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Allenatori Club Fabio Belli

La leggenda di Sir Alex Ferguson iniziò da Aberdeen

di Fabio BELLI

Sir Alex Ferguson si è congedato da Old Trafford nel 2013 facendo calare il sipario su una autentica leggenda per il Manchester United e il calcio inglese e internazionale in generale. L’ultima Premier League vinta è stato il tredicesimo titolo della Premier League portato a casa dall’allenatore e manager scozzese,che ha chiuso una carriera per certi versi impareggiabile, soprattutto considerando la longevità del suo mandato sulla panchina dei Red Devils.

Soccer - UEFA Cup Winners Cup - Final - Aberdeen v Real Madrid - Nya Ullevi Stadium, Goteborg, SwedenPrima di approdare in terra mancuniana però, e parliamo ormai del lontano 1986, Ferguson si era abbondantemente fatto le ossa in patria, arrivando anche a guidare la Scozia nei Mondiali messicani. In un campionato però da sempre dominato da Rangers e Celtic, le squadre di Glasgow eternamente ai vertici del football scozzese, gli anni ’80 fecero registrare gli ultimi successi di squadre al di fuori dell’Old Firm. Il Dundee United e soprattutto l’Aberdeen, che sotto la guida di Ferguson aprì un ciclo in Scozia e in Europa, straordinariamente vincente per un club di così piccole dimensioni.

Negli ultimi anni Aberdeen ha vissuto un periodo di rinascita culturale importante: terza città della Scozia per estensione e popolazione dopo la capitale Edimburgo e Glasgow, ha una media di iscritti all’università di gran lunga superiore a quella nazionale ed è animata da diverse iniziative culturali e, rarità per le frastagliate coste scozzesi, anche da una spiaggia punto di ritrovo per molti giovani. Ma quando il manager alle prime armi Ferguson vi approda, nel 1979, lo scenario è quello un po’ ruvido e grigio della provincia della Scozia che trova nel calcio occasioni di riscatto sociale. Opportunità abbastanza rare a dire il vero visto che fino ad allora in bacheca per l’Aberdeen c’erano solo due Coppe di Scozia ed il titolo del 1955.

Ferguson da calciatore aveva giocato nell’Aberdeen e conosceva bene l’ambiente e, soprattutto, sapeva perfettamente una cosa: per battere i colossi di Glasgow bisognava giocare d’anticipo, assicurandosi i migliori giocatori scozzesi prima che le loro quotazioni salissero alle stelle. E le scelte di Ferguson dimostrano la lungimiranza che lo contraddistinguerà anche nella quasi trentennale esperienza allo United. In porta, Jim Leighton che difenderà i pali della nazionale scozzese fin oltre i quarant’anni. In difesa, il roccioso Willie Miller, un mito dell’Aberdeen, 558 presenze in vent’anni in biancorosso. A centrocampo Alex McLeish davanti alla difesa e Gordon Strachan a fare gioco. Non è un caso che, con Ferguson come mentore, i quattro diventeranno tutti allenatori. Di sicuro c’è che nel 1980 l’Aberdeen vince, sotto la guida di Fergie, il suo secondo titolo scozzese al primo colpo ma il meglio, è proprio il caso di dirlo, deve ancora venire.

Grazie a Ferguson infatti, il nome di Aberdeen inizia a girare per l’Europa. Soprattutto, tra l’82 e l’84, la squadra delle Highlands vincerà tre Coppe nazionali di fila che spalancheranno le porte della Coppa delle Coppe. Nel 1983, l’anno più esaltante della storia dell’Aberdeen, la squadra ha trovato un equilibrio perfetto e fila dritta verso la finalissima di Goteborg contro il Real Madrid di Santillana, Stielike e Camacho. Partita a pronostico chiuso, tanto che i tifosi delle merengues in buona parte snobbano la trasferta scozzese, con lo stadio Ullevi per tre quarti riempito dai colori biancorossi. L’Aberdeen scende in campo con questa formazione: Leighton, Rougvie, McLeish, Miller, McMaster, Cooper, Strachan, Simpson, Weir, McGhee, Black. Una filastrocca che ogni tifoso di Aberdeen sa ancora ripetere a memoria.

