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Club Fabio Belli

Football Mystery 2×05: Union Berlino, nella vecchia Foresteria

di Fabio BELLI

In Germania le particolari condizioni sociopolitiche, dovute prima alla divisione e poi alla riunificazione tra Ovest ed Est, hanno portato alla nascita di società definite “Kult”, ovvero di culto, rappresentanti della controcultura. Ad Amburgo c’è il St. Pauli, i pirati col Jolly Rogers come simbolo che stazionano nel quartiere a luci rosse della città. A Berlino c’è la squadra che rappresenta l’Est, storicamente più povero ma calcisticamente fiero e, da quest’anno, per la prima volta in Bundesliga. Scopriamo dunque l’Union Berlino: nella vecchia Foresteria.

Il nucleo dell’Union nasce nel quartiere di Koepenick. I tifosi dell’Hertha, la squadra di Berlino Ovest con la quale si vivrà per la prima volta nel massimo campionato tedesco il derby della Capitale, dicono che da quelle parti è semplicemente l’inizio della Polonia. Ma Union ed Hertha sono diventate rivali solo di recente, visto che i nemici acerrimi del club di Köpenick erano quelli della Dinamo. I tempi sono quelli dell’Oberliga, anni Settanta e Ottanta. Le squadre della Germania Est vincono in Europa, ma se Carl Zeiss Jena e Magdeburgo giocano finali e alzano trofei, in patria la Dinamo Berlino sfrutta la protezione della Stasi, i potentissimi servizi segreti dell’Est, per vincere dieci scudetti di fila. I derby con la Dinamo sono partite in cui spesso le squadre si passano da 3 a 6 gol, ma la curva dell’Union è l’unica dove si possono gridare cose contro il regime che, fuori dallo stadio, costerebbero carissime. In tedesco il gioco di parole preferito è “Entfernen Sie die mauer”. Che significa sia “togliete la barriera”, sia “buttate giù il Muro”.

I cugini della Dinamo vantano sicuramente una spinta di Stato, ma l’Union, pur essendo costantemente presente nella DDR Oberliga, vince poco con una Coppa della Germania Est e una finale persa nel 1968. 52 anni fa. Si era spostato nella zona Est di Berlino negli anni ’20, nel quartiere di Köpenick. In quel periodo si è guadagnato anche il soprannome di ‘Eisern Union , l’unione di ferro. Quelli dell’Union erano chiamati ‘Schlosserjungs, i ‘ragazzi metalmeccanici’, per il completo blu da operai con cui giocava la squadra, che ricordava i lavoratori dell’acciaio.

Paradossalmente, dopo la riunificazione l’Union perde la massima serie, ma si toglie soddisfazioni importanti. Anche in terza divisione, vincendo un derby contro la Dinamo, a sua volta caduta in disgrazia, per 8-0 (all’interno dello stadio c’è un tabellone permanente che ricorda quel risultato) e giocando la Coppa UEFA, per due turni, nel 2001 dopo la finale di Coppa di Germania raggiunta e persa contro lo Schalke.

Ma se i tifosi dell’Hertha dicono che per andare a giocare contro l’Union bisogna andare in Polonia, è perché lo stadio degli “Eiserner” è uno dei più caratteristici d’Europa. Già a partire dal nome: l’An der Alten Forsterei Stadion, traducibile in “La vecchia casa del Guardiaboschi”. Sorge in mezzo alla foresta che costeggia Berlino e è un impianto che è stato salvato più volte dai tifosi. Per mantenere in vita l’An der Alten Forsterei è stata effettuata una ristrutturazione tra il 2008 e il 2013, condotta e finanziata da 2mila tifosi con 140mila ore di lavoro gratuito e circa 3 milioni di euro di finanziamenti a propria disposizione, tutti arrivati dal basso e non dal comune, come Berlino aveva promesso. Oggi, fuori dallo stadio, c’è un monumento in memoria di quell’impresa: un caschetto da lavoro rosso, con incisi tutti i nomi degli operai che hanno contribuito, senza percepire un euro, alla ricostruzione.

