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Club Fabio Belli

I New York Cosmos: ascesa e caduta per un… videogioco

di Fabio BELLI

Once in a lifetime” è uno splendido libro, purtroppo disponibile solo in inglese, che racconta nel migliore dei modi l’ascesa e la caduta di un esperimento unico al mondo: il tentativo da parte degli Stati Uniti di dominare la scena del calcio mondiale attraverso un club che ha vissuto a mille all’ora nella sua breve storia: i New York Cosmos. “Once in a lifetime” è anche il motto e lo stile di vita di una società che ha fatto giocare insieme Pelè, Beckenbauer e Chinaglia e chi era lì è pronto a giurare che fra i tre il leader della squadra fosse il terzo.

American Soccer - NASL - SoccerBowl '77 - New York Cosmos v Seattle SoundersPer carità, nulla da ridire su Long John, che era un signor centravanti, più giovane degli illustrissimi colleghi al momento dello sbarco negli USA e sicuramente dotato di una personalità straripante. Il particolare è però illuminante sulle dinamiche che portarono pian piano a sgretolarsi un club che all’epoca poteva contare su milioni e milioni di dollari per diventare grande. I Cosmos avevano arruolato delle star per divertire il pubblico, ma il calcio lo fanno i calciatori e l’essenza tutta particolare di uno sport come il “soccer” non poteva andare d’accordo con le esigenze dello show business a Stelle e Strisce.

Il colosso finanziario dietro i New York Cosmos era la Warner Communications: Steve Ross prese in carico in prima persona il compito di rendere i Cosmos la più prestigiosa squadra del mondo. Tra gli anni ’70 e ’80 i newyorkers vinsero cinque titoli della North American Soccer League (NASL) e, quando nel 1977 conquistarono il titolo contro i Seattle Sounders schierando contemporaneamente in campo Pelè, Carlos Alberto, Chinaglia e Beckenbauer, erano all’apice della fama. Ma l’alba degli anni ’80 fece suonare la sveglia, dimostrando come fossero i soldi a mandare avanti il pallone e non il pallone a produrre i soldi come Ross aveva promesso ai “capoccioni” della Warner all’inizio dell’avventura.

In pochi sanno infatti che la dorata bolla di sapone dei Cosmos scoppiò a causa di un… videogioco. La Warner Communications infatti deteneva tra le sue aziende anche l’Atari, con il mercato dei videogames che dal 1980 in poi era considerato una frontiera del futuro. Ma nel 1983 una prima grande crisi investì il mercato videoludico. Allora produrre un videogioco costava quasi come un film e la Warner prese una “legnata” memorabile con la conversione del film “Tron” in videogame. Le perdite economiche furono ingenti e, di conseguenza, vennero dismessi gli asset non strategici del gruppo come la stessa Atari e la Global Soccer, ovvero la società che controllava i Cosmos. I quali, senza l’appoggio della Warner, nel giro di tre anni chiusero i battenti e la NASL con loro.

Fra i tentativi di lanciare il calcio negli Stati Uniti il più riuscito è probabilmente l’ultimo: la MLS è ormai una lega organizzata a dovere, rispetta i tempi e le modalità alle quali lo sport americano è abituato ed è il giusto mix tra vecchie glorie, talenti emergenti ed idoli del posto in grado di appassionare il pubblico senza scadere a livello tecnico. Ma il fascino della NASL sarà forse irripetibile, visto che, oltre all’impatto di vedere tanti calciatori leggendari giocare tutti assieme, è stato l’unico vero tentativo di traslare il sogno americano nel mondo del calcio, con tutte le sue contraddizioni e il suo sfarzo accecante. Ed anche se i Cosmos ora sono rinati e forse presto parteciperanno alla MLS, si sa già in partenza che probabilmente non sarà mai la stessa cosa rispetto alla squadra di Pelè e Chinaglia, perché certe cose riescono solo “once in a lifetime“.

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

1970: Brasile-Italia 4-1. Il giallo di quei sei minuti finali

di Fabio Belli

Una finale non necessariamente è la partita simbolo di un’edizione dei Mondiali. Ci sono match che prima dell’atto conclusivo diventano diventano comunque icone per una generazione. Pensi a Messico ’70, ad esempio, ed è sin troppo facile dire Italia-Germania Ovest 4-3. Quei supplementari, con i calciatori completamente impallati dalla stanchezza e dalla mancanza d’ossigeno dovuta all’altura, fecero scoprire un modo emozionante e diverso di vivere il calcio, e soprattutto di ritrovarsi intorno al tricolore, ad una Nazione che dopo la guerra si vergognava di certi sbotti di patriottismo. Ed il calcio non aiutava di certo ad invertire la tendenza, visto che dopo il tragico schianto del Grande Torino, la Nazionale azzurra rimediò quattro eliminazioni al primo turno e una mancata partecipazione in venti anni di Mondiali.

