni di gloria.

Fu così che pur partita con propositi ambiziosi, la Lazio si ritrovò suo malgrado invischiata nelle zone basse della classifica ed a dover lottare addirittura per non retrocedere. Tutto questo senza che società, squadra e tifoseria quasi se ne accorgessero. Noblesse oblige. Tutto l’universo biancazzurro visse quei momenti senza la giusta contezza e la dovuta consapevolezza. La mente era rivolta in parte al passato, alla sconcertante retrocessione subita “a tavolino” due anni prima ed alla cocente mancata promozione della stagione precedente. In parte al futuro, perché il campionato in corso frustrò ben presto ogni ambizione di Serie A e allora tutti cominciarono già a pensare alla rivalsa da prendersi l’anno successivo. Eppure c’era una competizione in corso e la classifica si faceva sempre più preoccupante. Per destare l’ambiente serviva una forte scossa, poi arrivata con l’esonero del pur bravo Castagner e l’affidamento della prima squadra a Roberto Clagluna, che frattanto stava ottenendo ottimi risultati con le giovanili.

Alla penultima giornata la situazione però si fece incredibilmente drammatica. Allo Stadio Olimpico si presentò il Varese, in piena lotta per la promozione. Mentre la Lazio, reduce da tre sconfitte consecutive, avrebbe dovuto assolutamente far propri match e punti per lasciarsi alle spalle la zona retrocessione. Dopo neanche un quarto d’ora, tuttavia, i varesotti si ritrovarono in vantaggio per 2-0. Per i biancazzurri d’improvviso il baratro della Serie C sembrò inevitabile. Fu a quel punto che un immenso Vincenzo D’Amico prese per mano la squadra, cominciò a lottare come un leone per la “sua” Lazio e da vera bandiera la condusse prima al pareggio e poi alla vittoria finale scacciaincubi.

Era il 6 giugno 1982. Quando oramai tutti sembravano rassegnati al peggio, salì in cattedra proprio lui, Vincenzo D’Amico, il Golden Boy della Banda ’74, che segnò una tripletta fenomenale, ribaltò una partita che sembrava segnata, assicurò la matematica salvezza alla Lazio e le consentì di gettare le basi per risorgere dalle ceneri in cui l’ingrato destino l’aveva gettata.

SERIE B 1981/82

ROMA, 6 GIUGNO 1982

37° TURNO: LAZIO-VARESE 3-2

MARCATORI: 6′ Turchetta, 14′ Bongiorni, 26′ D’Amico (R), 28′ D’Amico, 73′ D’Amico (R)

LAZIO: Moscatelli, Spinozzi, Chiarenza, Pochesci, Pighin, Sanguin, Vagheggi, Badiani, D’Amico, De Nadai, Surro (62′ Bigon).

ALLENATORE: Roberto Clagluna

VARESE: Rampulla, Vincenzi, Salvadè (78′ Palano), Strappa, Limido, Cerantola, Di Giovanni, Mauti (32′ Scaglia), Mastalli, Bongiorni, Turchetta.

ALLENATORE: Eugenio Fascetti

ARBITRO: Luigi Agnolin (Bassano del Grappa)

RISULTATI: Bari-Sambenedettese 0-0, Brescia-Cremonese 2-3, Catania-Cavese 4-1, LAZIO-VARESE 3-2, Lecce-Palermo 2-1, Pescara-Verona 0-0, Pistoiese-Pisa 0-0, Reggiana-Perugia 2-1, Sampdoria-Rimini 0-0, Spal-Foggia 0-1.

CLASSIFICA: Sampdoria e Verona 47; Pisa 46; Bari e Varese 44; Perugia 41; Palermo 40; Catania 38; LAZIO 37; Lecce, Reggiana, Sambenedettese 36; Cavese, Cremonese, Pistoiese 35; Foggia e Rimini 34; Brescia 30; Spal 28; Pescara 17.