L’An der Alten Forsterei è stato teatro di notevoli momenti di calcio romantico. Il Mondiale del 2014 vinto dalla Germania vide migliaia di berlinesi riunirsi a Köpenick dove all’interno dell’impianto era stato predisposto un maxischermo e soprattutto 800 divani in campo, per seguire le partite della Nationalmannschaft come in un salotto tra amici. Ma la tradizione più radicata è la veglia natalizia: la Foresteria di Köpenick si riempie di tifosi e spesso anche giocatori che attendono la mezzanotte intonando gli inni dell’Union e i canti natalizi. Un’idea che partì da 89 tifosi che nel 2004 decisero di entrare clandestinamente all’Al der Alten Forsterai in ristrutturazione e attendere la mezzanotte insieme. Lo spirito del Natale ha coinvolto, nel dicembre scorso, 30.000 supporters dell’Union. E il prossimo anno le luci e le candele si accenderanno in Bundesliga.

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Calciatori Fabio Belli

Paul Breitner: il Maoista con il Libretto Rosso in una mano ed un dopobarba nell’altra

di Fabio BELLI

I soprannomi: a volte ti si appiccicano addosso, altre sei tu che fai di tutto per farti etichettare in un certo modo. Paul Breitner ha mosso i primi passi nel calcio internazionale con l’etichetta di “Der Afro” per i suoi capelli che, a prima vista, avrebbero indicato più un’appartenenza alla band Kool and the Gang piuttosto che alla nazionale teutonica. In men che non si dica però il terzino sinistro, capace di collezionare 48 “caps” nella nazionale della Germania Ovest tra il 1971 ed il 1982, è diventato “Il Maoista“. Questo per il suo feroce impegno politico che lo portò anche a farsi ritrarre in occasione di alcune interviste con il Libretto Rosso di Mao Tse Tung in bella vista e a offrire lo stesso in regalo ad alcuni avversari prima dell’inizio delle partite.

Nato nel cuore della Bavaria, Breitner è stato uno dei calciatori più vincenti della sua generazione. Ha fatto parte del Bayern Monaco Campione d’Europa nel 1974 prima di passare per tre anni tra le fila del Real Madrid. Un trasferimento aspramente criticato dall’opinione pubblica tedesca che contestava l’incoerenza nell’impegno politico a sinistra contrapposto alla militanza nella squadra del generalissimo Franco. Nel 1977 il ritorno in Germania dove l’unico club disposto ad ingaggiarlo è l’Eintracht Braunschweig, piccola società dalle grandi risorse finanziarie poichè sostenuta dall’allora patron della Jagermeister. Il ritorno in patria del Maoista è però… amaro di nome e di fatto, visto che Breitner predica equità sociale, ma sarà uno dei primi calciatori a strizzare l’occhio allo show business: produce film, fa l’attore, si concede alla pubblicità rinunciando per un aftershave alla barba da intellettuale rivoluzionario.

Gli atteggiamenti da primadonna mal sono digeriti nell’ambiente provinciale del piccolo Eintracht. A cavar d’impaccio Breitner arriva il suo club natale, il Bayern, che se la passa abbastanza male. L’alchimia si ripropone subito: “Der Afro” torna nel 1978 e nel 1981, dopo sei anni di digiuno. il Bayern riconquista il Meisterschale con Breitner votato calciatore tedesco dell’anno. Una seconda giovinezza che lo porterà a disputare con la maglia della nazionale la seconda finale mondiale della sua carriera: Breitner infatti è stato Campione del Mondo nel 1974 trasformando il rigore dell’1-1 contro l’Olanda di Crujyff, prima della zampata vincente di Gerd Muller. Due anni prima, a soli 21 anni, aveva conquistato il titolo Europeo. Il bis nel 1980, a Roma, non ci fu perchè Breitner, per gli atteggiamenti sopra descritti, era divenuto nemico giurato del CT Schoen. La frattura totale ci fu nel 1978, quando Breitner espresse il suo rifiuto all’idea di giocare i Mondiali del 1978 in Argentina, nazione all’epoca stritolata dalla dittatura del generale Videla. Scelta che, oltre ad attirare l’ostracismo di Schoen, gli costò forti critiche da parte dei tifosi tedeschi che rilevarono come le motivazioni politiche non gli impedirono di intascare il ricco ingaggio del Real Madrid. Il ritorno ci sarà solo nel 1981 con l’arrivo di Jupp Derwall in panchina, giusto in tempo per partecipare a Spagna’82 ed aggiungere un argento alla collezione delle medaglie.