C’è persino una targa all’Azteca, a ricordare ad imperitura memoria che quella partita si giocò proprio , e che dopo un 1-1 non memorabile, Poletti deviò su Muller, Burgnich segnò (ed era già un avvenimento), Riva tornò Riva, Rivera fece segnare di nuovo i tedeschi perché si addormentò sulla linea di porta, e un minuto dopo a sua volta realizzò il gol che, con quello di Tardelli nel 1982 e quello di Grosso nel 2006, è sicuramente nella top 3 dei tifosi azzurri di tutti i tempi. Ma all’Azteca si giocò anche una delle finali tecnicamente e tatticamente più importanti della storia del calcio. Solo che il punteggio (eccessivamente sbilanciato) la fece erroneamente interpretare come una passerella dei più forti ai danni di chi aveva già dato tutto, in quella semifinale leggendaria.

Pelé in trionfo: nel 1970 la "Rimet" diventa proprietà del Brasile
Pelé in trionfo: nel 1970 la “Rimet” diventa proprietà del Brasile

Ma Brasile-Italia 4-1 fu il confronto tra due scuole di football che da un secolo ormai si fanno molto male quando si scontrano. L’Italia su sei finali Mondiali disputate, ne ha perse due, entrambe contro la Selecao; che a sua volta, nel 1938 e nel 1982, si è vista “bruciare” dagli azzurri quelle che sono considerate le due squadre più belle dell’epoca antica prima e moderna poi del calcio. Quella di Leonidas, lasciato inspiegabilmente a riposo dopo un 6-5 contro la Polonia negli ottavi e gli sforzi nei quarti, e quella di Socrates, Zico, Falcao, Junior, Cerezo… troppo, tutto insieme. Quella finale invece è stata perfetta solo per 45’: ci furono uno dei più bei gesti atletici della storia del calcio, il colpo di testa in sospensione di Pelé, che arrivò a far dire a Burgnich di trovarsi di fronte a un semidio (“pensavo fosse fatto di carne e ossa come tutti noi, ma non è così” fu la frase). E la conferma che l’Italia non era in finale per caso: una squadra perfettamente orchestrata, nella quale Rosato era diventato l’uomo della provvidenza in difesa, e nella quale si intendevano Riva e Boninsegna, che erano un po’ come cane e gatto, ma che in azzurro avevano trovato una complicità tale che, quando proprio “Bobo” pareggiò, tutti cominciarono a pensare che il miracolo fosse possibile.

Mazzola e Rivera, protagonisti della "staffetta" messicana
Mazzola e Rivera, protagonisti della “staffetta” messicana

Come detto però, l’Italia di Valcareggi, che a 30 anni esatti dal trionfo di Colombes era tornata ad assaggiare la gloria internazionale negli Europei vinti in casa nel 1968, era una macchina legata a meccanismi precisi. E se Rosato aveva preso bene il posto di Niccolai, infortunatosi nella prima partita contro la Svezia, e Boninsegna aveva sopperito all’assenza improvvisa di Anastasi (una storia nella storia: l’eroe di Euro ’68 dovette saltare la trasferta messicana per uno scherzo del massaggiatore Tresoldi, che lo colpì al basso ventre costringendolo ad un’operazione a un testicolo), la “staffetta” tra Mazzola e Rivera divenne a sua volta un ingrediente imprescindibile. Il problema era che Valcareggi era riuscita a interpretarla bene solo nei quarti di finale. Rivera era stato protagonista di una polemica infuocata con il capo-delegazione azzurro Mandelli, e aveva in pratica saltato in castigo tutta la prima fase. Quando l’Italia si ritrovò a giocare i quarti contro gli indiavolati padroni di casa messicani, il CT buttò dentro dopo l’intervallo il milanista in luogo di Mazzola, più centrocampista ma meno dedito alla manovra d’attacco. Fu un trionfo, tanto che si sbloccò pure Riva, che a quella squadra serviva come il pane come terminale offensivo, con una doppietta.

Contro la Germania Ovest, la Nazione era anestetizzata dal trionfo, e non capì che la “staffetta” fu un mezzo disastro. Dopo un primo tempo nel quale l’Italia trovò gol, contenimento e ripartenza, l’ingresso di Rivera alleggerì troppo il centrocampo, e la ripresa si risolse in un assedio teutonico culminato nel pari in extremis di Schnellinger. Poi lo spettacolo dei supplementari, ed il gol vittoria proprio di Rivera, zittirono ogni possibile critica. Ma Valcareggi si era accorto della metamorfosi della squadra, e proprio quando l’Italia intera pregustava il faccia a faccia Rivera-Pelé, nel secondo tempo della finalissima si ripresentò in campo con Mazzola. Il CT era soddisfatto della tenuta della squadra contro un avversario che in sostanza schierava cinque funamboli (Pelé, Jairzinho, Tostão, Rivelino e Gerson) sostenuti da un mediano che da qualunque altra parte avrebbe fatto il trequartista per qualità e vocazioni offensive, Clodoaldo.