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Club Enrico D'Amelio

La notte della Dea: Atalanta-Malines, dalla Serie B ad un passo dalla gloria europea

di Enrico D’AMELIO

Tutti gli appassionati di calcio italiani sanno che gli anni ’80 sono stati l’epoca d’oro del nostro football. Ogni tifoso, se chiude gli occhi e riavvolge il nastro della memoria, può rivedere di fronte a sé le stesse, gloriose immagini di allora. Il Milan degli olandesi, l’Inter tedesca dei record, il Napoli di Maradona o la Sampdoria di Vialli e Mancini. Squadre che hanno impresso il loro nome sui libri di storia, dopo aver trionfato a turno nelle più prestigiose competizioni europee. Campioni che, si dice, nascano una volta ogni 25 anni e che chissà quando si potranno mai rivedere. Tremerebbero i polsi (e non solo), se ci si dovesse confrontare con uno di questi squadroni e se la tua coppia d’attacco, invece di chiamarsi Van Basten-Gullit, rispondesse ai nomi di Cantarutti-Garlini e se le tue avversarie per un posto in paradiso non fossero gli squadroni sopra citati, ma la Lazio di Eugenio Fascetti o il Catanzaro di Vincenzo Guerini.

Invece, una volta ogni 25 anni, pressappoco, nasce una squadra che ha in sé qualcosa di magico, a prescindere dalla categoria e dal campionato che si trovi ad affrontare. Soltanto magica è l’aggettivo che potremmo affibbiare all’Atalanta della stagione 1987/88 e non potremmo trovarne altri, dal momento che la partecipazione alla Coppa delle Coppe era stata favorita dal Napoli di Ottavio Bianchi. Proprio quello del trio d’attacco Maradona-Giordano-Carnevale (Ma.Gi.Ca.), dopo la finale di Coppa Italia di qualche mese prima. Gli orobici, dopo una stagione deludente con Nedo Sonetti in panchina, sono precipitati nella serie cadetta, ma in città c’è grande entusiasmo per l’avventura europea che sta per iniziare con un allenatore che farà presto la storia di questo club: Emiliano Mondonico. Entusiasmante, ma non semplice, la stagione ormai imminente, visto che è sì affascinante giocare in Europa, ma l’obiettivo principale, per la società con uno dei migliori settori giovanili italiani, è quello del ritorno immediato nella massima serie.

Però, si sa, l’appetito vien mangiando, e dopo le non semplici qualificazioni contro i gallesi del Merthyr Tydfil ai Sedicesimi e i greci dell’Ofi agli ottavi, Stromberg e compagni si trovano tra le prime 8 del torneo a giocarsi un doppio e affascinante confronto contro i portoghesi dello Sporting Lisbona, già affrontato nella medesima competizione 24 anni prima. Parallelamente in campionato le cose vanno bene, anche se Catanzaro, Cremonese, Lecce e Lazio sono avversarie ostiche per il quarto posto utile a tornare in Serie A; fare una scelta tra le due competizioni, però, sarebbe un rischio troppo grande e un tradimento insopportabile per una tifoseria forse unica tra le provinciali.

Così, la terribile banda dei ragazzi di Mondonico, con tanto cuore e uno stadio memorabile, schianta l’avversaria portoghese per 2-0 nella gara d’andata, per poi controllare agevolmente la qualificazione al ritorno con un tranquillo 1-1. Tutto è perfetto. In quegli anni sembra che tutta Europa soffra le squadre italiane, a prescindere dai giocatori e dalle squadre che siano protagoniste. Piotti sembra Zoff, Osti e Pasciullo rappresentano una linea difensiva invalicabile, Bonacina corre per quattro a centrocampo, Daniele Fortunato in regia non ha rivali e Stromberg è il trascinatore svedese di una squadra che inizia a credere che il sogno possa davvero realizzarsi.

Purtroppo, però, non tutto va nel verso giusto, e una partita imperfetta in semifinale contro i belgi del Malines, poi vincitori della Coppa, dopo la finale con l’Ajax, risveglierà i nerazzurri da una splendida magia. La promozione in Serie A renderà comunque memorabile una stagione che a Bergamo ricordano ancora adesso. Con nostalgia mista a rabbia. Perché sarebbe giusto che ogni appassionato di calcio, oltre al Napoli di Maradona, al Milan di Sacchi, all’Inter di Matthaus e alla Sampdoria di Vialli e Mancini, ricordasse anche la magica Atalanta di Stromberg, Cantarutti, Garlini e Mondonico arrivata a un passo dal sogno.

