di Fabio BELLI
Nella storia del calcio inglese non mancano i personaggi estrosi, anzi essi sono forse presenti in misura maggiore rispetto a qualunque altro paese. Calciatori spesso sopra le righe, a volte afflitti da problemi anche molto gravi, sfociati nell’alcolismo, nella solitudine, nello spreco del proprio talento. Da George Best a Paul Gascoigne fino a Tony Adams gli esempi sono innumerevoli; in altri casi invece l’essere eccentrici non andava di pari passo con la rovina, ed anzi quel che resta di tanti comportamenti curiosi non è altro che un mucchio di aneddoti da ricordare con vero piacere.
Nella stagione appena trascorsa il Manchester City si è nuovamente laureato Campione d’Inghilterra al culmine di un ciclo vincente avviato dalla proprietà degli sceicchi. Ma per ogni tifoso dei “Citizens” il titolo indimenticabile e più romantico è quello del 1968, quando la squadra di Malcom Allison e Joe Mercer, resa immortale dal capolavoro letterario “Manchester United Ruined my Life” di Colin Shindler, si issò sul tetto del calcio britannico partendo da presupposti del tutto differenti rispetto alla squadra attuale. Si trattava di una formazione “fatta in casa“, partita dalla conquista del campionato di Seconda Divisione e giunta a piccoli ma decisi passi alla conquista del titolo nazionale. La micidiale coppia d’attacco composta da Francis Lee e Colin Bell, il carismatico capitano Tony Book, il rapidissimo Neil Young erano solo alcuni tra gli elementi di spicco di una formazione davvero ben costruita e che conquisterà nei due anni successivi anche la FA Cup e la Coppa delle Coppe.
Tra di loro però l’idolo incontrastato dei tifosi era senz’altro Mike Summerbee, astutissimo e tecnicamente dotato centrocampista di destra che proprio con Young aveva il compito di sostenere la temibile linea d’attacco degli sky blues. Summerbee era stato pescato da Allison appena ventitreenne dallo Swindon Town, possedendo le qualità ideali per esaltare con idee e palloni giocabili la vena realizzativa in particolare di Bell. Ma fu il carattere istrionico del ragazzo di Preston a conquistare i tifosi che allora affollavano Maine Road, prima ancora delle sue eccellenti doti che lo portarono a far parte della Nazionale inglese bronzo a Roma ’68 negli Europei vinti dagli azzurri, proprio nell’anno dello scudetto del Manchester City.
L’altra parte della città era in preda al delirio per George Best, fenomeno anche mediatico di impatto planetario e proprio in quegli anni capace di conquistare il Pallone d’Oro e di portare per la prima volta la Coppa dei Campioni in Inghilterra con il suo United. I tifosi del City allora si coccolavano Summerbee e le sue imprevedibili invenzioni. Nelle interruzioni di gioco dava il meglio di sé, mettendosi ironicamente a massaggiare la gamba infortunata di un avversario, quando riteneva simulasse, oppure inscenando siparietti memorabili con gli arbitri. Ma il massimo lo toccò quando, battendo una rimessa laterale, rubò ad un poliziotto il tipico casco da “Bobby” inglese, continuando a giocare con quell’affare in testa per qualche minuto buono tra l’ilarità generale. Ai tempi in cui anelli e catenine indosso ai giocatori erano ancora tollerati, fu un irripetibile tocco di nonsense. Le doti da mattatore a fine carriera valsero a Summerbee anche una parte in “Fuga per la vittoria” e neanche oggi, da fresco settantenne, ha dimenticato i tanti tiri mancini giocati con il suo sorriso a salvadanaio.