A giochi fatti, viene facile da dire che fu una valutazione sbagliata. La fantasia di Rivera poteva rivelarsi utile negli spazi e nelle ripartenze, per innescare soprattutto Riva. Invece col passare dei minuti i supplementari coi tedeschi pesarono come macigni sulle gambe azzurre, e quando Gerson riportò avanti il Brasile, semplicemente si ruppero gli argini. Rivera, muto come un pesce in panchina, osservò i compagni di squadra soccombere, e dopo il 3-1 di Jairzinho non vide Valcareggi rivolgergli alcun gesto. Quando ormai pensava che la scelta era fatta, e che non avrebbe partecipato al match, a sei minuti dalla fine gli fu ordinato di entrare.

Resta uno dei grandi misteri della storia della Nazionale, mai chiarito da Valcareggi: cosa potesse fare Rivera in soli sei minuti è ignoto a tutti a oltre 40 anni di distanza, tanto che appena entrato, l’Italia subì da Carlos Alberto il 4-1, in un’azione splendida, una vera sinfonia con apertura di gioco di Pelé da restare a bocca aperta. E mentre “O’Rey” diventava il padrone della Coppa Rimet (assegnata definitivamente al Brasile, come prima squadra capace di vincerla per tre volte) e del calcio mondiale, tutti si chiesero se quei sei minuti finali avessero il sapore dell’umiliazione per Rivera, o se Valcareggi si fosse colpevolmente accorto di essersi “dimenticato” del suo asso nella manica sul 3-1, e avesse voluto comunque concedergli l’ebrezza di scendere in campo in una finale mondiale. Che fu un errore, in ogni caso, se ne accorse tutta la delegazione azzurra, salutata al ritorno in patria da un fitto lancio di ortaggi, quando il trionfo sui tedeschi lasciava pensare ad un’accoglienza da eroi, comunque fosse andata la finale. Tanto volubili sono però gli animi dei tifosi italiani, se ne accorsero i ragazzi del ’70 e se ne accorgeranno, dodici anni dopo, quelli dell’82, pur anche, per loro fortuna, in maniera del tutto inversa.

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Calciatori Fabio Belli

Djalma Santos: il primo vero terzino moderno, celebrato da Eduardo Galeano

di Fabio Belli

Terzino o esterno di difesa: poco cambia nella definizione, forse, molto è mutato nell’interpretazione del ruolo, da come era nato, fino a come si è evoluto. Il terzino fino all’inizio degli anni settanta aveva compiti che spesso sfociavano nella vera e propria marcatura a uomo, e così mentre lo stopper si francobollava al centravanti avversario, dall’altra parte chi presidiava le fasce in difesa, stava attento a qui giocatori, solitamente con il sette e con l’undici sulle spalle, che avevano il compito di svariare su tutto il fronte offensivo.

djalmaQuando il Brasile vinse i Mondiali del 1958, in molti rimasero estasiati dal gioco, ma soprattutto dalla ventata di modernità che, nei rispettivi ruoli, gli interpreti più dotati di quella meravigliosa squadra sapevano proporre. E così Manè Garrincha diventò l’uomo dalla finta immutabile alla quale nessun difensore avversario sapeva resistere, Vavà un terminale offensivo implacabile, e Pelè nella finalissima contro la Svezia si consacrò per sempre come la Perla Nera. Ma sulla fascia destra c’era un giocatore, dal fisico compatto e dalla tecnica sopraffina, che divenne il vero prototipo del difensore esterno moderno, capace di controllare la fascia, ma al tempo stesso di sganciarsi in avanti facendo leva sulle sopra citate qualità tecniche, senz’altro fuori dal comune.

Eduardo Galeano, scrittore sudamericano che ha fatto un’arte del racconto letterario del futbòl, lo aveva ribatezzato “La Muralha“, ed in effetti Djalma Santos era freddo ed implacabile come un muro, qualunque avversario avesse di fronte, ma anche capace di esibirsi in dribbling mozzafiato nell’uno contro uno, trovando poi nella corsia opposta un suo perfetto doppione in Nilton Santos. Con loro, il Brasile poteva dire di possedere la coppia di esterni difensivi più forti del mondo, capaci però di trasformarsi all’occorrenza anche in ali aggiunte, il che spiegava la dirompente potenza offensiva della squadra allora allenata da Feola.

Djalma Santos arrivò a disputare quel Mondiale a ventinove anni, nel pieno della maturità calcistica. Era un periodo in cui il futbòl bailado era diventato anche concreto, e le leggendarie beffe degli anni passati, su tutte quelle del 1938 e del 1950, quando Italia ed Uruguay mortificarono le ambizioni di un Brasile lanciato verso il successo, vennero finalmente gettate alle spalle. I club brasiliani dominavano la scena: il Santos di Pelè era destinato ad entrare nella leggenda, così come il Botafogo di Garrincha e del superbo regista Didì. Ma chi portava a casa i titoli in patria era il Palmeiras, che dopo il Mondiale del 1958 strappò Djalma Santos alla Portoguesa, conquistando titoli in serie. Nel 1962, la generazione di fenomeni vinse in maniera ancora più convincente il suo secondo Mondiale, nonostante l’infortunio di Pelè, sostituito dalla rivelazione Amarildo. Ma la Muralha era sempre : scomparso di recente, resta l’esempio principale per tutte le generazioni di terzini moderni, ben prima dei Carlos Alberto e dei Cafu che ne hanno portato avanti la tradizione.