Eh sì, perché dopo sette minuti Eric Black fa esplodere la festa scozzese portando subito in vantaggio i suoi. Il Real capisce che non si tratterà di una passeggiata e, pur trovando al quarto d’ora il pari grazie ad un rigore di Juanito, soffre la grinta e la concretezza scozzese, esaltata dalle rapide trame di gioco disegnate da Ferguson. Ma l’eroe della partita non fa parte dell’undici iniziale dell’Aberdeen. Si va ai supplementari e poco prima del fischio finale Ferguson getta nella mischia John Hewitt al posto di Black. Nel secondo overtime sarà lui a realizzare una rete che è ancora incastonata nella storia del calcio scozzese. Il potente Real Madrid è battuto, l’esultanza sugli spalti è sfrenata, l’Aberdeen dal freddo e grigio Nord della Scozia è catapultato nel caldo cuore d’Europa. Una potenza continentale, confermata dalla successiva vittoria nella Supercoppa Europea, contro l’Amburgo battuto 2-0 nel match di ritorno a Pittodrie, che permetterà di raggiungere il tetto d’Europa ai biancorossi. L’impresa più incredibile di Ferguson, pronto poi a scrivere la leggenda del Manchester United.

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Calciatori Fabio Belli

7 febbraio 1970, Manchester United – Northampton 6-0: sei volte the Best

di Fabio Belli

7 febbraio 1970: un turno di FA Cup come ce ne sono stati tanti, e come tanti ce ne saranno in futuro. Il Manchester United sicuramente in quegli anni ha vissuto sfide e storie più emozionanti: dalle ceneri del disastro aereo di Monaco, Matt Busby ha saputo costruire una squadra da leggenda, la prima capace di portare la Coppa dei Campioni in Inghilterra, la seconda in assoluto in Gran Bretagna dopo il Celtic. Una partita col Northampton Town, in un Old Trafford massacrato dal fango a causa del maltempo tipico dei primi giorni di febbraio, non ha esattamente il massimo dell’appeal.

Tuttavia, c’è il pubblico delle grandi occasioni a seguire i Red Devils. Il fascino della FA Cup che in Inghilterra è sempre forte, certo, ma c’è anche un’altra motivazione a spingere i tifosi. George Best, a poco più di un anno dal riconoscimento più ambito per un calciatore a livello individuale, il Pallone d’Oro, torna in campo da titolare dopo uno stop disciplinare di sei settimane. Disciplinare, esatto, ma non dovuto al giudice sportivo: è stato il club a fermare il numero sette nordirlandese, come sanzione per le sue continue intemperanze dentro e fuori dal campo.

E’ soprattutto in allenamento che Best riesce a dare il peggio (o il meglio, dipende dai punti di vista) di sé: si presenta in pelliccia o non si presenta proprio, ha l’indolenza di un pensionato al bar, e qualcuno ha anche riferito ai manager come abbia pagato i giocatori delle giovanili per guardarlo in performance all’interno dello spogliatoio con signorine di che sportivo non avevano poi molto. Gli eccessi di Best sono leggendari, e chi conosce la sua storia sa bene come lo porteranno ad una chiusura della carriera incredibilmente precoce, soprattutto se commisurata al talento a disposizione. Ne è consapevole lo stesso “Georgie”, che tuttavia non ha preso bene la sanzione in questione. Anzi, l’ha presa malissimo, come se il Manchester United, in cui Bobby Charlton contava come un dirigente, lo volesse sfruttare come capro espiatorio in seguito al caso fisiologico dopo i tanti trofei conquistati alla fine degli anni sessanta.