Contro l’Italia infatti la Germania Ovest vivrà un destino opposto a quello del 1974 ma Breitner andrà a segno nella finale del Bernabeu proprio come aveva fatto otto anni prima all’Olympiastadion di Monaco contro l’Olanda. Diventa così uno dei quattro giocatori nella storia del calcio ad aver segnato in due differenti finalissime dei Mondiali di Calcio: gli altri sono i brasiliani Pelè e Vavà ed il francese Zidane. Sarà il canto del cigno per il maoista che si ritirerà l’anno successivo e resterà nel suo habitat naturale, la Baviera, dove attualmente lavora come osservatore per il Bayern.

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Allenatori Enrico D'Amelio

Josep Guardiola: vincente, mai banale

di Enrico D’Amelio

Un suo storico rivale, Josè Mourinho, ha sempre sostenuto che “chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio”. Una frase sicuramente appropriata e calzante per far capire come anche in uno sport popolare, strumenti come cultura, apertura mentale ed esperienze di vita facciano la differenza per potersi distinguere dagli altri e raggiungere risultati superiori. In altre circostanze, il tecnico di Setùbal affermava che Pep Guardiola fosse capace di vincere “solo nel giardino di casa propria”, riferendosi ai successi ottenuti dallo stesso unicamente nella roccaforte catalana del Camp Nou. Meno male che il tempo è galantuomo, e che l’allenatore spagnolo stia iniziando a dimostrare quanto non sia stato tanto il Barcellona ad essere la sua fortuna, quanto l’opposto. Perché se arrivare primo al traguardo con la macchina più veloce può essere la norma per un pilota, riuscire a oltrepassarlo senza speculare sul risultato, ma fornendo ai propri interpreti dei mezzi basilari per essere migliori degli altri ad altissimi livelli, è un merito innegabile.

Un predestinato della panchina, come tutti quei professori del centrocampo, che vivono per dare fosforo e geometria davanti alla difesa. Pochi i km percorsi negli anni da calciatore, meglio farli fare al pallone in tutte le zone del campo, con la mente che viaggia agli anni a venire, quando verrà il tempo di trasmettere ai più giovani tutto quello che hai maturato nel tempo. Dopo un finale di carriera non degno di una bandiera blaugrana, complici l’esilio in Italia a Brescia e Roma, e spiccioli di calcio inferiore tra Qatar e Messico, l’inizio di ciò che da sempre era scritto nel futuro. A 36 anni una stagione di apprendistato con la squadra B del Barcellona, ad attendere la conclusione fisiologica del quinquennio sotto l’egida di Frank Rijkaard (2003/2008). Poi, a soli 37 anni, la scommessa più rischiosa. Tornare ad essere profeta in patria con la squadra potenzialmente più forte al mondo. Da Rijkaard a Guardiola, da Ronaldinho a Messi. Rifondare una squadra che solo 2 anni prima era diventata Campione d’Europa, e farlo da giovane tecnico che deve imporre idee innovative, impedendo a fenomeni indiscussi di vincere con la sola anarchia. Non straordinari solisti, ma il Gruppo alla base dei successi, oltre al categorico rifiuto della banalizzazione delle vittorie. In un solo anno Guardiola è riuscito nella prima impresa impossibile conquistando il triplete, culminato con il trionfo all’Olimpico di Roma contro il Manchester United nella finale di Champions League 2009. Anche qui la distinzione dell’uomo speciale prestato al calcio, nei momenti della gloria: “Vorrei fare una dedica per questa vittoria al calcio italiano e soprattutto a Paolo Maldini, un esempio per tutti. So che ha avuto qualche problema nel giorno dell’addio, ma sappia che ha l’ammirazione di tutta Europa da venticinque anni, e che per lui le porte del Barcellona sono aperte in qualsiasi momento”. Da lì in poi, la nascita di un ciclo straordinario che profuma ancora di presente per poter essere giudicato dalla Storia. Tutto quello che c’era da vincere dal 2008 al 2012 è finito nella bacheca di Avinguda Aristides. Non sono stati, però, principalmente i trofei conquistati (14) a dare la dimensione di una squadra stellare, quanto la perfezione con cui si è arrivati allo scopo. Storica la risposta a chi gli chiedeva quale fosse il terminale offensivo di una squadra senza ‘numero 9’: “il nostro centravanti è lo spazio”. Nel moderno e consumistico calcio di oggi, però, anche nelle storie d’amore più belle è contemplata la parola fine. Prima che si potesse incrinare qualcosa, dopo un’ultima stagione in cui Liga e Champions League non erano arrivate, Guardiola dice addio (arrivederci?) alla Casa Madre. Troppo stress accumulato e una minor fame di vittorie gli hanno suggerito che era meglio staccare la spina per un anno, prima del nuovo monolite da costruire nel cuore del Vecchio Continente.

