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Calciatori Club Fabio Belli

Giuliano Fiorini ed il gol che salvò la vita alla Lazio… e non solo

di Fabio BELLI

Le storie di tutte le squadre di calcio del mondo sono costellate di gol importanti, alcuni fondamentali, pietre miliari nella vita del club. Reti che hanno regalato scudetti, trofei internazionali, derby, salvezze e promozioni, o sensazioni uniche a chi era allo stadio. Pochissimi club però possono legare una storia, al momento ultracentenaria, all’esito fortunato di una singola partita. Uno scenario questo più consono ad un film che a una competizione sportiva, ma la romanzesca e tormentata storia della Lazio, spesso e volentieri proprio ad una pellicola da Oscar ha finito con l’assomigliare.

Nell’estate del 1986 il sodalizio biancoceleste si ritrova ad affrontare l’ennesima tempesta: non è la prima e non sarà l’ultima, ma in quel particolare caso è in gioco l’esistenza stessa della società. Schiacciata dai debiti dopo la sciagurata gestione-Chinaglia e implicata in un secondo scandalo delle scommesse dopo quello del 1980, la Lazio viene retrocessa in serie C/1 il 5 di Agosto, a causa degli illeciti contestati all’allora tesserato Vinazzani. Il punto è che i nuovi proprietari Calleri e Bocchi, già alle prese con un durissimo piano di risanamento e rilancio finanziario, sono chiari: se gli organi competenti non rivedranno la loro decisione, il loro impegno verrà meno, e la Lazio cesserà di esistere.

Ne segue un lungo mese di proteste e passione per i tifosi laziali, che culmina con la sentenza della CAF che mantiene la squadra allora allenata da Eugenio Fascetti in cadetteria, ma con 9 punti di penalità da scontare. Nell’epoca dei due punti a vittoria, ha quasi il sapore di una condanna posticipata, ma la squadra parte a razzo facendo addirittura pensare ad un’incredibile promozione: illusione che svanisce presto sotto i colpi di stress e stanchezza, che portano i biancocelesti a giocarsi la permanenza in B in un’infuocata domenica di Giugno, allo stadio Olimpico contro il Vicenza, allora ancora “Lanerossi”.

Una partita per la sopravvivenza: al di là dell’onta della terza serie, la Lazio deve evitare una retrocessione che comporterebbe il definitivo dissesto finanziario, con i nuovi azionisti di maggioranza che, a causa dei minori introiti della C, non potrebbero più far fronte agli impegni presi nella stagione 1987/88. Un incubo, un thriller in piena regola anche perchè il Vicenza con un pari si garantirebbe almeno gli spareggi per non retrocedere. E per i tifosi laziali la nemesi si materializza nelle fattezze del portiere dei veneti Ennio Dal Bianco, che para l’impossibile di fronte agli attacchi di una Lazio per nove undicesimi protesa in avanti, fatta eccezione per il portiere Terraneo ed il libero Marino.

Ma come in tutti i film a lieto fine, c’è sempre un eroe a portare la vittoria e la catarsi. Un eroe anticonvenzionale, con i capelli lunghi, un fisico non asciuttissimo e dedito fuori dal campo a tre passioni non strettamente legate fra di loro: famiglia, whisky e sigarette. “Il più forte attaccante del mondo senza fuorigioco“, lo definivano i compagni di squadra con un pizzico di ironia ma anche con tanta ammirazione per la sua generosità: Giuliano Fiorini, che a meno di dieci minuti dalla fine, consente alla Lazio di superare il muro-Dal Bianco e continuare a vivere, anche se la salvezza finale dovrà passare attraverso gli spareggi contro Taranto e Campobasso, all’inizio di Luglio.

Ma come in quei film che riservano ancora una scena dopo i titoli di coda, anche questa storia ha un’appendice sorprendente e commovente: l’eroe mancato della partita per il Vicenza, Dal Bianco, il portiere arrivato oltre i propri limiti, rientra a casa da Roma con la retrocessione che ancora brucia sulla pelle. Ma c’è poco tempo per pensarci: trova il figlioletto (oggi 32enne) in preda ad un malore, la corsa all’ospedale è provvidenziale. Un soccorso che sarebbe mancato senza il gol di Fiorini, visto che il Vicenza in caso di risultato positivo sarebbe andato subito in ritiro per gli spareggi, senza far passare da casa i calciatori. “Sono emotivamente legato a Lazio-Vicenza perché a volte le grandi delusioni si trasformano in grandi gioie. Era previsto, infatti, che se avessimo pareggiato con i biancocelesti avremmo partecipato agli spareggi a Napoli, rimanendo quindi a Roma per una settimana senza tornare a Vicenza. Tornai invece a casa, mio figlio piccolo ebbe dei problemi fisici ed io, nonostante il parere di tutti, decisi di farlo ricoverare nonostante. Ciò gli salvò la vita. Una sconfitta in campo si trasformò in un evento salvifico.” E allora quel gol di Giuliano sembra una volta di più scritto nel destino.

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Fabio Belli Presidenti

Romeo Anconetani, il presidente vulcanico che inventò il mestiere di procuratore

di Fabio Belli

Quel corpulento signore che si era avvicinato al campo per dare un’occhiata all’allenamento della Fiorentina, non dava proprio l’impressione di sapere il fatto suo. Un po’ trasandato, un po’ troppo rumoroso e chiacchierone, con quella voce un po’ roca e un po’ stridula allo stesso tempo. Eppure, indicando quel centrocampista magrolino appena arrivato a Firenze da Asti, sparò subito una sentenza che da quelle parti si ricordarono per molto tempo: “Quel ragazzino lì, se mangiasse più bistecche, sarebbe forte come Cruyff.”

anconetaniIn realtà in molti già lo conoscono, perché quel signore che non passa certo inosservato nell’aspetto e nei modi si chiama Romeo Anconetani, e si è praticamente inventato un mestiere: quello del  procuratore. Lo chiamano “mister cinque per cento“, perché grazie ad una licenza della Camera di Commercio si è messo a fare il mediatore, e si è scelto come clienti una categoria che allora, all’alba degli anni settanta, nessuno considerava più di tanto: i calciatori. Certo, per guadagnare, quando si è pionieri del proprio mestiere (vent’anni dopo li chiameranno appunto “procuratori“), bisogna avere talento da vendere, ma Anconetani fa affari dai tempi di Selmosson dalla Lazio alla Roma, cura già gli interessi del talento granata Claudio Sala, e tanto per dimostrarne una di più, il ragazzino bisognoso di manzo e muscoli di cui sopra era un certo Giancarlo Antognoni.