Bene, Manchester United-Northampton è forse una delle pochissime testimonianze sul campo di ciò che Best avrebbe potuto fare spingendo sempre sull’acceleratore sul campo, e mai nella vita. Il “sette” si presenta tirato a lucido al cospetto di un avversario modesto, ma quanti mediocri terzini in fondo erano riusciti ad annullare il talento di Best se in giornata no, soprattutto se reduce da una sbronza o da una fuga romantica con qualche miss da copertina? Ecco, quel 7 febbraio del 1970, esattamente 45 anni fa, il Northampton ebbe un assaggio del Best atleta: nulla a che vedere neppure col Best genio, che piegò il Benfica in Coppa dei Campioni dribblando tutti ma rinunciando a sdraiarsi sulla linea di porta e spingere il pallone in rete di testa “per non far venire un infarto a Busby”, come da lui stesso narrato.

Il risultato finale dirà: Manchester United-Northampton Town 6-0. Marcatori: Best, Best, Best, Best, Best, Best. Esatto, il Best inedito è quello che segna sei reti lottando su tutti i palloni, sfruttando tutti gli spazi e rinunciando a servire le valanghe di assist che regalavano gloria ai compagni, poi pronti subito a scaricarlo di fronte alle sue debolezze. Un gol per ogni settimana di sospensione: un altro paio se li mangia per puro egoismo, per il gusto di far vedere che certe partite, volendo, avrebbe potuto giocarle anche da solo. E al sesto pallone in fondo al sacco, Best abbraccia il palo esausto, al culmine di una perfomance irripetibile per chiunque altro: a osservarlo, l’esultanza si riduce in uno sguardo pieno di malinconia che si trasforma in un ghigno beffardo. La conferma, nella sua mente, che sei gol su un campo di calcio non valevano la felicità, e che non c’era motivo di avere rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato. Sei gol in una partita non erano quello che Best cercava dalla vita, ed è stata questa consapevolezza a renderlo unico.

 

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Club Fabio Belli

Dundee, il derby dei vicini di casa

di Fabio Belli

Nella mappa infinita dei derby del mondo, quello di Dundee, nonostante una storia ultracentenaria, viene spesso snobbato. Eppure, la sfida tra il Dundee Football Club, fondato nel 1893, ed il Dundee United, costituito sedici anni dopo nel 1909, racchiude in sé una quantità di particolarità assolutamente considerevole.

Dundee è la quarta città della Scozia: dopo Glasgow, Edimburgo e Aberdeen, e nella stagione in corso è l’unico centro che può vantare un derby nella Scottish Premier League, con i Rangers ancora impegnati nella loro scalata post-fallimento, per tornare a disputare l’Old Firm contro il Celtic, e le formazioni della capitale rovinare a braccetto in First Division l’anno scorso. Ma le due squadre locali sono anche le uniche a poter vantare una particolarità assoluta a livello internazionale: gli stadi delle due squadre sorgono ai rispettivi estremi della stessa via (sono ad Avellaneda, in Argentina, Racing e Independiente sono vicini “di stadio” in questo modo).

Dens Park (per il Dundee Fc) e Tannadice Park (per il Dundee United) sono praticamente l’uno di fianco all’altro in linea d’aria. In tempi recenti è capitato che le due squadre giocassero in contemporanea (soprattutto quando il Dundee Fc era impegnato in First Division) e che le rispettive tifoserie si lanciassero qualche coro a poche centinaia di metri di distanza, soprattutto quando i rispettivi tabelloni luminosi portavano divertenti notizie sul risultato dell'”altra”.

D’altra parte va sottolineato come la rivalità tra i due club sia un po’ anomala per gli standard della Gran Bretagna, e soprattutto della Scozia, dove la divisione calcistica delle tifoserie si rispecchia anche il quella politica e religiosa (vedi l’Old Firm, ma anche la sfida tra Hearts e Hibs a Edimburgo). Quella tra i due club di Dundee nasce e finisce nel calcio, e non ci sono motivazioni di gruppo, e neanche di quartiere (essendo appunto i due stadi dislocati nello stesso identico punto della città), e dunque capita che nelle famiglie di Dundee al sabato ci si divida: padre e figlio minore a Tannadice, zio e figlio maggiore al Dens, tanto per dirne una.

