La maglia numero 7 del Manchester United: la più carica di gloria, di storie e di storia

di Fabio BELLI

C’è una maglia rossa, appoggiata in un angolo in uno spogliatoio, che significa per il calcio più di quanto possa mai immaginare un ragazzino dell’Academy che, in una piovosa giornata tipica di Mancester, la riceve per il primo allenamento all’inizio della prima stagione con lo United.

E’ una maglia indossata da un bel nordirlandese con gli occhi verdi che a fine carriera amava dire, andando in giro per i pub, che se fosse stato più brutto nessuno si sarebbe mai ricordato di quell’altro tizio, quel Pelè. Un calciatore talmente completo e talmente carico di classe ed intelligenza calcistica che forse cominciò a complicarsi la vita da solo perché non c’era nessun avversario che potesse dargli soddisfazione. Un giocherellone che, quando arrivò a disputare la finale di Coppa dei Campioni, quella che avrebbe regalato la prima Coppa in assoluto all’Inghilterra, segnando il gol decisivo dribblò anche il portiere avversario e pensò di fermare la palla sulla linea, sdraiarsi ed appoggiarla in rete con la testa. Non lo fece per non far venire un infarto al suo vecchio Manager che era come un padre per lui, Matt Busby, e quel ragazzo di Belfast un po’ pazzo e un po’ triste era George Best.

E’ una maglia indossata da un colosso francese, spalle larghe e sguardo fiero che rese altrettanto fiero anche quello dei tifosi che andavano all’Old Trafford da 25 anni e che, dai tempi del bel nordirlandese, non avevano più vissuto emozioni di quel tipo. Era sempre un francese in terra inglese e, se lo facevano arrabbiare, spesso perdeva il controllo, come quella volta che prese a calci quasi volando un tifoso in tribuna. Ma i tifosi gli perdonavano tutto, perché quel francese faceva quello che voleva fuori ma soprattutto dentro il campo e si chiamava Eric Cantona.

E’ una maglia indossata da un ragazzo londinese coi capelli biondi e l’aria un po’ distante e trasognata che, ogni due settimane, andava con il papà al Teatro dei Sogni ed ogni tanto restava dietro le grate dei cancelli dell’uscita dei giocatori per vederli più da vicino. Qualcuno si incuriosì di questa presenza abituale e venne fuori che il ragazzo era stato nominato da poco miglior giocatore Under 15 del paese e che giocava in un club di dilettanti, i Brimsdown Rovers. Passò allo United e se ne andò solo dopo aver vinto di nuovo quella Coppa che il nordirlandese aveva portato per la prima volta a Manchester 31 anni prima di lui. Questo dopo essere diventato un’icona di stile proprio grazie al taglio di capelli e a quello sguardo liquido, cosa che in verità non piaceva molto al suo di Manager che una volta su quegli occhioni ci stampò sopra uno scarpino. E David Beckham salutò la fredda Manchester per il cielo di Madrid.

E’ una maglia indossata da un moretto portoghese, che aveva una madre molto devota ed un padre che, quando nacque, era un grande ammiratore del Presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan che seguiva da quando faceva l’attore. Dopo quello scarpino lanciato con rabbia il vecchio Manager scozzese, che risponde al nome di Alex Ferguson, si era ripromesso che avrebbe consegnato quella maglia ad un nuovo talento di caratura mondiale. Lo individuò in quel diciottenne dello Sporting Lisbona che divenne un teenager da quasi tredici milioni di sterline. Quando cinque anni dopo, anche grazie ad un suo gol in finale, la Coppa dei Campioni tornò per la terza volta nella bacheca dello United, Ferguson capì di aver compiuto la missione di averne fatto il più grande calciatore del mondo. E poco prima di morire consumato dalla sua passione per la bottiglia, il nordirlandese chiuse il cerchio dicendo di lui, Cristiano Ronaldo: “Ci sono stati tanti calciatori segnalati come “il nuovo George Best”, ma questa è la prima volta che è un complimento per me.

Al momento quella maglia è ancora lì, quando si gioca la indossa un talentuoso ed ormai esperto cileno, Alexis Sanchez, ma non ce ne voglia se diciamo che ogni appassionato di calcio sa che si tratta solo di un passaggio verso un nuovo capitolo del mito: perché certe storie, semplicemente, sono già scritte nel destino.