Certo, grandi idee, ma il personaggio-Anconetani c’era già tutto, e non finiva nelle micidiali intuizioni da talent-scout. La FIGC l’aveva già radiato da quasi vent’anni, all’epoca, perchè da dirigente aveva cercato di organizzare una combine in una partita tra Poggibonsi e Pontassieve. Ma dalla Toscana non si era mai allontanato, e dopo anni da manager riuscì a tornare dirigente in quella che divenne la sua creatura per definizione, quella per la quale viene oggi ricordato: il Pisa.

Certo, per farsi chiamare “presidente” dovette aspettare l’amnistia del 1982, dopo la vittoria azzurra nel Mundial spagnolo. Ma a quell’epoca il Pisa l’aveva già portato in Serie A, ed era già cominciata la sua leggenda fatta di ritiri, sfuriate memorabili a giornalisti e giocatori, che riempiva di regali ma castigava al primo sgarro, esponendoli a inarrivabili “cazziatoni” anche in pubblico. Era un mago a comprare e rivendere, portando in Italia gente come Kieft, Berggreen, Simeone e Chamot. Maestro nella lungimiranza, lo era meno nel gestire il quotidiano: il suo Pisa si prese presto l’appellativo di “squadra ascensore“, le retrocessioni dalla A alla B furono numerose, ma altrettanto lo furono le salvezze epiche e le risalite dalla cadetteria. La sua vittima preferita furono però gli allenatori: ne licenziò ventidue, per dire che Zamparini e Cellino ai giorni nostri non si sono inventati nulla. Così come non si erano inventati nulla i presidenti che avevano compreso l’importanza dell’esposizione mediatica: lui stesso si ritagliò uno spazio settimanale fisso in televisione, “Parliamo con Romeo” su un’emittente chiamata 50 Canale, per fare a modo suo il punto della situazione e avere sempre l’ultima parola sulle questioni più spinose.

Dove non arrivavano gli esoneri, provava a compensare col sale, sparso copiosamente sul campo dell'”Arena Garibaldi” per evitare il costante incubo della retrocessione, e quello verificatosi più raramente della mancata promozione. Al crepuscolo della sua presidenza, il sogno di aver scovato l’ultimo talento, Lamberto Piovanelli, in procinto di giocarsi una chance come centravanti della Nazionale, si spezzò in un piovoso pomeriggio all’Olimpico di Roma: gamba fratturata tra le urla contro la Lazio, e addio Piovanelli e Serie A. Lasciato il Pisa, spese gli ultimi anni collaborando con Genoa e Milan, senza più sfuriate ma concentrandosi sulla cosa che meglio gli riusciva: individuare nuovi talenti, magari bisognosi sul momento di qualche bistecca in più, ma sulla cui classe si poteva scommettere ad occhi chiusi.

 

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Club Fabio Belli

Il West Ham degli anni ’60 e i gradini di Wembley

di Fabio Belli

Il calcio a Londra ha mille anime. Rivalità centenarie come quella tra Spurs e Gunners, vecchia e nuova aristocrazia come quella di Queens Park Rangers e Chelsea, realtà passate attraverso mille trasformazioni come il Crystal Palace. Ma ce ne sono altre più fortemente legate alla tradizione che, pur vantando una bacheca decisamente meno ricca di quella delle concorrenti, hanno accumulato un fascino destinato a non tramontare mai. Quella del West Ham è una storia legata a doppio filo agli anni d’oro del calcio inglese e al suo tempio per eccellenza: Wembley.

hammersIl West Ham non ha mai vinto il campionato: ha davvero lottato per il titolo in una sola occasione, nella stagione 1985/86. Fu l’apice del periodo, durato quindici anni, sotto la guida di John Lyall, con Tony Cottee in attacco ed Alan Devonshire a centrocampo a fare da leader in un gruppo partito dalla Seconda Divisione, ma ricco di talento. Alla fine, la vittoria sfumò nella tiratissima volata a tre con Liverpool ed Everton. Tuttavia, qualsiasi tifoso Hammers che si rispetti, identificherebbe l’epoca d’oro del club a cavallo degli anni sessanta, quando il West Ham era guidato da autentici campioni, e soprattutto formava la spina dorsale della Nazionale inglese più forte di sempre.

Era la squadra allenata da Ron Greenwood, maestro della panchina in grado di far sbocciare i talenti del sempre floridissimo settore giovanile degli Hammers. Non per niente uno dei soprannomi più noti del club è “The Academy“, per la sua capacità di portare alla ribalta giovani assi del football. Tra il 1958 ed il 1959, tra di essi emersero tre grandi protagonisti della finale vinta dall’Inghilterra contro la Germania Ovest nella finale del Mondiale giocato in casa nel 1966. Bobby Moore, il capitano, difensore capace di coniugare grinta ed eleganza; Martin Peters, implacabile incursore di centrocampo; ed il bomber Geoff Hurst, l’autore della storica tripletta di Wembley, e soprattutto del celeberrimo gol fantasma che spezzò l’equilibrio nei supplementari contro i tedeschi, in una delle finali rimaste nella storia del calcio.

Moore, Peters ed Hurst: un trio che per tre anni consecutivi fece la storia del West Ham e dell’Inghilterra, salendo per tre volte consecutive i gradini di Wembley per una premiazione. Nel 1964, quando la FA Cup finì per la prima volta tra le mani degli Hammers grazie al gol di Ronny Boyce a 5′ dalla fine del match, tiratissimo, contro il Preston North End. Nel 1965, quando nella finale di Coppa delle Coppe giocata a Londra, la doppietta di Alan Sealey regalò il primo alloro europeo al West Ham, nel 2-0 al Monaco 1860. In entrambi i casi, fu Bobby Moore ad alzare il trofeo, ma l’anno successivo per il capitano arrivò l’emozione più grande, visto che ricevette dalle mani della Regina Elisabetta la Coppa Rimet, quando fu lui con i suoi compagni Hammers, oltre a tutta l’Inghilterra, ad issarsi sul tetto del mondo. Oltre alla tripletta di Hurst che fece impazzire Wembley e tutto il Paese, infatti, fu Martin Peters a siglare l’altra marcatura nel 4-2 finale in favore dell’Inghilterra. Anni irripetibili, quando pensare West Ham significava dire mondo.