A Monaco di Baviera è riuscito addirittura a superare l’impossibile, andando a vincere una sfida ancora più improba. Dopo il triplete di Jupp Heynckes del 2012/13, ha ereditato una squadra ‘sazia’, spostandosi dal suo habitat naturale, ed è riuscito in poco più di un anno a costruire qualcosa di migliore dell’insuperabile. Nella prima stagione la vittoria in Bundesliga è stata una formalità, macchiata soltanto dall’umiliazione patita in semifinale di Champions League contro il Real Madrid di Carlo Ancelotti. Il punto più basso della sua carriera da allenatore, che già dava adito a detrattori un po’ prevenuti di non giudicarlo idoneo a vincere lontano dalla Spagna, e, soprattutto, in un calcio fisico come quello tedesco. I primi mesi della stagione in corso hanno dimostrato, qualora ce ne fosse stato bisogno, che questo Bayern Monaco è già diventato migliore di quello del 2013, e che può seriamente candidarsi ad insidiare il Barcellona migliore di sempre. La Coppa dalle grandi orecchie ritornerà sicuramente in Baviera, probabilmente già da quest’anno, e, cosa più importante, verrà vinta in modo diverso, perché diverse sono le squadre di Guardiola. E allora Mourinho dovrà rassegnarsi. Fino a riconoscere l’oggettiva grandezza di un allenatore speciale, destinato a prendersi in più Nazioni svariati “giardini di casa propria”. Come un vero cittadino del mondo, mai sazio di cercare nuove sfide.

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Enrico D'Amelio Le Finali Mondiali

1974: Germania Ovest-Olanda 2-1. Quel traguardo mai oltrepassato

di Enrico D’Amelio

Gli avvenimenti della storia che si possono definire rivoluzionari hanno radici sempre lontane e non accadono mai per caso. Tra il 1915 e il 1925, il 1928 e il 1940, e tra il 1945 e il 1947, un signore inglese di nome Jack Reynolds venne chiamato ad Amsterdam ad allenare l’Ajax. Lì iniziò a mettere in pratica un nuovo sistema di gioco di democrazia tattica applicata al calcio, dove nessun giocatore era ancorato al proprio ruolo, e nel corso della partita chiunque poteva operare indifferentemente come difensore, centrocampista o attaccante. Velocità di pensiero, ricerca continua degli spazi e mai una posizione predefinita erano le prerogative di tale impostazione. Tra gli interpreti di spicco di questo ‘calcio totale’ c’era il futuro commissario tecnico della Nazionale olandese, Rinus Michels, che 27 anni dopo condurrà gli oranje a un passo dal sogno al Mondiale in Germania Ovest del 1974. Nella memoria collettiva, l’Olanda degli anni ’70 viene ricordata come la più bella espressione di romanticismo incompiuto legato allo sport. Una filosofia di vita modernissima, una continua sinfonia in movimento che ha segnato lo spartiacque tra calcio antico e moderno. Il soprannome affibbiato a questo gruppo verrà preso da uno straordinario film di Stanley Kubrick di tre anni prima: ‘Arancia Meccanica’. Nulla di violento, però, potrà mai essere assimilabile ad una delle Nazioni più libertarie e pacifiche dell’Europa di quel tempo, ma solo un accostamento cromatico e una semplificazione dialettica per un atletismo portato all’eccesso.