Una rivalità che non ha nulla a che vedere con quella di Glasgow, dunque, e che in Italia può essere accostata a quella tra Genoa e Sampdoria. Sul piano sportivo, solitamente a Dens Park la fanno da padrone la nostalgia e l’orgoglio di essere nati quasi vent’anni prima dei rivali, oltre alla rievocazione del titolo (unico nella storia del club) del 1963, al quale fece seguito anche il raggiungimento della finale di Coppa dei Campioni. A Tannadice Park invece, oltre a vantare una presenza molto più costante in Premier League degli ultimi venti anni, possono vivere di ricordi più recenti, con l’epoca d’oro che risale agli anni 80: Jim McLean in panchina, il titolo del 1983, le vittorie nelle coppe nazionali e la finale di Coppa dei Campioni sfiorata nel celebre doppio confronto contro la Roma nel 1984. Ora resta l’orgoglio di rappresentare l’unico derby di Scozia ai massimi livelli: con passione e orgoglio per i propri colori, ma senza mai scordare le regole del buon vicinato.

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Club Fabio Belli

Hibs contro Jambos: l’eterna rivalità ad Edimburgo, da Irvine Welsh alla “Salt & Sauce Final”

di Fabio Belli

Da sempre in Scozia le squadre di Glasgow sono abituate a dominare la scena quasi incontrastate, ma negli ultimi 30 anni la situazione ha assunto contorni quasi imbarazzanti. Nella prima metà degli anni ottanta l’Aberdeen di Alex Ferguson ed il Dundee United rappresentarono le ultime alternative al cosiddetto ‘Old Firm‘, l’eterna sfida tra Rangers e Celtic, che ora, in attesa della risalita del club che fa capo ai protestanti della città, è momentaneamente sospesa.

Hibernian-HeartsOrmai da decenni la capitale Edimburgo fa da comprimaria alle grandi, ma la rivalità tra le squadre locali non è meno sentita, e soprattutto ha contorni simili a quella che si vive a Glasgow. L’anima cattolica e filo – irlandese della città si identifica nell’Hibernian, quella protestante negli Hearts of Midlothian. Noti per avere simpatie progressiste ed operaie i primi, mentre i tifosi degli Hearts, soprannominati “jambos“, sono più vicini agli ambienti ultras destrorsi. Lo scrittore Irvine Welsh, l’autore di “Trainspotting“, nei suoi libri ha sempre abbondato in riferimenti alla scena calcistica locale. Molti dei suoi personaggi, in diversi romanzi ambientati ad Edimburgo, bevono nei pub di Leith, la zona a più alto tasso di tifosi “Hibs” della città, e disprezzano i ‘jambos’, dipinti come autoritari, con tendenze nazi e comunque più inclini al successo sportivo. I Renton di “Trainspotting” ed i Terry Lawson di “Colla” vanno ad Easter Road, tempio dell’Hibernian che non per niente sorge a Leith, a poca distanza comunque da Gorgie Road dove si trova quello degli Hearts, Tynecastle. Ricordano con orgoglio quando George Best vestiva la maglia bianca e verde smeraldo, bevono fiumi di birra e consumano cartocci di fish & chips per cenare dopo le partite.

Proprio ad Edimburgo la ricetta più classica per mangiare pesce e patate fritti è quella del “Salt & Sauce”, ovvero frittura appena cotta servita al volo con una spruzzata di sale e salsa d’aceto. E quando nel 2012 Hibernian ed Hearts si trovarono di fronte per giocarsi la Coppa di Scozia, la sfida di Hampden Park a Glasgow venne proprio chiamata la “Salt & Sauce final“, in onore all’usanza di Edimburgo. Una partita sentitissima, come accaduto anche in Italia pochi mesi fa, quando fu il derby di Roma ad assegnare la Coppa nazionale alla Lazio, e la sfida fu vissuta in un clima di grande emozione tra i tifosi romani. La Coppa di Scozia a livello internazionale può essere percepita come un trofeo minore, ma in patria il suo fascino è grande, essendo considerata la competizione più antica della storia del calcio (la prima fu assegnata nel 1873). La finale tutta a tinte edimburghesi si ripresentava per la seconda volta nella storia, ma la prima, vinta per 3-1 dagli Hearts, si era persa nella notte dei tempi, disputata nel 1896. Centosedici anni dopo, si presentava un nuovo derby in finale per due squadre che non vincono il titolo da oltre cinquant’anni, e per le quali la Coppa rappresenta un’ancora di salvezza per vivere un giorno sotto il sole dopo anni e anni nell’ombra.