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Fabio Belli Nazionali

San Marino, i Titani costretti costantemente ad affrontare i Giganti

di Fabio Belli

Per andare più in basso nel calcio, bisogna salire in alto: per la precisione arrampicarsi su una rocca, fin su il monte Titano, davvero non molto lontano da casa nostra, anzi, praticamente Imagea casa nostra. Quella di San Marino è infatti la nazionale più scarsa del pianeta: certo, a pari merito con le selezioni di altri microstati come Anguilla, Montserrat, Papupa Nuova Guinea e Samoa Americane. Ma negli ultimi anni è capitato spesso di vedere la Nazionale sammarinese all’ultimo posto del ranking FIFA, soprattutto quando qualcuna delle altre piccole selezioni riusciva a vincere in maniera estemporanea una partita.

La prima partita ufficiale dei Titani risale al 14 Novembre del 1990: San Marino-Svizzera 0-4 allo stadio Olimpico di Serravalle, “Wembley” putativo della selezione sammarinese e divenuto “San Marino Stadium” dopo la ristrutturazione che l’ha reso un impianto d’avanguardia, seppur di dimensioni ridotte. Da allora, in 32 anni di onorata militanza nel ranking internazionale, i risultati utili sono stati solamente 7: due amichevoli e una sfida di UEFA Nations League contro il Lichtenstein (due pari e una vittoria in amichevole, l’unico successo in una partita ufficiale), un match con la Lettonia, i più recenti pareggi contro Estonia (primo punto di sempre nelle qualificazioni agli Europei) e Gibilterra ed il risultato che resta ancora il più prestigioso, il pari casalingo contro la Turchia nelle qualificazioni per i Mondiali del 1994.

Lo strano caso di San Marino, a scorrere il ranking FIFA fino agli ultimissimi posti, infatti, è facilmente individuabile: la nazionale del Titano, al contrario di samoani e compagnia bella, è costretta a confrontarsi con autentiche leggende del calcio mondiale, e non certo in accesi derby della Micronesia, nei quali in fondo può accadere di tutto. Nelle qualificazioni ufficiali San Marino si è trovato di fronte squadre come l’Inghilterra, la Germania e l’Olanda dovendo spesso digerire sconfitte epocali. Il 2 Settembre 2011 al PSV Stadion di Eindhoven, Andy Selva e compagni hanno incassato undici gol, con quaterna di Van Persie e doppiette di Huntelaar e Sneijder. Nel 2006 contro la Germania il passivo più pesante, 0-13, in un contesto in cui San Marino è abituato a viaggiare alla media di quattro gol e mezzo incassati a partita. Il bis nel 2015, per le qualificazioni agli Europei 2016, vide i tedeschi vincere 0-8 scendendo in campo da Campioni del Mondo contro la squadra in fondo al ranking FIFA, un evento più unico che raro. Ma i biancazzurri non rinuncerebbero mai a ritrovarsi di fronte l’elite del calcio mondiale, anche a fronte di brucianti sconfitte, proprio per il sapore unico di questi appuntamenti.

Basti pensare che nel match d’andata delle qualificazione a Euro 2012 contro l’Olanda, a marcare Sneijder fresco vincitore della Champions League con l’Inter c’era Maicol (scritto proprio così) Berretti, mediano internazionale per hobby, ma di professione studente. D’altronde i professionisti sono sempre stati pochini: la maggior parte dei calciatori della nazionale a San Marino gioca nel campionato locale, il centravanti Andy Selva ha un passato rispettabile in Lega Pro, ed il giocatore più rappresentativo della storia resta l’ex juventino Massimo Bonini, che giocò da capitano nell’unico confronto ufficiale contro l’Italia, allora allenata da Arrigo Sacchi, a Cesena. La perla? Resta il gol di David Gualtieri all’Inghilterra nel ’93, San Marino in vantaggio dopo 8 secondi. Poi finì 1-7: ma vuoi mettere la soddisfazione?

 

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Allenatori Calciatori Fabio Belli

Maestrelli e Chinaglia: “Quo vadis, Giorgio?”

di Fabio BELLI

Il calcio è in grado di far nascere legami speciali all’interno di squadre destinate a ricoprire un ruolo particolare nella storia di questo sport. Dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2011 la notizia del ritorno a Roma della salma di Giorgio Chinaglia alle orecchie più distratte sarà parsa perfettamente plausibile. In fondo la Capitale è sempre stata la seconda casa di “Long John“, anche quando l’attaccante nato in Toscana e trapiantato in Galles negli anni della sua gioventù si era fatto conquistare dal sogno americano.

lazioPuò risultare però più impressionante il fatto che l’ex centravanti della Lazio e della Nazionale riposerà accanto a quello che viene universalmente considerato il suo mentore, Tommaso Maestrelli, l’architetto del primo scudetto biancoceleste del 1974. Tra i due si era venuto a creare un autentico legame tra padre e figlio: chi conosce bene il background di quella Lazio sa quanto fosse speciale e a tratti incredibile quell’amicizia. Perché ora l’affetto e la devozione di Chinaglia per Maestrelli, proseguita per decenni anche dopo la scomparsa del tecnico nel 1976, sono cosa nota ma, all’inizio della loro storia umana e professionale, i due potevano benissimo incarnare la “strana coppia” uscita dalla penna del brillante Neil Simon.

Posato, elegante, psicologicamente all’avanguardia l’allenatore che, già al momento del suo passaggio dal Foggia alla Lazio, pur in Serie B, sapeva di poter plasmare la sua creatura migliore della carriera. Irruente, impulsivo, capace di accendersi per un nonnulla l’attaccante che, dopo la retrocessione del 1971, meditava di lasciare la Lazio sopratutto perché la discesa di categoria significò anche la separazione dal tecnico che l’aveva lanciato ed imposto in Serie A, Juan Carlos Lorenzo. E, come in una sceneggiatura hollywoodiana, fu un aneddoto particolare a cambiare il rapporto tra i due, nelle prime settimane permeato di scetticismo. Una storia legata ad un limone.