Il Kaiser Franz alza la Coppa del Mondo al cielo di Monaco
Il Kaiser Franz alza la Coppa del Mondo al cielo di Monaco

Non meno democratica, nonostante la turbolenta situazione storica del periodo, era la Germania ad occidente del Muro di Berlino. Da undici anni era stato istituito il campionato Nazionale (la Bundesliga), e nelle prime sette stagioni avevano trionfato altrettante squadre diverse. Dal 1970, però, iniziava l’egemonia di Bayern Monaco e Borussia Moenchengladbach, che domineranno questo decennio e forniranno gran parte dei loro uomini alla Nazionale in maglia bianca con l’aquila imperiale sul petto. I Bavaresi hanno due giocatori simbolo tra le loro fila: uno è il capitano Franz Beckenbauer, leggendario difensore di gran classe denominato “Kaiser”, per il suo modo di intendere il calcio da leader indiscusso e aristocratico. L’altro è Paul Breitner, un fantastico terzino sinistro che si conquisterà le antipatie di compagni di squadra e allenatori per l’abitudine di girare il Paese con il Libretto Rosso di Mao Tse-Tung. Un intellettuale di sinistra prestato allo sport, dovendo sintetizzare. Emblemi del Borussia erano il capitano Berti Vogts – che a proposito di simpatie politiche avrà da discutere nella gara contro i cileni col centravanti Caszely, passato alla storia come oppositore di Pinochet -, e il bomber Jupp Heynckes, che nel 2013, ironia del destino, porterà il Bayern Monaco alla conquista del triplete (Bundesliga, Champions League e Coppa di Germania) da allenatore.

Cruijff in azione durante il mondiale tedesco
Cruijff in azione durante il mondiale tedesco

I tedeschi, con un sorteggio beffardo, vennero inseriti nel Gruppo Uno, dove figuravano, oltre a Cile e Australia, i cugini più poveri, quelli a oriente del Muro di Berlino. Lì, nella DDR-Oberliga, era la Dinamo Dresda la squadra migliore del momento, anche se nei dieci anni successivi il campionato verrà vinto solo dalla Dinamo Berlino, la società di riferimento della Stasi. Un campionato di regime dilettantistico, data l’incompatibilità della concezione di professionismo sportivo con la vigente ideologia comunista. Nonostante questo, però, saranno i teutonici della DDR a battere quelli della Germania Ovest nella terza e ininfluente gara del girone per 1-0. L’ultimo atto di questo torneo, però, non può che vedere protagoniste Germania Ovest e Olanda. L’immagine di Beckenbauer e Cruijff che si scambiano i gagliardetti a metà campo è la logica conseguenza di un finale già scritto. Il Brasile Campione del Mondo in carica è orfano di Pelé, la partecipazione dell’Italia verrà ricordata solo per la lite tra Ferruccio Valcareggi e Giorgio Chinaglia a causa di una sostituzione contro Haiti, e la Polonia si accontenterà di avere tra le sue fila il capocannoniere del Mondiale, Grzegorz Lato, con sette reti all’attivo.

La storia ci racconta come finì la corsa. Il 7 luglio 1974, all’Olympiastadion di Monaco di Baviera, sono gli olandesi a dare il calcio d’inizio, e per 54 secondi non fanno mai toccare il pallone ai tedeschi. Il loro genio Johan Cruijff decide di accelerare e andare in porta con tutto il pallone, costringendo un difensore tedesco ad atterrarlo. Il calcio di rigore, il primo assegnato nella storia delle finali di una Coppa del Mondo, viene trasformato dal biondo centrocampista Johan Neeskens. La Germania Ovest è sotto in casa propria, senza aver mai avuto il possesso palla. A questo punto i ragazzi di Michels hanno il torto di guardarsi troppo allo specchio e di non chiudere il conto. Così è Breitner a prendere per mano i compagni, procurarsi un altro rigore e rimettere le cose a posto. Il primo tempo sembra incanalato sull’1-1, ma il DNA della squadra di Schoen non contempla l’ipotesi di accontentarsi, tant’è che prima dell’intervallo Vogts e compagni riescono a trovare il 2-1 grazie a un colpo di genio di Gerd Muller. Il risultato non cambierà fino alla fine, e il trofeo calcistico più prestigioso verrà alzato al cielo da Kaiser Franz.

Nonostante questo, nei cicli vittoriosi che nel calcio scandiscono i tempi della storia, l’eccezione che conferma la regola spetta di diritto all’Arancia Meccanica olandese. L’unica a presentarsi con la bacheca vuota al cospetto dell’Italia di Piola, del Brasile di Pelé o dell’Argentina di Maradona. L’unica, altresì, a potersi permettere di sfoggiare quel fascino indiscusso che è proprio solo di chi arriva a un centimetro dal traguardo, senza mai riuscire ad oltrepassarlo. Come in un finale cinematografico onirico e romantico, in cui non si capisce dove finisca la realtà e inizi l’immaginazione.