Cattolici contro protestanti, bandiere irlandesi contro tartan, ma stavolta non è Celtic contro Rangers, ma Hibs contro Jambos. La variazione sul tema ha avuto una grande rilevanza in Gran Bretagna, e la finale, oltre a far registrare il tutto esaurito, è stata coperta da un grande spiegamento di forze mediatico, che hanno seguito lo spostamento in massa delle due anime della Capitale. Alle ore 15 del 19 maggio 2012 il fischio di inizio ha sancito uno dei trionfi più importanti della storia degli Hearts, che con i gol di Skacel (doppietta), Barr, Grainger e McGowan, hanno travolto per 5-1 i rivali di sempre, capaci di accorciare le distanze solo a fine primo tempo con McPake. I festeggiamenti ‘jambos’ sono durati tutta la notte, fino al rientro ad Edimburgo: la finale ‘Salt & Sauce’ è stata consegnata alla storia, ma la rivalità è destinata a durate, finché il dominio di Glasgow non sarà di nuovo messo finalmente in discussione.

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Club Emiliano Storace

Praga 6, il distretto del Dukla: leggenda, lacrime e Palloni d’Oro del calcio boemo

di Emiliano Storace

Praga 6, è il più grande distretto della capitale ceca. E’ una delle zone più popolari della città ma non per questo priva di storia e di fascino. Anche i suoi abitanti sono cittadini particolari, perchè nonostante siano lontani dal centro della città, vanno fieri come nessuno di esserne stati i difensori durante la seconda guerra mondiale. Perchè proprio in quegli anni bui, nel 1944, nel nord di Praga si svolse una delle battaglie più cruente e sanguinose, dove ben 23.000 soldati sovietici e cecoslovacchi, persero la vita per scacciare i tedeschi e riconquistare il passo di Dukla. Ma se capitasse di parlare con qualche anziano signore del posto, il nome Dukla potrebbe riaccendere in lui vecchie emozioni di un passato ricco di gloria, odio e dissapori.

Un nome che sa quasi di leggenda, di mito o addirittura, al contrario, di un passato che nessuno vorrebbe più ricordare. Ma le leggende si sa, non muoiono mai. E nelle stradine del quartiere fino ad arrivare allo stadio Ja Nulisce, si respira ancora un pizzico di quella maestosità e di quelle gesta calcistiche, che trasformarono Praga 6 nella scintillante casa del calcio cecoslovacco. Perchè il Dukla Praga ha rappresentato per più di trent’anni, la forza coercitiva del potere russo in Cecoslovacchia, dove chiunque venisse da Mosca poteva fare e disfare ciò che voleva. Nel 1947 il calcio boemo e non solo, vennero letteralmente sconvolti dalla nascita di questa nuova realtà calcistica, che nessuno voleva ma che tutti dovettero accettare per forza. E se per i più giovani è forse solo una leggenda, per chi ha vissuto quei duri anni del dopoguerra a nord di Praga, il Dukla è un pezzo di storia reale che racchiude in sé disprezzo e orgoglio allo stesso tempo. In pochi mesi la squadra del governo diventò il club più importante della Cecosclovacchia.