Nel 1971, fresca di retrocessione, la Lazio si trovava ad affrontare con squadre francesisvizzere ed austriache la Coppa delle Alpi. Torneo europeo minore, estivo e, alla vigilia di un match contro gli elvetici del Winterthur, Chinaglia nello spogliatoio sentiva scottare la sua fronte. Aveva trentanove di febbre. Lo comunicò all’allenatore in seconda Flamini, visto che Maestrelli, prima dell’inizio ufficiale della stagione 1971/72, non poteva sedere sulla panchina della Lazio. “Long John” imboccò il tunnel e si apprestò ad uscire quando venne fermato da Maestrelli. “Dove stai andando Giorgio?” chiese. Dove vai, “Quo Vadis“, quasi un monito di quella che per la Lazio sarebbe stata una chiamata per la storia.

“Ho la febbre, vado a casa”. E a quella risposta la visione di Maestrelli, quasi utopistica per una squadra che doveva affrontare il campionato di B, prese forma per la prima volta. “Guarda Giorgio,” gli disse prendendolo da parte, “tu lo devi fare per me. Sei ciò che può trasformare la Lazio attuale in una Lazio vincente.” Maestrelli sapeva che in biancoceleste avrebbe potuto coronare il suo sogno di creare una squadra da scudetto: a quel tempo però lo sapeva solo lui, perché la Lazio era un gruppo folle, spaccato, diviso in clan e gestito in maniera un po’ discutibile a livello manageriale (anche se a quel tempo era una colpa molto comune) dal presidente – papà Lenzini. “Ma mi reggo in piedi a malapena” fu la protesta di Chinaglia che fu lasciato ad aspettare da Maestrelli nei corridoi degli spogliatoi, in attesa di un miracoloso rimedio.

Il tecnico tornò con un limone di fronte all’esterrefatto attaccante. “Bevi il succo, ti farà passare l’infiammazione. E ora, se non puoi correre, cammina: vedrai che segnerai.” Allora i “rimedi della nonna” per i malanni di stagione erano sempre in voga. Fatto sta che bastò mezzo limone succhiato di malavoglia per far realizzare una tripletta in quarantasette minuti a Chinaglia, che fu sostituito dopo un’ora di gioco per andarsene sotto le coperte con una Lazio sicura della vittoria (il match finì 4-1).

Ovviamente ad avere proprietà magiche non era il limone, ma la forza di persuasione che Maestrelli riusciva ad avere verso il suo figlio prediletto. Un legame che portò Chinaglia a diventare uno di famiglia in casa Maestrelli, come ricordato anche dalla moglie Lina e dai gemelli figli dell’allenatore che divennero un portafortuna per quella strana, meravigliosa squadra. Un rapporto destinato a durare oltre la morte ora che i due riposano insieme nella tomba di famiglia del tecnico. Come se, una volta ritrovatisi, l’uno avesse detto di nuovo all’altro: “Dove vai, Giorgio?”, e la coppia inseparabile si fosse ricomposta come dentro quello spogliatoio dello stadio Olimpico. Potenza del calcio o, per chi vuole crederci, di mezzo limone.

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Calciatori Fabio Belli

Branco: tre punizioni nella storia

di Fabio BELLI

Claudio Ibrahim Vaz Leal: un nome che i ragazzini appassionati di calcio leggono per la prima volta all’interno dell’album delle figurine Panini dedicato alla stagione 1986/87. Scritto in piccolo, ad indicare la vera identità di un nuovo talento brasiliano importato da una provinciale, il Brescia, che mancherà in quell’annata la salvezza in Serie A nonostante i gol di un bomber generoso, Tullio Gritti. E, come per molti talenti brasiliani, il nome “d’arte” di quel calciatore è breve e d’impatto: Branco. Quando arriva a Brescia, Branco ha ventidue anni ed è ancora acerbo per una ribalta come quella italiana che, in quegli anni, si afferma come la più rilevante a livello mondiale. Resta in Lombardia due anni, compreso uno in Serie B, poi viene ingaggiato dal Porto dove esplode il suo talento.

brancoSchierato inizialmente come interno di centrocampo, Branco in realtà eccelle come terzino sinistro, sfruttando un buon dinamismo e, soprattutto, un piede capace di calibrare lanci e cross perfetti. Soprattutto ai tempi del Porto emerge un suo particolare talento: quello sui calci di punizione. Branco è infatti in possesso di un tiro micidiale, potentissimo, forse il più violento della sua generazione. A questa potenza si abbina negli anni un affinarsi della tecnica: Branco colpisce il pallone sulla valvola applicando un effetto particolarissimo. La maggior parte degli specialisti imprime l’effetto a rientrare per aggirare la barriera e centrare l’incrocio dei pali, Branco tira staffilate centrali che si allargano verso l’estremità della porta, ed il portiere avversario vede sfuggire il pallone verso il quale è proteso in tuffo.

Questo talento si rivela nel Porto e nella nazionale brasiliana: ai Mondiali del 1990 in Italia, nel girone eliminatorio Murdo MacLeod, centrocampista della Scozia e del Borussia Dortmund, finisce in ospedale con un trauma cranico dopo essere stato colpito da una pallonata scagliata da Branco su punizione. Il malcapitato MacLeod era in barriera. L’Italia è però un conto aperto per Branco, considerando che i Mondiali finiscono nel peggiore dei modi per il Brasile, eliminato negli ottavi di finale dall’Argentina. Alla fine della competizione iridata si concretizza il trasferimento in un Genoa ambizioso, ricco di giocatori di qualità. Sono gli anni d’oro del calcio genovese, nella stagione del ritorno di Branco in Italia la Sampdoria vincerà lo scudetto ed il Genoa, quarto, si qualificherà per la prima volta nella sua storia in Coppa UEFA. Gioiello nella stagione dei grifoni, la micidiale punizione con la quale Branco regala il derby d’andata ai rossoblu contro i cugini futuri Campioni d’Italia. Una vittoria che sarà celebrata dai tifosi della Gradinata Nord con l’invio di una cartolina di Natale che raffigura la prodezza del centrale brasiliano.

