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Club Fabio Belli

Il West Ham degli anni ’60 e i gradini di Wembley

di Fabio Belli

Il calcio a Londra ha mille anime. Rivalità centenarie come quella tra Spurs e Gunners, vecchia e nuova aristocrazia come quella di Queens Park Rangers e Chelsea, realtà passate attraverso mille trasformazioni come il Crystal Palace. Ma ce ne sono altre più fortemente legate alla tradizione che, pur vantando una bacheca decisamente meno ricca di quella delle concorrenti, hanno accumulato un fascino destinato a non tramontare mai. Quella del West Ham è una storia legata a doppio filo agli anni d’oro del calcio inglese e al suo tempio per eccellenza: Wembley.

hammersIl West Ham non ha mai vinto il campionato: ha davvero lottato per il titolo in una sola occasione, nella stagione 1985/86. Fu l’apice del periodo, durato quindici anni, sotto la guida di John Lyall, con Tony Cottee in attacco ed Alan Devonshire a centrocampo a fare da leader in un gruppo partito dalla Seconda Divisione, ma ricco di talento. Alla fine, la vittoria sfumò nella tiratissima volata a tre con Liverpool ed Everton. Tuttavia, qualsiasi tifoso Hammers che si rispetti, identificherebbe l’epoca d’oro del club a cavallo degli anni sessanta, quando il West Ham era guidato da autentici campioni, e soprattutto formava la spina dorsale della Nazionale inglese più forte di sempre.

Era la squadra allenata da Ron Greenwood, maestro della panchina in grado di far sbocciare i talenti del sempre floridissimo settore giovanile degli Hammers. Non per niente uno dei soprannomi più noti del club è “The Academy“, per la sua capacità di portare alla ribalta giovani assi del football. Tra il 1958 ed il 1959, tra di essi emersero tre grandi protagonisti della finale vinta dall’Inghilterra contro la Germania Ovest nella finale del Mondiale giocato in casa nel 1966. Bobby Moore, il capitano, difensore capace di coniugare grinta ed eleganza; Martin Peters, implacabile incursore di centrocampo; ed il bomber Geoff Hurst, l’autore della storica tripletta di Wembley, e soprattutto del celeberrimo gol fantasma che spezzò l’equilibrio nei supplementari contro i tedeschi, in una delle finali rimaste nella storia del calcio.

Moore, Peters ed Hurst: un trio che per tre anni consecutivi fece la storia del West Ham e dell’Inghilterra, salendo per tre volte consecutive i gradini di Wembley per una premiazione. Nel 1964, quando la FA Cup finì per la prima volta tra le mani degli Hammers grazie al gol di Ronny Boyce a 5′ dalla fine del match, tiratissimo, contro il Preston North End. Nel 1965, quando nella finale di Coppa delle Coppe giocata a Londra, la doppietta di Alan Sealey regalò il primo alloro europeo al West Ham, nel 2-0 al Monaco 1860. In entrambi i casi, fu Bobby Moore ad alzare il trofeo, ma l’anno successivo per il capitano arrivò l’emozione più grande, visto che ricevette dalle mani della Regina Elisabetta la Coppa Rimet, quando fu lui con i suoi compagni Hammers, oltre a tutta l’Inghilterra, ad issarsi sul tetto del mondo. Oltre alla tripletta di Hurst che fece impazzire Wembley e tutto il Paese, infatti, fu Martin Peters a siglare l’altra marcatura nel 4-2 finale in favore dell’Inghilterra. Anni irripetibili, quando pensare West Ham significava dire mondo.

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Calciatori Luca Fatiga

L’importanza (e la difficoltà) di chiamarsi Eric Cantona

di Luca Fatiga

“Sono molto orgoglioso che i tifosi cantino ancora il mio nome allo stadio, ma ho paura che un domani loro si fermino. Ho paura perché lo amo. E ogni cosa che ami, hai paura di perderla”.