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Club Fabio Belli

Monaco 1860: inseguendo la storia, scappando dal passato

di Fabio Belli

– “Papà, quando è stata l’ultima volta in cui il Monaco 1860 ha vinto il derby?”
– “Non so figliolo, dovresti chiedere al nonno!”
Umorismo tedesco. Magari non il massimo della commedia, ma le barzellette e gli sfottò sul calcio esistono a tutte le latitudini, e questa freddura a Monaco di Baviera è circolata per molti anni tra i tifosi del Bayern, per infierire sui cugini meno vincenti, con i quali va in scena l’acceso derby locale. Per la precisione, il digiuno per i “leoni della Baviera” è durato dal 12 novembre del 1977 al 27 novembre del 1999, esattamente ventidue anni interrotti dalla bordata di Thomas Riedl all’Olympiastadion di Monaco. Una vittoria che coincise con l’ultima età dell’oro nel club, quando il quarto posto nella stagione 1999/00 in Bundesliga, raggiunto grazie ai lampi di classe di un ispirato Thomas Hassler a fine carriera, valse la prima e finora unica qualificazione nella moderna Champions League.

Schermata 2013-09-11 alle 01.05.48Un’avventura che terminò già nel turno preliminare al cospetto degli inglesi del Leeds United, ma nessuno come i tifosi del Monaco 1860 sa quanto sia importante esserci, prima ancora che vincere. Un retaggio figlio non degli insegnamenti decoubertiniani, bensì di una storia tormentata, fatta di cadute, resurrezioni e sofferenze più o meno costanti all’ombra dei cugini del Bayern, capaci di dominare la scena nazionale e molto spesso anche quella internazionale. E dire che prima della Seconda Guerra Mondiale, il Monaco 1860 era squadra di primo livello, soprattutto vicina al cuore e ai pensieri dei gerarchi nazisti. Una commistione che creerà nell’immediato dopoguerra non pochi imbarazzi al club, e che lo porterà di fatto ad eliminare i riferimenti al periodo anteguerra nelle sue biografie.

Il Bayern iniziò ad erodere consensi a quella che era considerata la squadra degli abitanti del cuore di Monaco. Ma negli anni sessanta, quasi contemporaneamente alla nascita della Bundesliga, il Monaco 1860 visse il suo periodo più felice sotto la guida del tecnico austriaco Max Merkel. Nel 1964 il club vinse la Coppa di Germania, nel 1965 perse la finale di Coppa delle Coppe contro gli inglesi del West Ham, mentre nel 1966 conquistò il suo primo e finora unico Meisterschale, il titolo di campione di Germania. Con l’avventura in Coppa dei Campioni conclusasi al cospetto del Real Madrid, il Monaco 1860 vede però spegnersi la sua stella in favore di quella dei rivali cittadini, che negli anni settanta diverranno dominatori del calcio mondiale.

E il peggio doveva ancora venire, visto che dopo il derby vinto nel 1977, il Monaco 1860 è costretto a ripartire addirittura dai campionati regionali: Il fallimento, un’ombra che viene spazzata via dall’avvento di Karl Heinz Wildmoser, ambiziosissimo presidente che riporterà la più antica squadra di Monaco in Bundesliga, e al tramonto degli anni novanta a rompere l’ultraventennale digiuno nei derby, e a respirare aria di Champions League a trentatré anni dal titolo.

Ma la storia del Monaco 1860 ha qualcosa di strano, diverso da tutti gli altri club. E ciò che per tutti all’alba del duemila è fonte di enormi guadagni, per i leoni di Baviera diventa la causa della rovina. Ovvero, la costruzione dello stadio di proprietà, l’Allianz Arena, che per i cugini del Bayern, con i loro centocinquantamila soci, è un investimento verso il futuro, mentre per il piccolo Monaco 1860 è un salto finanziario nel buio. E Wildmoser, nel frattempo affiancato dal figlio, si ritrova sommerso dai debiti. Nel 2004 il club prova addirittura a tornare a giocare nel catino dello storico Grundwalder Stadion, per la gioia dei tifosi, ma il passo indietro complica addirittura le cose. L’Allianz Arena non può essere abbandonata, ma i debiti ed i costi di gestione rischiano di schiacciare il club. Il secondo fallimento della storia viene evitato da un imprenditore giordano, Hasan Abdullah Ismaik, che entra a Monaco subito col piede di guerra perché la legge tedesca gli vieta di possedere, in quanto socio estero, il 51% del club. Ed i leoni del Monaco 1860, ormai da anni in Zweite Bundesliga, attendono di tornare a ruggire: il club ha perso tante battaglie in oltre 150 anni di storia (fondato come società podistica, iniziò l’attività calcistica nel 1899), ma la speranza mai.