La cavalcata in Coppa UEFA dell’anno successivo si rivelerà memorabile per il Genoa che sarà la prima squadra italiana capace di vincere ad Anfield, nella tana del Liverpool. Prima dell’impresa, i rossoblu avevano già ipotecato la qualificazione in semifinale nella gara d’andata. Il gol del fondamentale due a zero è a firma di Branco: una punizione da distanza incredibile, un capolavoro di potenza col pallone che disegna l’effetto sopra citato, caratteristico dei suoi calci piazzati. Marassi piange di gioia di fronte ad una delle più gloriose pagine della storia del Genoa.

Nel 1993 Branco torna in Brasile, tra Gremio e Corinthians, per preparare al meglio il Mondiale americano del 1994. E dopo la delusione del 1990, per il Brasile arriverà un titolo atteso 24 anni, dai tempi di Pelè. Tappa decisiva per la conquista del Mondiale, la vittoria nei quarti di finale contro l’Olanda: i tulipani rimontano due gol alla squadra di Romario e Bebeto, ma devono arrendersi al gol del 3-2. Firmato, neanche a dirlo, da una bomba di Branco che manda in delirio il Paese. Degna consacrazione per un campione abituato a chiudere in attivo i conti in sospeso.

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Allenatori Fabio Belli

Ezio Glerean, “l’uomo in più” di Paolo Sorrentino

di Fabio Belli

Alla sua idea di calcio si è ispirato anche il regista premio Oscar Paolo Sorrentino per la sua opera prima, “L’uomo in più“. Il protagonista Antonio Pisapia, interpretato da Andrea Renzi, ex calciatore che rifiuta di truccare partite e fatica a reinserirsi nel mondo del calcio da allenatore, prova ad esportare la sua idea di football avveniristico, con gli attaccanti che si muovono a rombo, tre punte più un trequartista, per i triangoli ed i fraseggi, e tre mediani che fanno muro a centrocampo. “Si possono vincere le partite, così“, spiega senza che nessuno lo ascolti. Finzione dalle radici ben piantate nella realtà: la vicenda umana del protagonista, che nel film incrocia i suoi destini con l’omonimo cantante interpretato da Toni Servillo, si ispira a quella di Agostino Di Bartolomei. Ma anche i riferimenti calcistici vengono dalla realtà visto che lo schema dell'”uomo in più” porta la firma di un allenatore-gentiluomo nato a San Michele al Tagliamento, Ezio Glerean.

Glerean è arrivato alle soglie del grande calcio, ma non è riuscito a sfondare come forse la sua capacità di insegnare calcio avrebbe meritato. La sua strada, nel momento di massimo splendore, si è incrociata con quella di Maurizio Zamparini, il vulcanico presidente che ha saputo lanciare alla ribalta tanti allenatori quanti ne ha allo stesso tempo bruciati. Troppo garbato nei modi e nello stile, Glerean, per resistere ai ritmi del presidente mangiallenatori che lo incrociò nel momento più confuso della sua gestione, quello del “trasloco” da Venezia a Palermo, dove dopo un precampionato travagliato Glerean, nel 2002, riuscì a durare solo una giornata. A Palermo c’è chi ha fatto di peggio con tecnici come Pioli esonerati addirittura prima dell’inizio del campionato ma quella in Sicilia resta forse la grande occasione perduta del tecnico veneto in una squadra che, al di là delle bizarrie di Zamparini, arriverà in quegli anni alle soglie della Champions League.

All’alba del 2000 gli appassionati di calcio ed in particolare di tattica si stavano passando una voce: quello di Glerean poteva diventare un modello di gioco completamente nuovo, alla stregua del 4-4-2 sacchiano o del 4-3-3 zemaniano. Complice la moglie olandese ed alcuni viaggi ad Amsterdam Ezio era passato spesso dalle parti del campo d’allenamento dell’Ajax ed aveva studiato un’idea di gioco, nata a Sandonà e perfezionata al Cittadella, assolutamente inedita per il calcio italiano. Era nato il 3-3-4, interpretazione estrema della zona che come detto aveva portato il piccolo Sandonà tra i professionisti ed il Cittadella per la prima volta in Serie B, con la piccola squadra in provincia di Padova capace di sbaragliare concorrenza anche più attrezzata nei play off, prima dalla C/2 alla C/1 e poi dalla C/1 alla B.

Le peculiarità di questo modulo sono state illustrate a grandi linee nel film: serve una difesa a tre con centrali bravi nel gioco aereo e nell’uno contro uno, tre mediani capaci di avere cuore e polmoni per correre a tutto campo e recuperare palloni, e soprattutto quattro attaccanti capaci di produrre un pressing continuo sul portatore di palla avversario, per non mandare in sofferenza gli altri reparti, e di dialogare fra loro con rapidi scambi di palla. Una ricetta avveniristica che ha dimostrato di funzionare nelle categorie inferiori, ma per Glerean è mancato il grande salto, l’allenatore-galantuomo che (caso più unico che raro nel calcio di oggi) non ha neanche un procuratore, non ha mai trovato il suo “uomo in più”, ovvero un presidente deciso a scommettere su di lui a grandi livelli, forse complice la lenta fine della rivoluzione della zona, iniziata oltre venti anni prima del miracolo-Sandonà e del 3-3-4, che ne resta ancora l’espressione più estrema, affascinante ed al momento ancora non del tutto esplorata. Oggi Glerean allena a Marostica, tra i dilettanti: la sua passione per cercare nuove formule e trovare un uomo in più in un calcio che sembra aver ormai già detto tutto non si è ancora spenta.

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Allenatori Club Fabio Belli

Il Real Torino di Emiliano Mondonico

di Fabio Belli

Che notte quella notte! Lo stadio Delle Alpi pieno zeppo lo si vedeva raramente, soprattutto quando era la sponda granata di Torino a giocarci: la scomodità e la scarsa visuale non invogliavano di certo una città che stava già iniziando a perdere, pian piano, quella contrapposizione storica che faceva di Toro-Juve uno dei derby più belli del mondo.

Ma quella notte non c’erano le luci perché non era San Siro, ma i tifosi del Toro ricordano che erano tutti lì: una volta si diceva “torinisti”, quando la voce di Ciotti graffiava ancora fuori dalla radio, oggi basta dire “del Toro” e già la cosa in sé richiama tutta una serie di sventure calcistiche, più che Corride e melodie spagnoleggianti. Per questo ricordare quella notte, che di spagnoleggiante ebbe molto, fa quasi strano per chi del Toro conosce tutto: perchè la leggenda granata in Italia è già consegnata alla storia, ma a livello internazionale la maledizione aleggia più forte che mai. Perchè il “Grande” non fece in tempo a lasciare il Segno della Storia agli albori della Coppa dei Campioni, perchè il Puliciclone si infranse sulle montagne del calcio atletico degli anni ’70, e perchè le altre campagne europee si risolsero nella classica tempesta in un bicchier d’acqua.