url-1Il compito fu facilitato da varie leggi, una su tutte quella che obbligò chiunque avesse fatto il servizio militare ad entrare direttamente nelle fila del Dukla (all’inizio Armádní Telocvicný Klub – Club dell’Esercito di Ginnastica) anche se facessero parte di altre squadre. In soli quattro anni arrivarono nel distretto 6 di Praga i migliori calciatori del paese che portarono inevitabilmente alla conquista del primo storico campionato cecoslovacco (1953). Il Dukla venne inserito di forza nella massima serie calcistica del paese ma non riuscì mai nell’impresa di entrare nei cuori della gente, che nonostante i successi vedevano in lei la dittatura del potere sovietico. Nulla cambiò neanche quando nel 1953, arrivò a vestire la maglia giallorossa del Dukla Josef Masopust, il più grande calciatore ceco di tutti i tempi. Dal ’53 al ’67, il genio di Most portò il Dukla a vincere ben 8 campionati e 3 coppe cecoslovacche, diventando eroe e orgoglio di una nazione, quando nel 1962 in Cile, guidò la nazionale in finale di Coppa del Mondo, dove solo il Brasile di Pelè riuscì ad interrompere un sogno.

Ma una stella lascia sempre il segno, perchè quando giochi al calcio in maniera sopraffina, anche un mito come Pelè può venire a ringraziarti a fine gara per aver giocato contro di lui. Il Pallone d’Oro vinto nel ’62 superando Eusebio, lo consacrò agli occhi del mondo. Anche il Dukla inevitabilmente, raccolse gran parte della notorietà del suo campione. Il club volò addirittura oltreoceano per partecipare all’International Soccer League negli Stati Uniti, mentre in Europa iniziò ad entrare lentamente nell’elite del grande calcio. Ma tradizione calcistica e blasone, non si comprano al supermercato. Così, come successe alla nazionale cecoslovacca nei campionati del mondo del ’34 e del ’62, anche il Dukla a livello internazionale arrivò sempre ad un passo dalla vittoria finale senz mai conquistarla.

Ma nonostante l’odio della gente per quel nome, gran parte del paese si emozionò e spinse il Dukla verso la semifinale di Coppa dei Campioni del 1967, dove solo il grande Celtic di Stein riuscì ad eliminare Masopust e compagni. Uguale sorte toccò nella Coppa Uefa del 1979 e soprattutto nel 1986 in Coppa delle Coppe, dove nuovamente in semifinale la cavalcata del Dukla si fermò al cospetto della meravigliosa Dinamo Kiev di Lobanov’sky. Fu l’ultimo lampo di gloria, perchè la parabola del grande Dukla, volgeva al termine insieme a quella del comunismo. Senza l’appoggio di Mosca, la squadra nel 1993 venne retrocessa nella quarta serie calcistica della neonata Repubblica Ceca. Ufficialmente fu per motivi economici, anche se in realtà era un intero popolo che ne chiedeva la scomparsa. Praga 6 ritornò nell’anonimato, cercando di scrollarsi di dosso, quasi fosse un purgatorio, quell’immagine di un passato da dimenticare. Solo nel 2011 la squadra ritornò nella massima serie, grazie alla volontà di un imprenditore locale che sette anni prima ne volle riaccendere il mito. Ma il Dukla adesso è rispettato e ammirato per quello che è, non più per quello che rappresenta. Allo stadio Ja Nulisce, sotto le note di “All i want for christmas is a Dukla Praga away kit” degli Half man half biscuitci sono in media 18.000 spettatori, a volte anche 25.000. Negli anni sessanta erano appena 9.000, per lo più costretti e mai innamorati davvero. C’è qualcosa di speciale però in questa squadra, che anche se ha rappresentato una meteora o una stella cadente, è riuscita ad illuminare di leggenda questa città e questa nazione come nessun altra.

E’ una strana magia, che nel 1991 con il club vicino al fallimento, portò a vestire la maglia del Dukla un ragazzone biondo e indemoniato che si chiama Pavel Nedved, secondo Pallone D’oro nella storia della Cecoslovacchia dopo Masopust. Sarà forse per questo che ogni domenica tanti bambini prima di entrare allo stadio, passano a salutare la statua di Masopust che fa bella mostra sotto la tribuna dello Ja Nulisce. Un sorriso, a volte un abbraccio, quasi a voler respirare un pò del mito di quegli anni. E lui sempre li, sguardo fiero e testa alta, con indosso una maglia che racchiude in se una lunga storia di calcio, politica, guerra e palloni d’oro.