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Calciatori Fabio Belli

Antonio Elia Acerbis: quando il silenzio (era) d’oro

di Fabio Belli

Quanti problemi irrisolti affogano in un mare di inutili parole, direbbe chi si intende di versi e versacci. Antonio Elia Acerbis, portatore d’acqua del calcio anni ’80 dalle invidiabili doti di spinta, forse potenzialmente capace di una carriera anche superiore a quella poi effettivamente vissuta, la pensava proprio così. Impossibile da immaginare oggi, in un calcio in cui la logorrea è il principale difetto di tanti artisti dell’arte pedatoria.

Eppure Acerbis era solito presentarsi in conferenza stampa ad inizio stagione, all’arrivo in un nuovo club. Chiacchierata scolastica, in cui il nostro snocciolava dati più che altro statistici, spigolabili ad una buona osservazione dall’album Panini. Dopodiché, salutava con deferenza e se ne andava per non ripresentarsi più davanti ai microfoni. “Quello che dovevate sapere di me lo sapete, d’ora in poi non parlerò più.”

Schermata 2014-02-25 alle 00.07.08Quando nel 1986 Eugenio Fascetti lo volle a Roma nella pazza Lazio del -9, le sue parole destavano un certo scalpore. Non c’è piazza che vive di chiacchiere più di quella romana, e la Lazio anche se in B non faceva eccezione in quegli anni, anzi le turbolente vicissitudini del club in quegli anni ne facevano un bersaglio perfetto per il microscopio dei giornalisti. Acerbis decise di sottrarsi non solo a quel gioco al massacro, ma a ogni gioco in generale. La stressante piazza capitolina, gonfia di radio, tv private e riviste specializzate, oltre ai canonici canali di comunicazione, inizialmente non la prese bene, ma questo non impedì al soldatino Acerbis di diventare uno degli eroi del -9, evitando alla squadra dell’allora presidente Gianmarco Calleri la discesa in C, e come probabile conseguenza, il fallimento. In seguito, arrivarono la promozione in A e la prima vera stagione nel massimo campionato di Acerbis, bagnata dalla salvezza.

Idolo dei tifosi non tanto per la tecnica quanto per il suo temperamento, durante un derby, venne acclamato dalla Curva Nord per una sfida all’ok corral col capitano giallorosso Giannini. Il numero dieci della Roma si ritrovò a battibeccare con un altro dieci, dotato non di altrettanti piedi nobili, ma di grinta da vendere. Un faccia a faccia che contribuì alla sua popolarità, ma non gli fece tornare la voglia di chiacchierare con la stampa. Perché il nostro non parlasse, è presto detto: nelle precedenti esperienze a Varese e Bari, si ritrovò sbattuto in prima pagina con dichiarazioni mai rilasciate. Capitava, allora più di ora, ma il carattere particolare del giocatore lo vide inscenare di conseguenza un silenzio stampa solitario e ininterrotto.

Nacquero leggende e prese in giro, riviste laziali immaginavano fantasiosi racconti che lo vedevano, afono, riacquistare magicamente la voce sciogliendosi in lacrime dopo il ritorno della Lazio alla vittoria nel derby del 1989. Altri sfottevano, scrivendo di masse disperate e smarrite perché “Acerbis non voleva parlare.” Lui, ragazzo schivo, non capiva il perché di tanta confusione, finché al terzo anno di Lazio comprese probabilmente che a Roma tutto era amplificato all’ennesima potenza, e se ne fece una ragione. Dopo l’ultima esperienza in A al Verona, sempre con Fascetti, le leggende metropolitane lo volevano in esilio volontario e dorato alle Seychelles, a gestire un’autoconcessionaria.

Personaggio fuori dagli schemi, per raccontare Acerbis è poi necessaria un’appendice. Visto che alle Seychelles c’era andato solo in vacanza, con il legame con le isole giustificato dalle origini della moglie. In realtà, è rimasto nella natìa Milano a giocare tra i dilettanti fino al tramonto del secolo scorso. E venne fuori da una lunga intervista al quotidiano “Libero” che gli era tornata di botto la voglia di parlare. E giù aneddoti su Prytz, che a Verona regalava soldi come caramelle all’allegro mantra, in italiano con accento nordico, “cazzo frega a me!”. E su Fascetti, ovviamente, che dal ritiro telefonava a casa sua a Milano per controllarlo, e lui rispondeva come niente fosse, beccandosi gli insulti del focoso Eugenio. Stai a vedere che il silente portatore d’acqua aveva nascosti i geni sregolati del calcio champagne: magari lo racconterà lui stesso. Sempre se ne avrà voglia.