Ma quella notte, proprio quella notte, la curva Maratona sapeva che stava accadendo qualcosa di speciale, anche se non immaginava che quelli sarebbero stati gli ultimi, veri, anni ruggenti per il club, almeno per il momento. Ma il 15 Aprile del ’92, un anno prima di alzare l’ultimo trofeo della sua storia, la Coppa Italia 1993 strappata alla Roma, il Torino affrontava il Real Madrid nella semifinale di ritorno di Coppa UEFA. Proprio il Real Madrid, a Torino a giocarsi una finale europea col Toro, nella stagione in cui la Juventus dopo quasi quarant’anni non partecipava alle Coppe.

Un sogno, e ancora oggi a sgranare come un Rosario la formazione di quella sera (Marchegiani, Bruno, Mussi, Fusi, Annoni, Cravero, Scifo, Lentini, Casagrande, Martin Vazquez, Venturin) i tifosi granata hanno la consapevolezza che al di là dei miti di Superga e degli anni ’70, i tempi belli sono esistiti eccome. C’erano Lentini, pieno di talento e di imprevedibilità, Scifo e Martin Vazquez (strappato l’anno prima proprio al Real, a suon di miliardi!) che portavano l’esperienza internazionale, e soprattutto in panchina c’era un allenatore destinato a restare nel cuore della Maratona, per una sedia alzata in cielo per protestare contro l’ennesima grande ingiustizia subita dai granata, nella finalissima contro l’Ajax.

Eh sì, perché quella notte impossibile sembra ancora oggi tale proprio perché ci fu un lieto fine strepitoso, quasi inedito nella tormentatissima storia del Toro: 2-0 in casa alla squadra più prestigiosa del mondo, un’autorete di Rocha e un gol di Fusi spalancarono le porte del Paradiso, la prima finale europea. Ma il Toro, che altrimenti non sarebbe il Toro, quella finale la perse, tra pali colpiti e rigori negati ad Amsterdam che scatenarono l’ira del “Mondo” di cui sopra. Poi le strade si separarono, e per il Torino furono solo dolori almeno fino alla metà degli anni duemiladieci. Nella speranza di tornare presto a giocare una partita così con uno stadio così. Eh già, che notte quella notte, e che bello per un tifoso granata soprattutto pensare che c’è stata davvero.

 

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Aleksandar Arangelovic: il “bomber profugo” di Cinecittà

di Fabio BELLI

A Roma le ferite della Seconda Guerra Mondiale, alla fine degli anni Quaranta, si potevano vedere agli angoli di tutte le strade. Dal centro crocevia di destini, fino alle periferie nelle quali si concentravano i pezzi di umanità che covavano i dolori più profondi, gli abitanti della Città Eterna cercavano disperatamente di ripartire aggrappandosi a brandelli di normalità. Tra di essi, il calcio è uno dei riti che ha saputo rimettersi in moto più in fretta e la rivalità tra Lazio e Roma tornava lentamente a dividere ma in un certo senso anche unire una città dalle mille anime.

Roma 1949/50
Roma 1949/50

Nel 1949 i soldi però scarseggiano, e non poco. A passarsela peggio in città è la Roma che, dal momento della sua fondazione, aveva vissuto un crescendo che aveva portato allo scudetto del 1942. L’essere però il frutto di più anime calcistiche, nato dalla fusione del 1927, ha portato il club ad una dispersione d’energie che si fa sentire soprattutto a livello economico. E’ l’anno della transizione tra il presidente dell’immediato dopoguerra, Pietro Baldassarre, e Pier Carlo Restagno, che resterà in carica tre anni conoscendo l’onta dell’unica retrocessione in Serie B ma anche il riscatto dell’immediata risalita. Ad ogni modo per tirare su una squadra in grado di affrontare il campionato 1949/50 occorre fare di necessità virtù e l’idea geniale per la Roma giunse da Cinecittà ed anche per i tempi non era di certo convenzionale.

Nel popolare quartiere Mecca del cinema italiano, infatti, tra i prati sterminati dell’epoca sono anche siti momentaneamente molti campi che ospitano profughi di guerra. E’ proprio lì che la Roma scova Aleksandar Arangelovic, all’epoca ventisettenne (anche se alcune note biografiche suggeriscono che poteva in realtà avere due anni in più). Jugoslavo apolide con una passione per il calcio sfiorita a causa delle miserie della guerra. Finito in fuga in povertà a Roma, Arangelovic era stato in realtà un calciatore di professione. Aveva giocato col Padova ed anche col Milan quando i tornei ufficiali erano stati però già stati sospesi e, si venne poi persino a sapere, aveva sostenuto un provino con la Lazio che non era però riuscita a superare dei problemi legati al suo tesseramento. Arruolato nella squadra giallorossa al minimo del salario, in attesa di riprendere un’adeguata forma fisica, Arangelovic divenne in men che non si dica un idolo della tifoseria giallorossa, tanto da diventare un vero personaggio ospitato anche da artisti come Mario Riva e la compagnia Dapporto durante spezzoni trasmessi nei cinegiornali.

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Arangelovic al Novara

La sua specialità era la “bomba“, ovvero il tiro micidiale che sapeva scoccare anche da fermo. Un vero e proprio tratto distintivo che ne faceva anche un mago delle punizioni. In quell’anno la Roma si guadagnò il soprannome di “ammazzasquadroni” perché, pur lasciando per strada punti contro molte squadre modeste, riusciva a collezionare scalpi di formazioni in lotta per il titolo. Arangelovic era l’arma segreta della squadra, capace di far ammattire il fuoriclasse svedese Gren in un Roma-Milan d’altri tempi. Concluse il campionato con l’eccellente bottino di undici reti e con quattro doppiette inflitte all’Atalanta, alla Lucchese, al Venezia ed al Palermo.