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Club Fabio Belli

Arrivederci Gers, nati per vincere, destinati a soffrire

di Fabio Belli

Con l’esclusione da parte della Lega Calcio Scozzese è stata scritta, almeno momentaneamente, la parola fine sulla storia dei Rangers di Glasgow. Quasi cento milioni di sterline di debiti hanno soffocato fino ad affossare quello che, numeri alla mano, è il sodalizio calcistico più titolato al mondo, con oltre 115 successi conquistati in 139 anni di storia (anno di fondazione 1872). I Gers rappresentano da sempre l’anima protestante di Glasgow, contrapposti ai cattolici Celtic, con i quali hanno dato vita per oltre un secolo all’Old Firm, la più classica delle sfide del calcio scozzese, nonché uno dei derby più caldi del mondo. Il danno economico per il forfait dei Rangers è infatti enorme, anche se i tifosi biancoverdi, cuore per metà scozzese e metà irlandese, non possono non ridere sotto i baffi delle sventure altrui. Di sicuro stiamo parlando dei due giganti che hanno monopolizzato il football delle highlands, in maniera addirittura totale a partire dalla seconda metà degli anni ’80, quando l’Aberdeen di sir Alex Ferguson ed il Dundee United furono le ultime squadre ad opporsi al monopolio glasvegiano.

La leggenda dei Rangers affonda le radici a ben prima dell’alba del novecento: il primo titolo conquistato è il campionato scozzese del 1891, quindi nacquero le prime squadre imbattibili, allenate da William Wilton che conquistò sette campionati dal 1900 fino alla fine del termine della Prima Guerra Mondiale. Wilton morì tragicamente in un incidente in barca, ma la sua eredità fu raccolta dal suo braccio destro, Bill Struth, che guidò la squadra ininterrottamente per 34 anni, dal 1920 al 1954, portando in bacheca 18 titoli di campione scozzese, 10 Coppe di Scozia e anche 2 Coppe di Lega. Numeri già impressionanti, ma fu negli anni ’60 e ’70 che i Gers raggiunsero la consacrazione europea. I “teddy bears” furono semifinalisti di Coppa dei Campioni nel 1960 e finalisti di Coppa delle Coppe nel ’61 (prima squadra britannica a raggiungere l’atto conclusivo di una competizione continentale) e nel ’67, perdendo rispettivamente contro Fiorentina e Bayern Monaco. Trofeo questo che i Rangers conquistarono nel 1972, al Camp Nou di Barcellona, in una finale al cardiopalma contro la Dinamo Mosca, resa tristemente nota dalle intemperanze dei tifosi scozzesi, primo assaggio a livello europeo di ciò che gli hooligans erano capaci di fare.

D’altronde Ibrox, la casa del club, oltre a mille trionfi e a centinaia di epici derby contro il Celtic, cova nella sua memoria ben due tragedie. Quello che appunto viene chiamato il primo disastro di Ibrox, datato 1902, con il crollo della Western Tribune Stand che provocò 25 morti ed oltre 300 feriti. Quindi il secondo disastro di Ibrox, nel 1971: in un derby contro il Celtic, Colin Stein pareggiò in pieno recupero il vantaggio avversario siglato al 89′: il pubblico, che stava abbandonando deluso lo stadio, si riammassò di corsa sulle tribune per festeggiare, e la calca provocò 66 morti ed oltre 200 feriti.

Pagine nere che non spenserò però negli anni l’orgoglio per le travolgenti conquiste dei Gers: la finale di Coppa UEFA 2007, perduta contro lo Zenit San Pietroburgo, chiuse di fatto le ambizioni di “grandeur” europea del club. Da lì iniziò il declino tecnico ed economico del club, che ne ha portato alla recente scomparsa nonostante 54 titoli scozzesi, 33 Coppe di Scozia, 27 Coppe di Lega ed una Coppa delle Coppe in bacheca. Se si ricomincerà, sarà probabilmente dalla Third Division, per riannodare il filo con una storia ricca di successi e sofferenze senza eguali.