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Calciatori Club Fabio Belli

La punizione di Patrick Andersson e lo Schalke 04, in 54 anni campione di Germania solo per quattro minuti

di Fabio Belli

L’orgoglio della Ruhr si chiama Schalke 04. In Germania, la zona della RenaniaWestfalia vive da anni calcisticamente sui toni accesi della rivalità tra Schalke 04 e Borussia Dortmund. Ma se i gialloneri, pur a fasi alterne e con lunghi periodi di magra, sono stati sempre tra i club padroni del calcio della Germania Occidentale, quello di Gelsenkirchen accende una passione tra i propri tifosi non sempre alimentata dai risultati, anzi. E nonostante le cinque Coppe di Germania conquistate ed i buoni risultati in campo europeo, con la Coppa UEFA vinta nel 1997 in finale contro l’Inter e la semifinale di Champions League disputata nel 2011, il grande cruccio dei tifosi dello Schalke resta la Bundesliga.

Con la stagione 2011/12 che ha visto proprio gli odiati cugini del Dortmund come conquistatori del Meisterschale, il piatto-trofeo consegnato ai campioni di Germania, il digiuno in campionato dei biancoblu di Gelsenkierchen dura ormai da 54 anni. In tutto questo lasso di tempo, mai lo Schalke è stato campione di Germania… fatta eccezione per quattro minuti. Per la precisione, i quattro minuti finali della stagione 2001/02, quando era già terminata l’ultima partita stagionale dello Schalke contro l’Unterhaching, vinta per 5-3 dopo che Die Knappen, ovvero i minatori, erano stati sotto di due reti.

Come si può essere campioni per soli duecentoquaranta secondi? Semplice, perchè nonostante il principio di contemporaneità, sacro nella disputa delle ultime giornate di campionato, quando finisce la tua ultima partita, potrebbe essere ancora in corso quella degli altri. Se nella fattispecie gli altri sono i rivali di tutto l’anno, il Bayern Monaco, allora ecco che la conclusione della stagione assume automaticamente tutti i crismi del thriller. Arrivati all’ultima giornata del campionato 2000/01 divisi da tre soli punti, allo Schalke serviva che il Bayern perdesse ad Amburgo per piazzare l’aggancio in extremis e spezzare il tabù-Bundesliga in virtù della miglior differenza reti. Ebbene, dopo l’altalena di emozioni contro l’Unterhaching, con i bavaresi sempre inchiodati sullo 0-0, il miracolo: al 90′ Barbarez porta in vantaggio l’Amburgo, gettando i tifosi del Bayern nella prostrazione, e facendo esplodere, grazie al tam-tam via radio, quella che allora era la tana dello Schalke, il Parken.

Può il destino voltarti clamorosamente le spalle dopo un invito così sfacciato? Può la sorte essere così incoerente nel giro di pochi istanti? Di favole di questo tipo il calcio ne ha viste, campionati vinti all’ultimo tuffo quando tutto sembrava perduto: dall’Arsenal 1989 immortalato da “Febbre a 90′” di Nick Hornby, fino alla Lazio del 2000 e al recente caso del Manchester City, gli esempi abbondano ed anche allora il pubblico del Parken aveva invaso il campo pronto a celebrare la fine della traversata del deserto. Ma in pieno recupero, ad Amburgo, 4′ dopo il gol di Barbarez, venne assegnata una punizione a due in area in favore Bayern Monaco, evento già di per sè molto raro, poi in un finale di campionato come quello… e quando, inaspettatamente e al posto dello specialista Effenberg, andò alla battuta il difensore svedese Patrick Andersson, specialista dei calci piazzati “potenti“, a Gelsenkirchen qualcuno se lo sentiva già. E così arrivò il gol che regalò il titolo più inatteso nella storia del club più titolato di Germania, e confermò allo Schalke una lezione nota: solo il destino sa quando, nel bene e nel male, deve arrivare il tuo momento. Lezione che anche allora fu valia per Andersson, così come per il club di Gelsenkirchen.