A fine partita, dopo aver compiuto prodezze nella massima serie, se ne tornava a Cinecittà negli alloggi per i rifugiati. Un simbolo della precarietà dell’epoca, ma anche della voglia di riscatto che pervadeva Roma e tutta l’Italia. “Ce pensa l’Arcangelo“, cantilenavano allo stadio i tifosi giallorossi riadattando il nome di quello slavo dallo sguardo misterioso che tenne a galla la squadra, salva alla fine per due punti, con i suoi gol. E la Roma aiutò a sua volta Arangelovic a rimettersi in pista: restò a giocare in Italia, al Novara, e poi riprese a girare il mondo, prima al Racing di Parigi e poi all’Atletico Madrid prima di intraprendere, da vero pioniere, la carriera di allenatore in Australia.

 

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Washington Cacciavillani: la “meteora” con un leone al guinzaglio

di Fabio BELLI

Anni ’50: il periodo in cui l’infatuazione del calcio italiano verso quello sudamericano tocca i massimi storici. La promessa di talenti “tanto al chilo” che giungono via nave da oltreoceano è troppo allettante e produrrà quella che, fino al ’66, l’anno dell’ignominiosa Corea per la nazionale azzurra, sarà ricordata come l’invasione degli oriundi. Nel 1955 tra di essi c’è anche un quasi ventiduenne “punteiro” uruguaiano di buone speranze, tanto che l’Inter decide di scommettere su di lui: Washington Cacciavillani.

I nerazzurri, dopo il settimo scudetto della loro storia conquistato nel ’54, non hanno saputo ripetersi concludendo la stagione 1954-55 con un deludente ottavo posto. C’è dunque la necessità di un rinnovamento che passa attraverso l’ascesa alla presidenza di Angelo Moratti, il quale avvierà un ciclo lungo ben 13 stagioni. Ma la storia di Cacciavillani sembra ricalcare, con 40 anni di anticipo, quella delle meteore che dalla seconda metà degli anni ’90 in poi contraddistingueranno la presidenza del figlio Massimo.

I tifosi che possono leggere sui quotidiani dell’ingaggio di “Cacciavillani dal River Plate” fanno voli pindarici per un brevissimo lasso di tempo: nelle pagine interne è specificato che il giocatore non arriva dai mitici “Millionarios” di Buenos Aires bensì dal meno blasonato River Plate di Montevideo, Uruguay.

Ad ogni modo la maglia nerazzurra Cacciavillani la vedrà in pratica solo col binocolo: in due anni in prestito alla Pro Patria “El Chico” (questo il suo soprannome) realizzerà la miseria di tre gol. L’Inter nel frattempo alterna quattro allenatori (Campatelli, Meazza – due volte – Ferrero e Frossi) in un parallelismo nella gestione Angelo-Massimo Moratti che col senno di poi ha dello sbalorditivo. L’unica presenza in campionato di Cacciavillani nell’Inter arriva nella stagione 1957/58 con Jesse Carver allenatore, poi un altro giro in Coppa Italia e l’addio definitivo a Milano, in un lungo pellegrinaggio verso sud: Ravenna prima e Casertana poi ma dal 1957 al 1960 “El Chico” realizza (con i romagnoli) un solo gol in partite ufficiali. Carattere sudamericano DOC, la disciplina del Nord ne mortifica l’estro e l’incedere in campo sbilenco, per quanto abbastanza rapido per l’epoca, non aiuta.

Il colpo di fulmine però arriva nel 1960: a Siracusa, in Serie C, trova la sua dimensione non tanto dentro il campo (in quattro stagioni e 107 presenze, solo 6 gol), ma fuori. Cacciavillani si stabilisce in Sicilia e non la lascerà mai più: chiude la carriera tra i dilettanti del Floridia, quindi inizia un’avventura lunga più di vent’anni da allenatore nell’isola: giovanili del Siracusa, Canicattì, Trapani, Modica in ordine sparso. Sempre nelle serie inferiori ma con la possibilità di essere sé stesso, dimenticando le nevrosi milanesi: la leggenda narra di alcune sue passeggiate per il lungomare di Siracusa con un cucciolo di leone (simbolo degli aretusei) al guinzaglio.

Nato il 1 Gennaio del 1934, Cacciavillani muore nel 1999 sempre nel giorno di Capodanno: un percorso circolare per un personaggio che ha riversato la sua estrosità più fuori che dentro il campo.

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Abe Van Den Ban: i baffi più esagerati della storia del calcio

di Fabio BELLI

Le figurine dei calciatori per i bambini restano il feticcio per eccellenza per tutti coloro che in tenera età si sono avvicinati alla magia del football. In Italia da oltre mezzo secolo la Panini di Modena rappresenta il totem attorno al quale tanti piccoli appassionati hanno vissuto campionati paralleli fatti di scambi e sogni, e inevitabilmente nell’immaginario collettivo certi personaggi sono entrati più degli altri, magari per una nota nel look più stravagante, soprattutto dalla seconda metà degli anni settanta in poi, quando l’immagine dei calciatori ha iniziato a divenire col tempo sempre meno impersonale.

vandebanxs51Quella delle figurine è un’abitudine estesa non soltanto al territorio italiano e, in quasi tutti i paesi europei, le stelle del calcio venivano immortalate e poi scambiate per finire negli album sulle pagine delle rispettive squadre. E mentre in Italia Pizzaballa diventava la figurina rara per eccellenza, a cavallo tra gli anni settanta ed ottanta in Olanda un personaggio stuzzicava la fantasia dei ragazzini dei Paesi Bassi. Si trattava di Abe Van Den Ban, centrocampista di grande grinta ma modesto spessore, capace però di diventare, per la lunga militanza nel club, una leggenda dell’Haarlemsche Football Club, meglio conosciuto semplicemente come Haarlem dalla città di appartenenza. Van Den Ban aveva una particolarità incredibile nel suo ritratto: due lunghissimi baffi stile anni venti, assolutamente anacronistici anche per i tardi ’70, in cui pure barba, baffi e capelli lunghi avevano cominciato a diventare d’ordinanza anche tra i calciatori.