E’ difficile essere Eric Cantona, è difficile gestire un carattere “violento” ed essere leader di una delle più forti squadre in Europa. E’ bello essere Eric Cantona, amato dai tifosi inglesi e messo in discussione da quelli francesi, da una federazione troppo bigotta per capire la genialità che scorre nelle tue vene. Una carriera folle, prima di arrivare al Manchester United, al servizio di Sir Alex Ferguson, uno che si intende di follia, uno che sa come trattare certi uomini. Quando arriva a Manchester il titolo manca da ventisei anni; non un giorno, no qualche stagione, ma ben ventisei anni. Ventisei anni sono un’eternità, chi si attaccherebbe alla follia di Cantona per tornare a vincere? Nessuno, nessuno tranne Sir Alex. A Manchester torna l’aria di vittorie, torna l’arroganza di chi sa di poter guardare tutta l’Inghilterra dall’alto in basso, pur non vivendo in una delle più belle città del Regno. Ed Eric sembra aver messo la testa a postosembra soltanto, perché la sua folle genialità riaffiora proprio quando nessuno può sospettarlo.

cantonaCrystal Palace-Manchester United, in un giorno di gennaio, Eric scende in campo, come sempre, con la sua casacca numero 7 sulle spalle, con il suo colletto alzato. Scende in campo per vincere, come ogni settimana, con lo sguardo fiero, come ogni volta che indossa la maglia dei Red Devils. Non sa quel che sta per accadere, non tanto a lui, ma allo sventurato tifoso che penserà bene di insultarloTutto accadde per colpa di Richard Shaw, difensore avversario che pensò di trattenerlo per la maglia, scatenando la sua ira. Eric non resse all’idea che qualcuno potesse stropicciargli quella maglia tanto preziosa, impazzì letteralmente. E via, calci al suo avversario, ed in un attimo eccogli presentato anche il conto dal direttore di gara: cartellino rosso, l’ennesimo di una lunga carriera. Incredulo Eric si guarda intorno e abbassa il suo colletto: sa di esserci ricaduto, di aver ceduto di nuovo alla rabbia. Ma la rabbia lo sta possedendo, così, mentre esce dal campo, decide di sfogarsi. Ancora una volta la colpa non è sua, ma del suo folle vizio, e soprattutto del folle sventurato che decide di alzarsi dal proprio posto per insultarlo: Matthew Simmons quel giorno non lo dimenticherà mai. E’ lui che ebbe “l’onore” di farsi tirare un calcio in petto da “The King”. E’ lui che aiutò “The King” a scrivere la leggenda, lui entrò nella storia insieme al re. Un insulto, un calcio, e via, come se nulla fosse accaduto, si girò verso il tunnel degli spogliatoi, ma solo dopo aver guardato bene lo stadio che lo ospitava, la gente che lo insultava, solo dopo averli sfidati tutti, uno ad uno, senza alcuna paura.

Non ci fu un solo compagno che lo attaccò, lo difesero, lo accompagnarono nel tunnel, e tornarono in campo per giocare, ma solo dopo aver risposto a coloro che avevano osato oltraggiarlo, fischiarlo: un gruppo compatto era tornato in campo per difendere l’onore del suo reFu condannato prima a due settimane di carcere per quel folle calcio, forse il più importante della sua carriera, poi a 120 ore di servizio civile, ma, soprattutto, pronunciò una delle più importanti frasi mai uscite dalla bocca di un calciatore nella conferenza stampa organizzata per spiegare il perché di queli attimi di geniale follia:

“Quando i gabbiani seguono il peschereccio, è perché pensano che verranno gettate in mare delle sardine”.

Quell’anno il Blackburn scippò al Manchester il campionato: il re mancava ai suoi compagni, mancava sul campo. Mancavano i suoi goal, i suoi numeri, la sicurezza che sapeva trasmettere ai suoi compagni. Tornò nella stagione successiva, ed insieme a lui tornarono le vittorie, ed il Double. Il suo burrascoso rapporto con il calcio terminò presto, l’11 maggio 1997, e lo United non vinse il campionato solo nella stagione in cui lui scontò la squalifica. Smise perché si sentiva fuori luogo in un calcio in cui stavano cambiando gli interessi. Non fu un giorno facile per i tifosi dello United, perché in quel giorno non stava appendendo gli scarpini al chiodo un calciatore qualsiasi, ma il numero 7, una leggenda nella storia dei Red Devils: The King.