Il look di Van Den Ban non aveva nulla a che vedere con il retaggio della contestazione giovanile sessantottina, con i volti volutamente trasandati di Gigi Meroni, Paul Breitner o tanti altri. Il modello di Abe poteva essere al limite l’investigatore Hercule Poirot, ma neppure il personaggio nato dalla fantasia di Agata Christie, pur provvisto di lunghi mustacchi, si sarebbe spinto a tanto. I baffi di Van Den ban erano oversize e lo sono stati per tutta la durata della sua carriera, consumatasi dopo un’ottantina di presenze tra del fila del FC Amsterdam (con tanto in incrocio in Coppa UEFA contro l’Inter) nell’Haarlem, formazione nella quale arrivò a collezionare quasi 150 presenze in Eredivisie. All’alba degli anni ’80, il ritiro che coincise con l’età d’oro del club, della quale fece parte come allenatore delle giovanili.

All’Harleem Van Den Ban aveva, anche per il suo carattere gioviale ed istrionico, un grandissimo ascendente e così rimase ad allenare i ragazzi di quello che all’epoca era un fiorente settore giovanile. E così nel 1982 il club arrivò fino alla ribalta europea del secondo turno di Coppa UEFA disputato contro lo Spartak Mosca, mentre Van Den Ban iniziava a curare la crescita calcistica di alcuni talenti cristallini del calcio olandese. Uno di essi, Ruud Gullit, era destinato a raggiungere i vertici massimi del calcio mondiale. Già conquistato dalla pettinatura afro con le caratteristiche treccine, Gullit si ritrovò a farsi crescere anche un paio di baffi, forse in contrasto con la sua capigliatura, ma in omaggio al suo maestro Van Den Ban, che ancora oggi è un’icona di stile in Olanda. Sono state prodotte maglie con la sua effige, è stato protagonista di “un venerdì coi baffi“, campagna che esortava gli uomini ad esibire i baffi come segnale di consapevolezza riguardo il cancro alla prostata ed ha allenato una squadra di blogger che portavano nello stemma sulla maglia la sua faccia baffuta. Che resiste nel tempo, con qualche ciuffo grigio in più.

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Verona 1985: l’ultimo eroico scudetto della provincia

di Fabio BELLI

Lo scudetto del 1985 resta forse l’ultimo da un sapore antico, quando nel calcio le idee non sempre contavano più dei soldi, ma potevano farcela. Lo vinse il Verona, l’Hellas, quando ancora non c’era bisogno di specificarlo, perché il Chievo non era neanche mai stato tra i professionisti, e non giocava neanche al Bentegodi ma al Bottagisio, dove è ancora affissa la targa “campo parrocchiale“. L’Hellas era il Verona, per tutti, e vinse un campionato pazzesco, in una serie A, ancora a sedici squadre, che iniziava proprio allora a veder sbocciare quello che sarebbe stato un quindicennio di dominio mondiale del calcio italiano.

veronaIl Verona vinse il titolo nell’anno in cui in Italia arrivò Diego Armando Maradona, il più importante calciatore del mondo, che a Barcellona, complice un grave infortunio e una clamorosa rissa contro l’Athletic Bilbao, non ebbe tutta la fortuna che si aspettava. C’erano la Juventus di Platini, l’Inter di Rummenigge, la Fiorentina di Antognoni, la Roma di Falcao. Persino il Milan, dopo due anni di B, iniziava a rialzare la testa, mettendo le fondamenta per quella che sarebbe stata l’era-Berlusconi. Maradona giocò la sua prima partita di campionato in Italia proprio a Verona, con gli occhi del mondo puntati sul Bentegodi, quel 16 settembre del 1984: ma fu l’Hellas a vincere, tre a uno, giocando un calcio da favola.

Osservatori e commentatori non diedero troppo peso alla cosa: non lo fecero nemmeno quando i ragazzi di Osvaldo Bagnoli, tecnico abituato a mandare la provincia in Paradiso, mandarono al tappeto la Juventus alla quinta giornata, il 14 ottobre. A segnare un gol decisivo ci pensò un ragazzone danese, appena arrivato a Verona, che aveva un cognome tanto comune, Larsen, che per caratterizzarsi meglio nel mondo del calcio aggiunse quello della madre, e tutti lo conobbero come Elkjaer. Che segnò alla Juve con una delle sue caratteristiche galoppate, e tanta fu la foga che perse una scarpa, ma lui non fece una piega, continuò a correre e fece gol con un piede scalzo. Iniziarono a chiamarlo Cenerentolo, per la scarpa ma anche per ironizzare un po’ sul Verona, che uscì imbattuto dalle trasferte in casa di Roma e Inter, ma che tanto era destinato a crollare, ad andare al massimo in Coppa UEFA. Anche se la prima sconfitta in campionato arrivò a gennaio inoltrato, ad Avellino, il Verona fu campione d’Inverno, ma con l’Inter a un punto, ed il Torino a due, secondo gli esperti era solo questione di tempo e la sorpresa sarebbe rientrata nei ranghi.

E invece il girone di ritorno fu come il quello d’andata, perché gli scaligeri erano una macchina perfetta, sospinta dai gol di Elkjaer e Galderisi, dalle giocate di Pierino Fanna, imprendibile ala destra che sapeva far sognare solo in provincia, dalla concretezza del gigante tedesco Briegel, e dalle spettacolari parate di Garella. Il Verona uscì indenne dagli scontri diretti, non sbandò dopo l’unica sconfitta pesante della stagione, quella contro il Torino ancora lanciato all’inseguimento, ed i tifosi gialloblu, i butei, capirono che era fatta quando dopo Verona-Como 0-0, alla terzultima giornata, i giornali parlarono di festa rimandata, non di crollo imminente della cenerentola. Si erano convinti anche loro, ed il Verona festeggiò due volte: a Bergamo la matematica conquista del titolo, il 12 maggio del 1985. E davanti ai propri, impagabili tifosi la settimana dopo, battendo l’Avellino.

Lo scudetto dell’Hellas del 1985 resta unico perché è l’ultimo nato artigianalmente senza i favori del pronostico o una politica tesa esplicitamente a vincere. Il Napoli due anni dopo trionfò capitalizzando la presenza di un mito come Maradona, ma anche di una squadra costruita intorno a lui senza badare a spese. Quello della Sampdoria fu un progetto pluriennale, anzi in molti si aspettavano che la squadra costruita da Mantovani vincesse prima il titolo. Lazio e Roma, all’alba del 2000, videro concretizzarsi campagne acquisti miliardarie che nulla hanno a che vedere con quanto costruito a Verona in quegli anni: l’ultimo scudetto eroico di un calcio in cui tutto era ancora possibile.